Fleabag Got Talent
di Benedetta Bendinelli
Non voglio parlare male di GOT, ci mancherebbe. Mi sono al contrario sbilanciata a suo favore inserendolo nel titolo di questo articoletto. Vorrei invece, se mi è concesso, parlare male o malissimo della noncuranza generale (chissà se solo in italì) ingiustamente dedicata a un’opera – a dir poco – di classe come Fleabag. La prima stagione, andata in onda tra il 2016 e il 2017, ha raccolto un discreto successo ma ci sono voluti circa due anni prima di proseguire e terminare definitivamente con i nuovi episodi. Chi fra di voi la conosce sappia che già mi sta simpatica/o (vedi che culo) e non per un semplice cameratismo che accomuna tutti gli hater anti-GOT, anti-massa, anti-biotici e anti-tutto, ma per il fatto che Fleabag è un prodotto simpatico, dove con simpatico voglio dire caustico e quando dico caustico voglio dire intelligente. Quando dico intelligente voglio dire molte cose e da qua comincio.
Fleabag è una cosiddetta serie-di-nicchia, per un semplice motivo: si tratta di una produzione britannica distribuita dalla BBC, il cui canale web risulta inaccessibile dai server italiani, e trasmessa world-widely da Amazon Prime, non ancora propriamente popolare quanto il cugino Netflix. Io stessa sono arrivata in ritardo rispetto al mio amico Lorenzo che si spulcia da cima a fondo tutte le nuove interessanti proposte dell’internet. Insomma non è difficile trovare Fleabag, è difficile imbattercisi.
Uno dei primi aspetti che rende questa serie tv diversa da tutte le altre è l’assenza totale della cosiddetta quarta parete, quel confine immaginario che si instaura tra attore e spettatore. La protagonista, il cui nome non viene mai pronunciato, si rivolge direttamente alla telecamera e di conseguenza allo spettatore, generando una sorta di scambio di battute/occhiate/frecciatine tra lei e noi che la guardiamo. Nella prima scena del primissimo episodio veniamo coinvolti in un rapporto sessuale dove l’attrice ci descrive l’amplesso anale con il suo partner d’occasione. Si capisce fin da subito che il registro di comunicazione è semplice e informale ma ricco di innuendos che ci debbono per forza tenere attenti alle battute. Un altro fattore che rende questa serie impopolare è l’apparente assenza di trama. Le serie tv che amiamo ci raccontano di narcotraffico, di incidenti aerei o di ragazzini in contatto con il mondo dei demoni mentre qua si parla di umane disavventure e contratti di lavoro. Come siano riusciti a rendere credibile un plot del genere non è in fondo un mistero, la soluzione è semplice e mi rifaccio alle mie prime battute: Fleabag ha talento, Fleabag è intelligente. Dovrete scusarmi se adesso sbandiero uno striscione femminista nel momento in cui parlo di intelligenza ma la citazione è doverosa. Pochi giorni fa, ascoltando un programma radiofonico, mi sono imbattuta in un’intervista rivolta a un’avvocatessa che difende i diritti delle donne nel mondo del lavoro. La suddetta, della quale ahimè non ricordo il nome, a un certo punto dice una cosa che mi ha come schiaffeggiata tra un sorso di caffè e la ricerca delle chiavi della macchina. Così dice – più o meno: “Perché anche le donne hanno il diritto di essere mediocri, ci sono molti uomini di poco spessore che ricoprono cariche importanti, nella vita, nella politica, nella finzione dei romanzi o dei film, eppure riescono a farla franca. Una donna deve e può soltanto essere La Migliore, un gradino sotto l’eccellenza e subito non conta nulla.” Ecco perché Fleabag è una serie intelligente. Parla della mediocrità, del fallimento, dell’insufficienza economica, dell’impopolarità, della solitudine nella quale tutti prima o poi ci imbattiamo. Già dalla prima stagione si iniziava a parlare di un nuovo manifesto femminista, e con gli ultimi episodi si conferma questa direzione.
Fleabag è femminista, sì, ancora più di Girls, ancora più di Lena Dhunam, ancora più di chiunque finora abbia provato a tradurre il femminismo da striscione con un dialogo contestualizzato e soprattutto, onesto. Mi capita spesso di interrogarmi sulle mie inclinazioni sociali, mi chiedo se posso effettivamente definirmi una femminista, se il mio comportamento segue solo una linea teorica costringendomi a “studiare” una strategia d’azione. Mi chiedo cosa significhi essere donna adesso e mi chiedo anche perché ci sia il bisogno generazionale di domandarselo. La sceneggiatura di Fleabag riesce a tappare molti di questi buchi, copre moltissime zone d’ombra che il femminismo da manuale spesso non illumina. I personaggi non sono sempre positivi, specialmente quelli femminili e specialmente la protagonista. Gli attori sono da paura, nessuno eccessivamente famoso, nemmeno Olivia Coleman che ha sì vinto l’Oscar ma non è certo una rappresentante del jet set britannico. Nella seconda stagione, decisamente più a fuoco e molto più ritmata della prima, ci sono un paio di camei che meritano la visione di tutta la serie. Se non vi interessa il tutto, apprezzate almeno le singole parti di Kristin Scott Thomas e Fiona Shaw. Un altro talento di questa serie è l’ermetismo, esercitato nei dialoghi a due e nelle scene di gruppo dai tratti teatrali. La seconda stagione, di soli sei episodi come la prima, si apre con una cena di famiglia e con un colpo di scena, voglio osare, degno del più recente Polansky.
Nella prima stagione il divertissement della serie era ancora molto legato alla fisicità della protagonista, ma nulla viene tolto alla brillantezza dei contenuti. Tornando proprio alla puntata di testa, ricordo in particolare un giro di battute che mi hanno fatto sganasciare, tanto da riguardare la scena più e più volte. Adesso rovinerò tutto raccontandola.
La protagonista si confronta con un suo potenziale finanziatore per la sua attività in crisi. Fleabag, ovvero sacco di pulci (ed è questo il suo nome di referenza), si presenta a un appuntamento di lavoro e nella concitazione del momento si toglie il maglione restando in reggiseno e con il sudore addosso dovuto a un già mostrato ritardo sulla tabella di marcia. Il suo interlocutore, effettivamente in imbarazzo, l’accusa di molestia in quanto crede che la donna cerchi di sedurlo per ricevere il dovuto prestito finanziario. La scena si chiude con un brevissimo scambio di battute. Lui dice: «Slut» (troia). Lei dice: «Perv» (pervertito). Non sono mai stata brava a raccontare le barzellette e anche in questo caso probabilmente non ho reso l’idea ma giuro che lo sketch è seriamente divertente, quindi intelligente, quindi di talento. Fin qui si direbbe che questo articoletto sia di stampo femminista. No, non lo è. L’intenzione è quella di promuovere il talento, la simpatia, l’intelligenza e la sfrontatezza di una serie che valorizza l’imperfezione umana a discapito del trionfo individuale, che accarezza le emozioni senza generare fiumi di lacrime, che non giustifica, non censura e non santifica. È solo un caso che dietro a questo capolavoro, da autrice e sceneggiatrice, ci sia proprio una donna, la donna che amo, Phoebe Waller-Bridge ❤️.
È solo un caso, come no.
A prova di ciò riporto un altro episodio presente in questa serie. Fleabag, di ritorno da una serata, si trova in compagnia di una donna completamente ubriaca, riversa su un marciapiede e semi priva di sensi. La nostra eroina si propone di aiutarla e di riportarla a casa sana e salva, in cambio le chiede di passare la notte da lei. La tizia sbronza risponde: «No, you naughty boy!» (no, ragazzo cattivo!). Morale della favola è che non c’è un morale della favola. C’è una vita scomposta a suon di battute venute male, di intenzioni mal celate, che siano di donne o di uomini, e poi confessate in modo imbranato. La cosa buffa, fra l’altro, è che gli unici soggetti scomposti che hanno apprezzato questa serie sono due uomini, due miei grandi amici, due persone che commettono errori e che sono poco sensazionali. GOT non c’entra nulla, non c’entra la finzione, non c’entra il femminismo e non c’entra il mainstream. Per apprezzare il vero talento di Fleabag, che siate donne, uomini e chi più ne ha più ne metta, basta avere una sola inclinazione, in fondo basta essere un po’ sciocchi.