Gaming e fughe dalla realtà
di Dario Petrelli

I videogames stanno conquistando la realtà
(e non siamo in grado di parlarne nel modo giusto)
Ero tutto preso a esplorare il terrazzo di quell’edificio alla ricerca di munizioni, quando un drone militare inviato da chissà dove ha iniziato ad accecarmi e confondermi con dei fasci di luce artificiale. Mi trovavo in una cittadina arsa dal sole e abbandonata, dalle costruzioni in cemento ormai fatiscenti – ero atterrato lì da circa due minuti e non avevo ancora incontrato nessuno, ma l’arrivo di quel drone significava che qualcuno in effetti c’era. E mi stava attaccando.
*musichetta carica di suspense in sottofondo*
Per sfuggire a quei raggi luminosi che mi impedivano di controllare l’area circostante mi sono precipitato per le scale, portandomi al chiuso dove non potevano seguirmi.
Accovacciato in un angolo del desolato appartamento sottostante aspettavo che il nemico provasse a raggiungermi dai piani inferiori, fucile spianato e pronto a far fuoco non appena l’avessi visto far capolino. Ma quello non si decideva e così ho allungato lo sguardo verso le grandi finestre dell’appartamento, da cui potevo sorvegliare le strade della zona. Ormai mancava poco allo spegnimento di quel maledetto rompiballe meccanico.
All’improvviso quella che pareva una sagoma umana all’interno di un edificio simile al mio, a una trentina di metri di distanza, ha catturato la mia attenzione. Sarà trascorso un secondo, non di più, mentre cercavo di capire se fosse davvero una persona o se si trattava di una colonna o che so io. Al termine di quel secondo ero morto.
La sagoma aveva aperto il fuoco centrandomi attraverso finestre e appartamenti, lì nel mio caro angolino in cui mi ero sentito tanto al sicuro. Dopo meno di tre minuti venivo così eliminato dalla Battle Royale di Call of Duty Mobile, uno dei multiplayer online più giocati di questi tempi su smartphone, e mi incazzavo come una iena: per aver perso così in fretta, contro un avversario che non mi aveva dato nemmeno il tempo di capire come difendermi.
Sconfitte come questa mi fanno rosicare parecchio, e se poi devo smettere di giocare possono volerci diversi minuti per tornare davvero alla realtà: devo prima levarmi il gioco dalla testa. In quei momenti la mia ragazza mi guarda e scuote il capo, un po’ divertita e un po’ in segno di rimprovero. In realtà gioca anche lei e molto spesso giochiamo assieme, ma lei sa accettare molto meglio di me le sconfitte. Il ché dice qualcosa sul mio essere un rosicone, probabilmente, ma anche sulla presa che prodotti simili possono avere sui giocatori.

Battle Royale
Ho scaricato CoDMobile a fine marzo, in pieno lockdown, convinto dagli inviti e dalle recensioni dei vari amici che ci giocavano già da tempo o avevano preso a farlo in quei giorni – anche ragazzi e ragazze insospettabili, che non avevano mai maneggiato uno sparatutto prima e oggi affrontano battaglie virtuali con una sicurezza da veterani. Per me,
che pensavo di conoscere già abbastanza bene il mondo degli FPS (First-Person Shooter) avendoli giocati sia su consolle tradizionali che nella loro declinazione smart, è stata invece un’occasione per scoprire il genere della Battle Royale.
Avete presente le Battle Royale, no? Si tratta della modalità multigiocatore resa celebre da Fortnite (sebbene esistesse da prima di Fortnite) e ormai riproposta in varie salse da una moltitudine di titoli sparatutto di successo. In parole povere funziona così: vi paracadutate da un qualche velivolo su un vasto territorio dimenticato da Dio insieme ad altre decine di giocatori, raccogliete armi e kit medici, cercate di uccidere tutti gli altri partecipanti e di non farvi uccidere a vostra volta. Vince l’unico (o l’unica squadra) che rimane in vita. Fine.
Ovviamente poi ogni titolo arricchisce questa modalità attraverso la caratterizzazione della mappa e dei suoi scenari (città fantasma, porti, foreste, ecc.), la possibilità di trovare armi sempre diverse ognuna con le proprie caratteristiche, veicoli da guidare per viaggiare più velocemente, e così via. Tutto molto accattivante, e anche funzionale allo scopo di differenziare l’offerta di un prodotto da quella molto simile di un competitor (preferisci lo stile cartoonish di Fortnite o quello più realistico di PUBG? Il set di abilità speciali presente in Apex Legends o quello di CoD?).
Ma la sostanza, il cuore dell’esperienza di gioco, resta invariata: quando partecipi a una Battle Royale sei solo contro tutti su una landa di terra abbandonata, costretto a sparare verso qualunque cosa si muova per sopravvivere; se il tuo avatar viene ucciso sei fuori, non rientri in partita da un qualche savepoint (a meno che non giochi nella modalità a squadre, dove di solito hai qualche chance di essere riportato in vita). Una sorta di simulatore, se vogliamo, per provare il brivido di una lotta senza regole per la sopravvivenza.
Quello del last-man-standing è un genere che ha iniziato a spopolare tra i videogames dopo il successo di opere come Hunger Games, e la sua evoluzione (di cui non approfondisco la storia per non plagiare spudoratamente la pagina di Wikipedia ad essa dedicata, piena di dettagli interessanti e a cui vi rimando) ha portato all’affermazione di un prodotto a modo suo unico, per i livelli di eccitazione e coinvolgimento che può generare nel giocatore.
Un coinvolgimento tale da attirare l’attenzione dei media mainstream, sempre pronti a raccontarne le derive più inquietanti e le testimonianze dei tanti genitori in ambasce per la salute psicofisica dei loro figli che non riescono a smettere di giocarvi.
Anche se non avete mai avuto a che fare con le Battle Royale, infatti, è altamente probabile che vi sia capitato di leggere da qualche parte sul web di ragazzini che continuano a giocare a Fortnite nonostante l’arrivo di un tornado – o, più banalmente, nonostante debbano andare in bagno. Magari saprete pure che non sono solo i più giovani a subire le conseguenze negative di questa fascinazione, dato che nel Regno Unito lo stesso gioco pare sia stato menzionato in centinaia di casi di divorzio.
Ne avrete dedotto che è il solito discorso polarizzante sui videogiochi che fanno male e creano dipendenza, il solito dibattito inconcludente e superficiale che non porta da nessuna parte. E in effetti il più delle volte l’approccio è proprio quello, sebbene vi siano elementi che dovrebbero indurci a riflettere sulla direzione intrapresa da certi attori non solo nel mondo del gaming, ma in quello delle piattaforme digitali in generale.
L’irresistibile variabilità della ricompensa
Ogni tanto nelle Battle Royale si vince anche. Il finale di partita è forse la fase più ansiogena: sei lì con la tensione a mille perché diamine, non vorrai perdere proprio adesso che è rimasto un solo avversario – un solo sopravvissuto, come te, all’ennesimo massacro virtuale. Di solito, subito dopo un duello particolarmente tirato riesco a sentire per qualche secondo il mio cuore che batte forte. Manco fossi appena scampato a una reale situazione di pericolo.
La vittoria è probabilmente il momento che più di tutti rivela la portata addictive delle Battle Royale: il rilascio della famigerata dopamina, che secondo molti sarebbe alla base dell’insorgenza di varie dipendenze patologiche, ti gratifica nell’istante in cui capisci di aver avuto la meglio su altri 99 giocatori. Ma sono diversi gli aspetti di questa modalità di gioco che hanno l’effetto di tenere il player incollato allo schermo.
Ci sono gli immancabili “intermittent variable rewards”, ad esempio, ossia quel meccanismo già ampiamente sfruttato da social media, app e casinò di tutto il mondo, che consiste nel dare all’utente la possibilità (ma non la certezza) di ricevere un premio in
seguito a una precisa e semplice azione (il refresh della pagina nella speranza di una nuova notifica, come la leva di una slot machine); la prospettiva di una ricompensa dall’entità variabile ci spingerebbe infatti a compiere quell’azione ripetutamente, come spiegato da Tristan Harris in un famoso articolo per Medium di qualche anno fa.

Tale meccanismo trova già da tempo espressione nei videogames attraverso le “loot boxes”, forzieri dal contenuto casuale che il giocatore può ottenere come premio per i suoi progressi o acquistandoli con soldi veri (il ché è un po’ un problema dato che se stai spendendo soldi non per un oggetto ma per la speranza di riceverlo, beh, c’è qualcosa che non va). Ad ogni modo, nel caso delle Battle Royale potremmo dire che il ruolo delle ricompense variabili va oltre le loot boxes e arriva al punto di condizionare le meccaniche di gioco: anche mentre inizi una partita, stai tirando la leva di una slot machine.
Quando atterri in un qualsiasi punto della mappa di gioco, infatti, non hai idea di quali e quante armi troverai nei dintorni, perché l’allocazione delle risorse è casuale e viene resettata ad ogni match; né sai con certezza quanti avversari sono scesi nella tua stessa area. Non c’è un modo per esser sicuri di riuscire a formare un equipaggiamento competitivo in tempo utile per non soccombere, ti tocca scommettere: potresti raccogliere tu per primo le armi migliori assicurandoti un vantaggio sui rivali, come potresti perdere in poco tempo sotto una pioggia di colpi.
Secondo alcuni, la componente di randomness – che potremmo definire come l’insieme degli elementi casuali all’interno della Battle Royale – è stata decisiva per il successo di Fortnite: il fatto che certe dinamiche della partita risultino incontrollabili sortirebbe l’effetto di incoraggiare i giocatori alle prime armi (anche il player più scarso o inesperto, con un po’ di fortuna, può arrivare fino alle fasi finali o addirittura vincere) e allo stesso tempo stimolerebbe i veterani a cercare di migliorarsi costantemente, trovando strategie sempre più efficaci per tentare di dominare il caos.
Quando si gioca da mobile o tablet, inoltre, non mancano quegli espedienti classici delle app free-to-play come le ricompense per l’accesso giornaliero, gli eventi settimanali e l’invio di notifiche durante la giornata per ricordare all’utente che se non torna a giocare al più presto si perderà un sacco di cose fantastiche.
Insomma, a ben guardare il design di questi videogames, è difficile non concordare con chi accusa le loro case di sviluppo di voler creare assuefazione nei giocatori. Questi giochi sono progettati per tenere l’utente connesso il maggior tempo possibile, in modo da aumentare le probabilità che spenda soldi in acquisti interni al gioco.
Se la maggior parte delle Battle Royale più famose sono fruibili gratuitamente, infatti, tutte quante offrono al giocatore la possibilità di comprare oggetti per personalizzare il proprio personaggio virtuale. Nonostante si tratti quasi sempre di accessori estetici (costumi,
esultanze, balletti…) che non aggiungono nulla a livello di prestazioni durante la partita, il volume di microtransazioni effettuate ogni giorno in operazioni di questo tipo genera profitti annui per miliardi di dollari.
Ma ha senso puntare il dito contro questi prodotti – arrivando poi in molti casi a prendersela col mondo del gaming tout court – perché colpevoli di lucrare sulla dipendenza dei loro utenti, quando tutte le grandi piattaforme dell’ecosistema digitale sfruttano le stesse tecniche già da anni?
Tecniche mutuate spesso proprio dalla sfera del gaming, in quel processo che prende il nome – per l’appunto – di “gamification”: scaliamo livelli se rilasciamo tante recensioni su Google Maps o Trip Advisor; otteniamo dei premi se siamo costanti nel connetterci a questa o quella app; veniamo gratificati dai like (la cui quantità è variabile) se postiamo contenuti che intrattengono gli altri utenti sui social network… diciamo pure che le compagnie del web devono molto al design dei videogiochi, preso a modello per lo sviluppo di incentivi sempre più efficaci a rimanere collegati.
E se il problema di prodotti come le Battle Royale è legato al loro carattere violento e ipercompetitivo e all’influenza diseducativa che avrebbe sulle fasce di giocatori più giovani, cosa dire allora dell’impatto di social media e piattaforme streaming con tutto il narcisismo, l’odio, le fake news e i complottismi che si portano dietro?
Scavare più a fondo
Quando l’OMS, un anno fa, ha inserito la dipendenza dai videogiochi (“gaming disorder”) nella sua ICD – International Classification of Diseases, una lista che funge da standard di riferimento per la diagnosi di malattie e problemi di salute in tutto il mondo – molti psicologi ed esperti al di fuori dell’Organizzazione l’hanno criticata apertamente.
Tra i motivi, il fatto che gli stessi criteri utilizzati dall’OMS per valutare la dipendenza dei gamers (ad esempio l’occupare troppo tempo coi videogiochi finendo per trascurare relazioni sociali, scuola, lavoro, ecc; oppure, giocare molto nonostante il verificarsi di conseguenze negative) potrebbero essere impiegati per indagare anche altre attività digitali, finendo probabilmente per rilevare sintomi e comportamenti compulsivi molto simili.
Si tratta di un fenomeno ampio, insomma, che andrebbe inquadrato nel modo giusto. Ponendosi le domande giuste. Come scriveva Marc Lewis, neuroscienziato ed esperto in materia di dipendenze patologiche, qualche tempo fa sul Guardian nel commentare la presa di posizione dell’OMS:
“Le etichette psichiatriche che identificano dei problemi psicologici, distinguendo tra di essi, possono essere utili per spingerci a prestare attenzione. […] Ma per identificare una dipendenza, abbiamo bisogno di scavare più a fondo – di chiederci cos’è che manca alle persone e che le spinge a dedicarsi a qualcosa in maniera compulsiva. E questo è molto più complicato.”
Già, cos’è che manca, e che ci rende irrequieti? Forse gli obiettivi e le missioni che perseguiamo nelle nostre vite online sono più eccitanti di quelle che dobbiamo svolgere nella realtà di tutti i giorni. O forse il problema è che la realtà di tutti i giorni sta diventando sempre più ostile e frenetica: pandemie, guerre, crisi economiche, crisi ambientali, crisi democratiche… è una crisi continua là fuori, e star dietro a tutto quello che succede è dannatamente difficile.
Ciò che le grandi aziende del digitale ci offrono, allora, è la possibilità di aggirare disagio e insicurezze, rifugiandoci in contesti fittizi che divengono sempre di più i nostri luoghi di riferimento. Sono le comfort zone della nostra epoca: il bingewatching su Netflix o YouTube, il racconto filtrato e sempre scintillante delle vite nostre e degli altri su Instagram… e i videogiochi, ovviamente.
Il settore del gaming è forse quello che ha saputo rispondere meglio di tutti al desiderio di evasione del nostro tempo, e lo dimostrano i numeri riguardanti la grande crescita di gamers avvenuta negli ultimi anni; numeri che hanno subito un’impennata clamorosa, come e più di tutte le altre attività digitali, durante il periodo di lockdown (a riprova del fatto che più la realtà si fa ostile, più ci avvaliamo di questo medium).
Ma aldilà delle statistiche, per capire la centralità che i videogames stanno assumendo nelle nostre vite basta osservarne la crescente capacità – di solito associata ai social media – di fagocitare categorie appartenenti alla sfera dell’intrattenimento: nel mondo di Fortnite si
esibiscono le vere rap-star del momento in concerti spettacolari e interattivi, in quello di Animal Crossing vanno in onda talk show che ospitano gli avatar di veri attori di Hollywood. Eventi a cui si può assistere o partecipare attraverso i propri personaggi virtuali, in compagnia di amiche o amici o anche persone conosciute online – la socialità, del resto, è uno degli incentivi più efficaci in assoluto.
Le Battle Royale altro non sono, quindi, che una delle derive più adrenaliniche e totalizzanti del videogioco come strumento di fuga dalla realtà. Quando ci giochi, non hai tempo né spazio per pensare ai problemi del quotidiano, tutto teso come sei a tentare di pararti le chiappe per arrivare fino alla fine.
Il loro design addictive rappresenta forse delle criticità che rendono questi prodotti potenzialmente dannosi per chi non riesce a staccarsene (giovane o non giovane che sia)? Può darsi, per quanto nel campo della ricerca medica e scientifica siano lontani dal trovare un vero consenso attorno alla questione.
Riflettere su questi aspetti in ogni caso è importante, ma il modo in cui lo stiamo facendo rappresenta almeno due problematiche. La prima: se fissiamo lo sguardo solo sulle Battle Royale, o sul gaming, perdiamo di vista il fatto che è l’intero sistema economico digitale a essere governato da grandi compagnie i cui profitti sono indissolubilmente legati alla capacità di drenare il tempo e l’attenzione degli utenti, attraverso ogni sorta di incentivo e tipologia di contenuti.
La seconda ha invece a che fare col nostro modo di rapportarci alle forme di dipendenza, inquadrandole come una patologia che colpisce chi non sa controllarsi o come la naturale conseguenza di prodotti pericolosi che danno assuefazione. Prospettive che adottiamo per semplificare (“la droga è brutta e chi la assume è debole”), ma che ci impediscono di cogliere l’ampiezza di certi fenomeni sociali e le motivazioni profonde alla loro base.
Il trasferimento di porzioni sempre più grandi delle nostre vite dall’offline all’online, alla ricerca di gratificazione e semplicità, è qualcosa che riguarda la società tutta. Si tratta di un processo in essere già da anni e destinato a rafforzarsi nel tempo. È di per sé sbagliato, pericoloso o controproducente? Non necessariamente. Sta accadendo in fretta, senza che si riesca a comprenderlo appieno e a sviluppare una piena consapevolezza riguardo cause ed effetti? Pare proprio di sì.
Nell’attesa che si formi un dibattito in grado di superare la solita dicotomia tra “apocalittici e integrati” del contesto tecnologico in cui ormai viviamo – e sempre di più vivremo – penso proprio che mi farò un’altra partita a CoD Mobile. Una sola, prometto. Tranne se perdo subito.
