Andrés Escobar: il calcio non è un’isola, un articolo di A. Biagioni || Three Faces


Andrés Escobar: il calcio non è un’isola

di Andrea Biagioni

Andres Escobar Usa '94

La notizia è arrivata in Italia nel tardo pomeriggio del 2 Luglio 1994. È una di quelle notizie che ti lasciano perplesso. Stando a quanto si apprende dagli organi di stampa colombiani, un calciatore della Nazionale è stato trucidato a colpi di mitraglia fuori da una discoteca di Medellín. Il movente, un autogol. Pare che il calciatore sia stato provocato all’interno del locale da due soggetti noti alle forze dell’ordine, Alonso Cardona Monsalve e Humberto Muñoz Castro. Lo accusavano di aver causato l’eliminazione dei Cafeteros dal Mondiale statunitense con la sua autorete, peraltro proprio in favore dei gringos, nella seconda gara del girone giocata dieci giorni prima. Il calciatore ha deciso di lasciare il locale, i due lo hanno seguito nel parcheggio continuando a provocarlo, il calciatore ha reagito, la discussione è degenerata. Normale routine di una notte a Medellín, si direbbe, ma la realtà è un’altra cosa. È come in un romanzo di Gabo Marquez, dove tutto quello che sembra reale è reale e anche quello che non lo è, appare come tale o comunque, accade.

Infatti hanno iniziato a circolare strane voci, soprattutto fuori dalla Colombia. Ad esempio, si dice che il calciatore fosse coinvolto col narcotraffico. Altre sostengono che l’omicidio sia stato un segnale lanciato agli ultimi fedeli di Pablo, El Patrón, perché il cognome della vittima è Escobar. Addirittura in Italia per alcune ore è circolata la voce che ci fosse stato uno scambio di persona, che i due killer avessero scambiato la vittima per un parente o comunque un uomo vicino all’altro Escobar. Niente di tutto questo è vero ma ogni buon colombiano, che conosce bene la storia del suo popolo anche se non vuole parlarne e che conosce bene tutti protagonisti di questa storia, vi direbbe che anche se non è reale, alle volte ciò che si racconta, senza la realtà non sarebbe mai esistito e che la realtà c’entra molto con la fantasia. Come in un romanzo di Marquez.

MonumentalAndrés Escobar non aveva legami di sangue col Patron e non era coinvolto, perlomeno direttamente, col narcotraffico. Era il miglior difensore dei Cafeteros, la Nazionale Colombiana, e ne era stato anche il capitano. Non lo è stato ai Mondiali di Usa ’94, perché un infortunio lo aveva tenuto fuori per gran parte delle qualificazioni. Non era sceso in campo neppure il 5 Settembre 1993, quando i colombiani avevano demolito l’Argentina per 5 a 0, ottenendo il pass per i Mondiali e l’ingresso nell’olimpo delle candidate al titolo. Lo sancì Pelè con le sue dichiarazioni, e ora viene spesso denigrato per la sua intuizione alla luce dei risultati, ma erano in tanti a scommettere sulla Colombia. Ci hanno scommesso giornalisti o esperti, ci ha scommesso il Governo Colombiano, che ha investito sulla Selección e sulla sua immagine svariati pesos, anche se su quei pesos c’è nascosto da qualche parte il segno del dollaro. Ci ha scommesso anche Gabo Marquez: lo ha fatto con un suo caro amico che in un’altra vita era stato il medico di Salvador Allende.

Purtroppo per Andrés e per i suoi compagni, però, su di loro hanno scommesso anche i narcotrafficanti, perché El Patron non c’è più, ma il narcotraffico ha ancora il completo potere sul paese, e lo sta dilaniando con quella che è una vera e propria guerra di successione. Come sempre accade, morto il re scorre il sangue della disgregazione. È il caos. È la Colombia. E l’unica cosa che riesce a tenerla insieme è la sua Nazionale. Quando giocano i Cafeteros, il paese si ferma esattamente come accade in Golpe de estadio di Sergio Cabrera, dove il conflitto tra guerriglieri e polizia locale viene interrotto per assistere a quel fatidico Argentina-Colombia. Non è Pablo calciofinzione cinematografica, è realtà. Quel 5 settembre, per esempio, Pablo Escobar è nel pieno della sua fuga dalle forze armate e dai suoi rivali del narcotraffico, che lo stanno braccando da oltre un anno, ovvero da quando ha deciso di scappare da La Catedral, il carcere di massima di sicurezza in cui era relegato e che in realtà era diventato un lussuosissimo quartier generale. Ha con sé una piccola radiomobile, ma non gli serve per intercettare i movimenti dei suoi nemici, la usa per poter esultare ai gol di Rincón, Asprilla e Valencia. E forse anche El Patron in quel momento ha scommesso che la Colombia avrebbe vinto i Mondiali, anche se qualcosa gli dice che lui non li vedrà mai. Lui che quella squadra sente di averla creata e forse tutti i torti neppure li ha perché il calcio, come del resto tutto in Colombia tra gli anni ’80 e ’90, è Pablo Escobar. Tanto che aveva voluto e ottenuto nel 1992 che i Cafeteros disputassero un’amichevole proprio a La Catedral, la sua prigione di lusso, il suo centro di comando. E i giocatori vanno. Seppur contrariato, perché lo deve al senso di giustizia che fa parte del suo essere uomo, anche Andrés va. Lo stesso vale per il deus ex machina di quella squadra, Francisco “Pacho” Maturana, che però come ogni grande allenatore è uomo di mondo, di pensiero e sa cosa dire e come dirlo. Non è uno che si fa fregare, spegne la polemiche come si spegne un fiammifero con le dita: «Se Vito Corleone mi invita per pranzare nella sua cella, io vado». Tradotto per i critici: “Se veramente ci fosse tra i colombiani qualcuno che avesse il coraggio di rifiutare, sarebbe il primo a non biasimarci, perché saprebbe quanto è difficile dire no. E gli stringerei la mano”.

Però la stima della gente va comunque riconquistata e c’è un solo modo per scaricare quella tensione, il campo. Per due anni, i Cafetors non perdono praticamente mai. Ventiquattro partite senza sconfitte, poi trangugiano l’Argentina al Monumental e l’aereo per gli Usa è lì che aspetta. Ma nel frattempo El Patron è morto. Il 3 Los pepesDicembre 1993, Pablo Escobar è stato catturato e ucciso nei sobborghi di Medellin dalle forze speciali dell’esercito, con consistente iniezione di fiducia a stelle e strisce, e dai Los Pepes (Los Perseguidados por Pablo Escobar), ex-vassalli epurati dal Patron che ora cercano vendetta con l’appoggio del Governo. Quel 3 Dicembre, mentre la nazione Colombia non sogna ma forse spera che torni almeno un barlume di normalità, l’altra speranza, quella della Nazionale colombiana, si è appena frantumata. Da una parte la stringe il Governo stesso che crede di avere il controllo perché ha tra le mani la pelle del leone, ma dall’altra ci sono Los Pepes, che non hanno mai smesso di essere narcotrafficanti, non hanno mai smesso di controllare il calcio e nel giro di pochi anni, sempre guidati dai fratelli Castaño, si trasformeranno nell’Autodefensas Unida de Colombia, gruppo paramilitare di estrema destra che lo Stato colombiano volutamente ignorerà per oltre un decennio. E mentre i Cafeteros sono sul volo che li porterà a Los Angeles, più delle rassicurazioni del Governo sentono il vento delle minacce che si alzerebbe, se qualcosa andasse storto. E hanno ragione loro, perché va tutto storto, perché deve andare tutto storto. Perché sono colombiani e sembra siano costantemente destinati a espiare una colpa di cui non riescono a comprendere la natura.

Per questo, quando il 18 Giugno il siriano Jamal Al Sharif fischia l’inizio del loro Mondiale, i Cafeteros sono effettivamente in campo, ma la testa è altrove. LaHagi Colombia faccenda inoltre si fa ancora più complessa tatticamente parlando, perché dall’altra parte c’è la Romania che è una strana bestia. È una nazione dal passato complicato, soprattutto se si parla di quello recente, ma ha prodotto una generazione di fenomeni, sospesa tra la tenacia e un genio che spetta loro per diritto di nascita. Il genio in questione risponde al nome di George Hagi e porta il dieci. Se non è in giornata in campo manco lo distinguete, ma se è uscito dagli spogliatoi col piede giusto, non lo tieni. Per sfortuna della Colombia, quel pomeriggio il piede è quello giusto. È la situazione peggiore che potesse capitare alla squadra di Pacho Maturana, perché ha di fronte un avversario che le somiglia moltissimo. È come se i colombiani dovessero affrontare sé stessi. E infatti quella partita la perdono.

Poco male si direbbe. Una sconfitta, una giornata storta ci può anche stare e in fondo le altre avversarie del girone sono abbordabili. Ci sono la Svizzera per esempio, e poi gli Usa che saranno pure i padroni di casa, ma col football, anzi col soccer, di feeling ne hanno poco. Insomma, il primo posto è andato, come seconda o migliore terza però il turno si può passare. Ma qualcuno dalla Colombia non ha digerito la sconfitta e alza il telefono. Il tono della conversazione è più o meno questo: “Los Chicos de Pablo sono i principali responsabili della sconfitta, e soprattutto Gabriel Gómez. Se quello scende in campo contro i gringos, salteranno molte teste: prima quelle dei suoi familiari, poi quelle dei tuoi familiari e dei familiari degli altri. Alla fine, toccherà alle vostre”. Chi ci sia da questo lato del telefono non lo sappiamo, forse un uomo del Cartello di Calì, più probabilmente qualcuno de Los Pepes. Ciò che è certo è che all’altro capo del telefono, in ascolto, c’è il Pacho Maturana che pochi minuti dopo entra nella sala dove dovrebbe tenere la riunione tecnica con la squadra. Non ci sarà nessuna riunione però.

Piange Francisco. I suoi ragazzi hanno lo sguardo perso nel vuoto. Gabriel Gómez decide in quel momento che non scenderà in campo né con gli Usa né con altri. Si ritira in quell’istante dal calcio. Mentre lo guarda, Andrés Escobar visualizza invece quello che potrebbe comunque succedere…

cross di Harkes, Escobar cerca di intervenire in scivolata per anticipare un attaccante che non c’è, con un’ansia che non ha e che non gli compete. Óscar Córdoba è spiazzato, rimane in ginocchio e si butta indietro con la schiena fino a toccare il terreno con un grido. Sembra la scena madre di Platoon. Ed è solo l’inizio. Stewart raddoppia e gli dei del calcio sembrano aver messo il proprio veto sulla porta statunitense. Quando lasciano uno spiraglio aperto per Valencia, è troppo tardi. La Colombia è fuori e il resto è storia.

Viene da immaginarselo il ritorno a casa di Andrés: la testa bassa, gli occhi scuri come un abisso a fissare la sua terra e a chiedersi perché. Perché proprio lui, che non ha mai sbagliato, lui che non aveva mai realizzato un’autorete. È una domanda che si ripete come un ciclo che va spezzato e Andrés trova due modi per farlo. Il primo è scrivere ai suoi compagni, ai suoi connazionali, al suo popolo. Lo fa attraverso El Tiempo di Bogotà e conclude il tutto con una frase semplice, vera: la vida no termina aquí. L’altro modo invece è tornare appunto a vivere: “Voglio uscire, devo tornare a far vedere la mia faccia”. Così fu e anche in questo caso, il resto è storia.

Molti pensano che il calcio sia una terra felice e superficiale, un movimento che vive di se stesso e per se stesso, senza che niente lo possa intaccare. Non è così. Per usare le parole di un saggio che risponde al nome di Francisco “Pacho” Maturana, il calcio non è un’isola. Perché se lo fosse non saremmo qui a raccontare questa storia, o perlomeno non sarebbe questo il suo finale e avrei chiuso queste ultime righe con un’altra immagine. Non dico sarebbe stata quella di Andrés e dei suoi compagni che sollevano la Coppa del Mondo, ma magari ne avremmo avuta una ancor più poetica: quella di Pacho che consola Andrés mentre indossa la medaglia di argento o di bronzo, sussurrandogli che non importa, che il popolo è orgoglioso di loro, che l’anno dopo vinceranno la Copa América e tra quattro anni porteranno la Colombia sul tetto del mondo. Invece, siamo qui a raccontare di come, in una notte di Luglio del 1994, l’anima pura di quella stessa Colombia sia stata trucidata a colpi di mitraglia nel parcheggio di una discoteca, nei sobborghi di Medellín.

Andrés Escobar: il calcio non è un’isola, un articolo di A. Biagioni || Three Faces

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