Chiara-Francia 0-1
di Chiara Piccinni
Bella la Francia. Veramente bella. Soprattutto usciti da Parigi, perdersi in quel dedalo di foreste, piane pettinate a vigne ancora basse, paesini qua e là che non possono che riportarti indietro nel tempo, quando ancora cercavi di raggiungere quel punto di evoluzione a Age of Empire (e qua iniziamo a fare selezione generazionale). E cosa dire del florilegio di pale eoliche ben miscelate ai morbidi paesaggi, come a dire: siamo coscienziosi ed esteticamente carucci, che ci vuoi fare? Chiese in pietra che rasentano il cielo, Notre-Dame è bruciata ma è ancora un gran bel vedere, le facce sorridono e le rose, rosano.
Aspetta, aspetta. Sì, bene, tutto bellissimo. Lo sentite che sta montando un “ma però” grosso come una casa? Le annusate queste due gocce di Fastidio N° 5?

Ecco. Parto alle 3 di notte da Villa Costanza, ultimo baluardo del cavallo verde alato detto Flixbus, con solo tre ore di ritardo. Cominciamo bene. Arrivati alla frontiera con la Francia, ci schiacciamo una buona ora e mezza alla fine della quale “rimandano a casa loro” quattro poveracci che, come unico reato, hanno passato una linea immaginaria disegnata sul suolo terrestre senza i dovuti permessi. Riprendiamo il viaggio e arriviamo, ormai con quattro ore e fischia di ritardo – in totale quasi diciannove ore di viaggio – a Parigi. I sobborghi sono, come quasi tutti i sobborghi, un’accozzaglia di alveari grigi. A far da cornice, un cielo altrettanto grigio e una discreta puzza. Scendo al capolinea, Bercy Seine, una grande galleria straboccante smog riadibita a deposito per autobus. Scendo, mi sgranchisco le gambe e maledico il momento in cui dovrò riprenderlo per tornare indietro. Ridisegno rapidamente la riga del culo, tristemente scomparsa dopo tante ore seduta, e saluto la dolce vecchina, unico punto positivo del viaggio, con cui ho pianto nelle precedenti due ore per vecchie storie di vita vissuta e di dolori condivisi.
Arrivo alla metro, mi rendo conto che nessuno parla inglese e proseguo il più in fretta possibile fino alla stazione dei treni. Lì, dopo varie indicazioni sbagliatissime, riesco ad arrivare in biglietteria e mi dicono che, per la mia destinazione, i treni per la notte son finiti e che, in poche ore, avrebbero chiuso la stazione. Sono sola, non parlo la lingua, sono senza contatti né un telefono funzionante, con pochi soldi e una Parigi incazzata e piovosa ad aspettarmi. Seguono due ore di disperazione catatonica. La stanchezza accentua i sintomi e singhiozzando vengo rifiutata dalle tre persone a cui chiedo se posso fare una telefonata. Tra un pianto e l’altro adocchio un pezzo di cantiere interno alla stazione dove posso nascondermi per dormire. M’immagino già a sfuggire dalla luce della sicurezza e addormentarmi tra i calcinacci. Fattibile, penso.
Mi passa davanti un ragazzo, pantaloni larghi, petto nudo e un Ohm tatuato sulla base del collo. Un neo hippie come dio comanda. Un barlume di speranza, cazzo! Magari anche lui è in Francia per il festival che devo raggiungere. Vedo che si ferma davanti a un alimentari dentro la stazione, ormai a pochi minuti dalla chiusura. Mi avvicino, gli parlo in un inglese spagnolizzato con cui, più o meno, riusciamo a capirci. Viene fuori che stava provando a rubare qualcosa nel negozio e che le tipe l’avevano beccato cacciandolo in malo modo e poi, rivedendolo passare, l’avevano fermato per dirgli che non volevano fargli una partaccia, ma che era tutto video sorvegliato e che potevano regalargli tutto quello che era avanzato del giorno a chiusura. Mi dice anche che non sta andando al festival, ma gira per la Francia in bici in direzione Spagna con un suo amico e il suo cane, un pastore tedesco vecchio e assolutamente poco educato. Dice che conosce un buon posto dove dormire e, vedendomi abbastanza distrutta, mi chiede se voglio andare a dormire con loro in questo posto che chiama “parking”.

Lo ammetto, non ho pensato in un primo momento che fosse un vero parcheggio. Poi, riflettendo, ho fatto mente locale sul fatto che avessi deciso coscientemente di dormire in mezzo ai calcinacci fino a pochi minuti prima. Quindi, tutto sommato, fottesega. Fatto sta che prendiamo la metro, con le due bici e il cane, scavalchiamo le entrate per non pagare, facciamo un abbondante mezz’ora di mezzi e l’ultimo pezzo in bici, reggendomi a tentoni sul retro del motomezzo del tipo, con lo zaino e tutto. Arriviamo alle scale di un controviale in uno stradone alberato. Scendiamo le scale, la luce fibrilla e il pavimento è bagnato. Ci troviamo nel cuore di un parcheggio sotterraneo a più piani, enorme. Scendiamo di due piani attraverso delle rampe, e a ogni livello che bruciamo l’aria si fa più rarefatta e odora di frizione e gomme. Entriamo nel vano scala. Ormai è notte fonda e non vola una mosca. Con dei pezzi di moquette tirati in un angolo ci facciamo una base, arrediamo il sopra con coperte, loro, e sacco a pelo, mio.
L’amico del nuovo amico non parla né inglese né spagnolo, ma canta molto bene. Ci dobbiamo svegliare, per comunione d’intenti, alle 5, ovvero tra sole tre ore. Propongono di fumare fino all’alba e non dormire, io li ringrazio amabilmente, m’imbozzolo nel sacco a pelo e perdo conoscenza in più o meno sette, forse otto secondi. Suona la sveglia, maledico tutto ciò che conosco. I due mi sono accanto, svegli, fatti come fegatelli. Decidiamo di tornare alla stazione in bici, scelta scomodissima, ma più rapida dei tempi di attesa della metro a quell’ora. Arriviamo, tremendamente trafelati, corro verso la biglietteria e mi dicono che il treno delle 6.00 è stato cancellato. Pensando di essere in un bastardissimo episodio di Scherzi a parte, mi dicono che il prossimo è a mezzogiorno. Passo le seguenti sei ore in dormiveglia, accasciata sopra il mio zaino in vari punti del terminal, inopportunamente intervallati da quei bastardi della sicurezza neanche fossero della buoncostume. Salgo a mezzogiorno e mezzo sul treno per Thoures. Ritarda. Devo cambiare treno in meno di dieci minuti, che diventano uno per via del ritardo. Corro, salgo a malapena sulla carrozza del secondo treno e parte dopo pochi secondi. Le occhiaie mi toccano terra.
Arrivo nel più piccolo e sperduto paesino francese e incontro due ragazze che avevano la mia stessa destinazione. Non parlano né inglese né spagnolo, ma comunichiamo a gesti, come nella migliore tradizione contadina. Mi fanno capire che l’ultimo bus da prendere per arrivare al festival (ah, non l’avevo ancora detto, sono in Francia perché sto andando a un festival dove sto per incontrare un paio di ragazzi de El Juego) parte tra due ore. L’ultimo sforzo. L’ultima attesa. Con più di due giorni di viaggio alle spalle, troppe sveglie e troppi accasciamenti casuali, arrivo nel paesello, dove ci sono più di venti minuti a piedi da fare per arrivare all’entrata effettiva. Do il mio nome, controllano la lista. Mi fanno entrare. Incontro Audrey, l’abbraccio. Mollo quella casa che chiamo zaino, camminiamo verso il tendone dove sta Marius e abbraccio anche lui. Mi fanno un Rapè di benvenuto, smoccico, mi accascio, collasso. Finalmente riposo.
Seguono sei giorni tra festival, workshop, molti contatti, ottimo cibo, altri spostamenti, cerimonie di offerte alla terra, foreste bellissime. Arriva il momento del ritorno. Saluto tutti alla fermata della metro, un po’ di pianti, tanti abbracci, la promessa di vederci presto. Giro l’angolo, cammino per un viale alberato, seguo le indicazioni per il terminal del Flixbus da cui tutto era partito. Parto alle una e mezza di pomeriggio. Ho davanti due ore di attesa che sfrutto per riorganizzare lo zaino circa sei volte, mangiarmi un’insalata e pulire il marsupio dalle ingenti dosi di mozziconi collezionati durante gli ultimi giorni. Arriva il bus e lo guardo assottigliando gli occhi, come si fa come con un vecchio nemico. Io ti odio, tu mi odi, ma facciamo funzionare questa cosa e portami a casa, stronzo.
Partiamo in orario, cosa che mi dà un leggero senso di eccitamento inaspettato. Mi lascio la Francia alle spalle, continuiamo fino a Ginevra dove facciamo un piccolo stop per smollare un paio dei cristiani stipati sul mezzo. Arrivati al traforo del Monte Bianco ci fermiamo, ci sarà da aspettare per via di un bus spaccato in mezzo al tunnel. Vi dirò che l’imprevisto lo stavo aspettando, stava andando tutto troppo bene. Scendono dal bus dieci scout-girl e cominciano a strimpellare canzoni acutissime senza sosta, tanto che mi meraviglio non abbiano acceso un fuocherello e organizzato una cazzo di gara di nodi per trovarsi a loro agio. Io sento la voglia di vivere che si accascia a ogni accordo quando, dal lato destro del pullman, inizio a sentire dei muggiti disperati da un camion di trasporto bestiame vivo. L’accoppiata dei due suoni insieme mi spinge ad allontanarmi verso la macchinetta del caffè nel casottino vicino al blocco. Siamo a metà viaggio, ce la puoi fare.
Accumuliamo quattro ore di ritardo tra l’attesa e i vari stop. Tocchiamo Firenze alle 9 di mattina, invece che alle 5. Scivolo fuori dal bus e lo guardo in cagnesco, allontanandomi con le gambe molli. Mi infilo in tramvia, mi lancio su un autobus, salgo i gradini di casa.
Comunque, non c’è nessuna conclusione o morale della storia. C’è solo la gran voglia di condividere il tragicomico viaggio di una viaggiatrice qualunque.