Three Faces

La terza faccia della medaglia

Frammenti, un racconto di M. Barucci || Street Stories


Frammenti

di Marco Barucci

Illustrazione di Bisturi

Certi animali si rosicchiano la zampa se restano bloccati nella morsa di una trappola. Questa, tuttavia, non era un’eventualità che Varesco intendeva prendere in considerazione. Sentiva i muscoli intorpiditi dal sonno e il braccio sinistro gli faceva male. Sembravano essere fascette da elettricista quelle che, con dolore tagliente, stringevano attorno al suo polso. Erano legate a un termosifone gelido che lanciava brividi di freddo senza però riuscire a lenire le fitte. Ma la cosa ancora più inquietante era che, nonostante avesse aperto gli occhi, continuava a vedere nero. L’istinto tentò di prendere il timone del suo corpo, cercando di divincolarsi dal termosifone e dal supplizio. Tirò a sé il braccio aiutandosi con la mano rimasta libera, ma senza successo. Respiri sempre più capienti avvolgevano di ossigeno ogni fibra del suo essere, fino a che la disperazione gli uscì dalla bocca sotto forma di suono.
«Aiuto. C’è nessuno?» Non si diede per vinto e, come in preda a un rito vudù, iniziò a dimenarsi sul pavimento prendendo a calci potenti il blocco di ghisa che non si spostò neanche di un millesimo di millimetro.
«Cazzo, liberatemi da questo affare o giuro che vi spezzo le gambe. Liberatemi!» Poi, nel buio color pece, si sollevò un pianto a singhiozzo.
«Non c’è nessuno. È buio e freddo e mi fa male il braccino. Voglio il mio papà».
«Stefania, sei tu, piccina? Hanno legato anche te?»
«Sì mi fa tanto male il braccino e ho paura. Dov’è il mio papà? Voglio il mio papà». I singhiozzi le sporcavano le parole che comunque addolcivano l’atmosfera sudicia respirata in quella stanza tenebrosa.
«Non preoccuparti tesoro, vedrai che ce la caviamo. Sei una piccola donna coraggiosa». Stefania aveva cinque anni.
«E se non venisse nessuno?» si interrogò una voce di donna.
«Deena? Ci sei anche tu? Ma che cazzo sta succedendo? Sei legata?» chiese Varesco.
«Ci hanno presi tutti evidentemente, non ne capisco il senso. Legati qui, mi pare nel soggiorno, sento dei vetri in terra, qualcuno ha distrutto il tavolino».
«Inizio a sentire anche una puzza strana. Tu la senti?» Varesco si rivolse nuovamente a Deena.
«Diavolo, se la sento. Qualcuno sa cosa è successo? Non è che la bambina si è cagata addosso?» Anche Lulu era lì legata, all’interno della stanza buia e fredda. E adesso anche con un infernale odore putrescente che rendeva l’aria pesante.
«Non ho fatto la cacca, io» si difese la bimba.
«Lulu, dovevo aspettarmelo che c’entravi qualcosa. Non so perché ma son convinto che hai combinato qualche stronzata delle tue» Varesco, guidato dalla frustrazione, iniziò con attacchi verbali rivolti alla ragazza.
«Ma cosa vuoi? Sono qui legata anche io»
«Si sì, sarai legata anche tu, ma rimani una ragazzina viziata e problematica che sa fare solo casini. E poi ti ascolti tutti quei gruppi metal da psicopatica. Come quegli Schiplot, Snicpot, quella è roba che ti rincoglionisce e ti fa diventare un serial killer».
«Si chiamano Slipknot, e tu fai discorsi da boomer».
«Per favore ragazzi, siamo in una situazione abbastanza tragica, non serve a nulla litigare e accusarci». Intervenne Deena.
Poi l’oscurità della stanza fu travolta da un urlo.
«Oddio, ma che sta succedendo?» 
«Erik, sei tu? Ma quanti siamo ancora qui dentro?» domandò Deena.
«Mi sono svegliato adesso, ma che succede?» Erik fa il taglialegna.
«Ci hanno legato in soggiorno. È tutto buio, fa un freddo cane e c’è una puzza irrespirabile. Bello, no?» Varesco illustrò la situazione all’ultimo arrivato continuando a tirare calci col piede nudo al termosifone.
«Varesco per caso hai il cellulare?»
«Erik, torna a dormire. Ma mi hai preso per un cretino? Se avessi avuto il cellulare avrei già chiamato qualcuno. Ma secondo te?» rispose stizzito Varesco.
«Qualcun altro ce l’ha?» Chiese Erik cercando di allungarsi nell’oscurità. Si muoveva a tastoni stirando gli arti e facendo perno sul polso legato.
«Purtroppo no, Erik. Speriamo che arrivi qualcuno. Non sono mica tanto sicura che questi vetri provengono dal tavolino» Deena si toccò il piede, perdeva sangue anche da lì.
«Ho fame». Stefania sentiva la pancia gorgogliare.
«Porca troia, Jack» disse Lulu.
«C’è ancora qualcuno? Magari lui non è legato e ci dà una mano». Varesco si iniziò ad attaccare ad ogni debole corda di speranza.
«Ma no, Jack è la mia tarantola. Ho il terrario proprio qui in salotto. La luce dovrebbe essere accesa, ma non sento neanche il rumore della ventola».
Dimmi mio signore, che siedi così quieto, la fine del tuo viaggio che cosa ci portò?  
Le note de Il dono del Cervo di Branduardi si diffusero in tutta la stanza, provenivano da un telefono cellulare. La flebile luce del display era velata come se fosse coperto da della stoffa. Una luce troppo debole per poter illuminare, anche solo per un po’, l’ambiente circostante.
«Papà. È il telefono di papà». Un piccolo accenno di sorriso sul volto della bambina che non sarebbe comunque stato visibile a nessuno.
«Tuo padre è qui? Sta ancora dormendo. Qualcuno riesce a raggiungere il cellulare?» chiese Erik.
«No. Non ci riesce nessuno» lo zittì Varesco.
«Signore, si svegli. Sua figlia ha bisogno di lei». Deena cercò di svegliare l’uomo, in un punto non ben preciso della stanza. Intanto il cellulare aveva smesso di suonare.
«Meno male, quella canzone mi fa schifo!» disse Erik.
«Vuoi chiudere quella fogna? O vuoi che appena mi libero te la chiuda io per sempre?» Varesco minacciò Erik, lasciando sgomenti tutti gli altri.
«Ho trovato una merendina, ma è pelosa e sembra abbia delle zampe che fanno il solletico. Hihihi». La bambina iniziò a sgranocchiare qualcosa, immersa nel silenzio della stanza.
«Noooooo. Stupida bambina del cazzo. Hanno fatto bene a farti quello che ti hanno fatto, ognuno ha ciò che si merita. Il mio povero Jack», disperata Lulu ringhiava pensando al suo esotico animale domestico che veniva triturato tra i dentini da latte di Stefania.
«Lulu! Ma che stai dicendo?» Deena rimproverò la ragazza, in preda a una crisi di dolore per il lutto a otto zampe appena subito.
«Lo sapevo. Sei una ragazzina viziata e senza cuore. A te non ne hanno date abbastanza quando eri piccola», Varesco incalzò nei confronti di Lulu.
«Vuoi darmele tu adesso? Ops. Non puoi. Forse perché questa stupida ragazzina viziata è più furba di tutti voi messi insieme. Dal momento che vi ha legato tutti».
«Lo sapevo. Sei una stronza, ma aspetta che mi liberi e vedi che ti faccio». Varesco sentiva il sangue ribollire dentro.
«Calmati Varesco. Dobbiamo stare tranquilli. Avrà avuto i suoi buoni motivi. Perché ci hai fatto questo Lulu, che ti abbiamo fatto?» domandò Deena che cercava sempre di fare da paciere.
«I peli in bocca. Sì, ricordo Stefania, come anche quell’orrenda canzone». Erik sembrava entrato in una sorta di stato confusionale. Varesco si iniziò ad agitare come una bestia, urlando fino quasi a strapparsi le corde vocali. Tutto per non sentire le parole di Erik.
«I mostri non possono fare paura. Sapete qual è la cosa più spaventosa per un bambino? Sentire il proprio padre tornare a casa ubriaco e incazzato che entra in camera tua, mentre il rumore della zip che si abbassa viene coperto da una canzone di Branduardi».
«Ecco, sei contenta puttana? Guarda cosa hai fatto». Varesco era un demone che bruciava.
Intanto si sentivano rumori di sirene avvicinarsi sempre di più.
«Che cosa ho fatto io? Pensa a quello che hai fatto tu. Stanno venendo a prenderti, caro».
Il rumore degli stivali che salivano le scale era come un ritmo tribale che aiutava a risvegliare reminiscenze ormai nascoste. Una volta arrivati davanti alla porta, due poliziotti, bussarono e urlarono, fino a che non sfondarono entrando con le torce accese. Disteso sul pavimento, coperto di frammenti di vetri c’era il cadavere supino di un uomo sulla cinquantina. La pelle segnata di graffi ed escoriazioni, un’accetta da taglialegna conficcata all’altezza della testa, usata, per quell’ultima occasione, come ceppo. Poco più in là un giovane sui venticinque anni si dimenava, legato per un polso al termosifone. Mentre urlava, cadevano per terra come petali di un fiore che appassisce, zampe pelose di tarantola dalla sua bocca.

Frammenti, un racconto di M. Barucci || Street Stories

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