Giochi e terapia
Intervista a Chiara Piccinni
Un THREEvial Pursuit di P. Tiziana Caudullo
In Storia di un gioco Chiara Piccinni aveva scritto della sua esperienza nella comunità nomade El Juego, raccontando il modo in cui si è costruita spontaneamente e descrivendo le modalità con cui opera. La storia di una nuova sperimentazione in ambito psicologico, nata d’altra parte in modo così inconsueto, non poteva passare inosservata. Abbiamo deciso quindi di porle qualche domanda.
Se dovessi dare una definizione de El Juego in poche parole, come lo definiresti?
Eh, in realtà dargli una definizione vera e propria mi è molto difficile, pur vivendoci dentro. L’espressione “laboratorio umano” è la prima che mi viene in mente se penso alla comunità, non conosco altre realtà che si siano sviluppate nella nostra stessa forma. El Juego, difatti, è un gioco. O meglio, Il Gioco.
Una minima definizione di quello che siamo potrebbe essere: una comunità nomade formata da persone di varie parti del mondo che vivono la “sanazione” terapeutica come un processo permanente e collettivo. Siamo un esperimento sociale, in processo di ufficializzarci come tale.
Quali sono i principi psicologici su cui la pratica de El Juego si basa?
Quello che abbiamo sempre fatto è prendere come riferimento il gioco. I bambini che giocano non hanno regole fisse, se non quelle che gli vengono al momento. Sfruttano l’intuizione e l’imprevedibilità.
Il principio psicologico è questo: studiare e fare nostre tutte le tecniche a cui possiamo arrivare e mescolarle in modo che ognuna abbia voce nel momento in cui serve di più. Per esempio, se durante una tecnica ci rendiamo conto che il “viaggiatore” è bloccato, ne utilizziamo un frammento di un’altra per far proseguire il gioco. Questo può anche voler dire non utilizzare una tecniche pura, ma quello che il nostro impulso ci consiglia possa servire al momento, sempre restando in connessione con la persona che riceve.
Qual è il fine delle attività proposte dalla comunità?
Siamo in continua sperimentazione delle tecniche e di tutto quello che le circonda.
Uno dei focus più presenti nella comunità è quello di individuare le strutture più scomode (che spesso si ereditano in maniera transgenerazionale) e trasformarle radicalmente in un “ordine interno” che ci sia più congeniale.
Il fine ultimo è la risoluzione di conflitti ad ampio spettro, quindi tutte le tipologie di conflitto. Il conflitto può essere verso se stessi, come alcuni comportamenti che possono provocare disagio nelle relazioni con gli altri, fino ad arrivare al conflitto verso se stessi inteso come malattia fisica. Inoltre trattiamo i conflitti nati tra due persone o tra gruppi. Grazie a queste tecniche ci siamo difatti avvicinati anche al mondo del team building con il focus all’armonizzazione dei gruppi di lavoro attraverso un confronto orizzontale delle parti in gioco.
Non credo si possa parlare tanto di “fine” della comunità, quanto d’intenzione collettiva. E l’intenzione è l’unica cosa che rimane fissa nel nostro volere, mentre tutto il resto è soggetto a rivalutazioni e cambiamenti. Abbiamo sintetizzato il nostro volere e i nostri valori in queste frasi:
”Por lo mejor de todas y para todas, por lo mejor de todos y para todos, por lo mejor de todo y para todo. Amor y Libertad”.
La nascita della teoria freudiana dell’inconscio non è poi così lontana. Molti ancora oggi hanno difficoltà a concepire una parte di sé rispetto alla quale non è possibile avere un’influenza cosciente. Pensi sia possibile raggiungere a livello globale una maggiore consapevolezza sulla propria psiche?
Se pensiamo all’inconscio collettivo come a un’enorme scatola chiusa a cui non è possibile accedere, sarebbe come asserire che non possiamo modificare nessun nostro atteggiamento, comodo o scomodo che sia perchè “siamo fatti così”. Partendo da questo dogma, qualsiasi tipo di terapia sarebbe inutile. Riprendo le parole di Jung: possiamo differenziare due tipi di inconscio, il personale e il collettivo. Se nel primo la radice del conoscimento è esperienziale, sia questa esperienza diretta, sia dei nostri predecessori, nella seconda opzione è collettivo, quindi non direttamente collegata allo scibile a noi “vicino”. Noi vediamo la persona come nodo di un tessuto interconnesso e, volendolo rendere a livello d’immagine, tridimensionale. Se ne deduce quindi che cambiando strutture scomode o modificando i nostri comportamenti in funzione di un appagamento personale, questa onda arrivi anche ai nodi a noi più vicini, scatenando così un effetto a catena nel nostro contesto e nella nostra collettività.
Secondo te la cultura occidentale costituisce un terreno fertile per una pratica come quella de El Juego? In che modo potrebbe avere un impatto sulla nostra società?
Mi chiedo in quale cultura potrebbe attecchire, se non proprio in quella occidentale. Basti pensare alla quantità ed eterogeneità di persone che si rivolgono a psicologi. Noi lavoriamo/giochiamo proprio sulle falle principali che abbiamo incontrato in questo sistema, forse troppo accademico; in altre parole, le tecniche comunemente proposte hanno tempi di risoluzione del “conflitto personale” molto lunghi, creando un rapporto di dipendenza con lo psicologo/terapeuta. Proprio questa dipendenza da qualcuno e dalla sua interpretazione (che possono essere lo psicologo, una pianta medicinale, etc) toglie all’individuo la responsabilità che ha verso il suo cambiamento, mentre noi crediamo fermamente che il cambio debba partire da una ferma decisione della persona e che lei stessa conosca la cura atta per la sua ferita, quindi accompagniamo la persona senza interpretazioni verso il suo cambio con gli strumenti e le tecniche con cui conviviamo tutti i giorni nella comunità, che continuiamo a sperimentare tra di noi, appoggiati da fonti esterne in modo da avere feedback che non siano totalmente involucrati nel complesso della nostra realtà.
Arriviamo al sodo: quali sono le modalità di gioco (se così si possono chiamare) proposte dalla comunità? Ognuno dei metodi permette un tipo di indagine differente?
Ogni persona che arriva alla comunità, che sia di passaggio o per ricevere una tecnica, è una fonte enorme di informazioni per ampliare la vista sulle tecniche e per aumentare il “cosciente collettivo” da cui attingiamo.
Le tecniche che utilizziamo hanno nomi che ad alcuni possono essere conosciuti, ma che abbiamo rivisitato e modificato a seguito di numerose sperimentazioni e che sono in continua evoluzione per renderle sempre più rapide ed efficaci.
Trattiamo la “Regressione”, una tecnica mirata al riconoscimento e cambiamento di strutture antiche tramite un viaggio nel nostro mondo interiore; poi abbiamo l'”Incontro”, una tecnica derivante da Osho, che serve molto nel caso di conflitto tra due persone. Terza è la “Respirazione”, un mix di varie tecniche atte a perdersi in una trance per liberare movimenti ed emozioni represse nel corpo, e a seguire la “Costellazione”, che aiuta nella visualizzazione e risoluzione di conflitti di un sistema gruppale, familiare e non. Infine troviamo le due tecniche nate nella comunità: la “Riconnessione” e il “Sogno” dove, se la prima è una mescolanza di varie tecniche focalizzata sul superamento di ostacoli verso la realizzazione dei propri obiettivi, la seconda è una dinamica creata con il fine di interagire e includere tutte le figure che si presentano nei nostri sogni.
Consideriamo l’essere in base a quattro dimensioni fondamentali: la mente, le emozioni, i bisogni e il corpo. Il nostro compito è di far cooperare e coesistere queste quattro dimensioni.
Considerata la quantità di tecniche che abbiamo a disposizione è possibile attaccare una struttura da più punti di vista terapeutici.
Che tipo di relazione si è instaurata tra la comunità e la sfera istituzionale-accedamica della psicologia?
Per quanto la comunità si sia formata in modo veramente poco accademico, per usare un eufemismo, nel corso del tempo siamo entrati in contatto con figure di spicco del panorama accademico colombiano che hanno voluto provare le tecniche e condividere con noi la loro esperienza. Tra questi sento di citare due dei nostri collaboratori esterni più presenti nello sviluppo e nella regolarizzazione delle attività della comunità. Il primo è sicuramente Raul Salamanca, fondatore dell’università di psicoanalisi di Medellìn con il quale stiamo facendo dei corsi attivi di psicopatologia clinica e psicodramma psicoanalitico attraverso la sua corporazione, il CIP, Centro di investigazione e intervento psicosociale.
Secondo ma non per importanza, Hector Aristizàbal, creatore del Teatro Rituale, di origine colombiana ma ormai conosciutissimo negli Stati Uniti e in Europa grazie ai suoi interventi pubblici. Entrambi ci appoggiano e seguono con interesse e partecipazione il nostro lavoro.
Oltre alla sfera accademica, ci sentiamo appoggiati da figure importanti del territorio indigeno quali Shamani e Taita (saggi delle riserve indigene). Per imprinting proprio della comunità e per il territorio in cui ci troviamo, non sarebbe nè voluto nè possibile ignorare il fortissimo impatto che queste figure spirituali hanno sul territorio.
Diciamo che ci sentiamo molto accompagnati da entrambi questi fronti e siamo orgogliosi di poter portare avanti queste due bandiere, ovvero il mondo accademico e il mondo spirituale, sotto una stessa voce.
Come vedi la comunità tra dieci anni? Quali obiettivi speri avrà raggiunto, e quale forma avrà assunto?
Quello che vedo è una grande terra dove la comunità possa crescere e possa dare veramente spazio a tutto ciò che possiamo accogliere e creare. Difatti stiamo realizzando un progetto di crowdfounding che possa aiutarci nella realizzazione del nostro sogno.
Quello che vedo di più, una volta raggiunto l’obbiettivo della terra, è la realizzazione di un università libera dove si possano insegnare le tecniche e dove si possa provare l’esperienza reale di vivere in una comunità autonoma e autogestita dove la responsabilità dell’individuo verso il collettivo sia totale e soddisfacente e dove tutti possano mescolare i loro sogni e i loro talenti con quello che è l’applicazione terapeutica e lo sviluppo di una coscienza collettiva.
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