È solo un gioco
di Gianfranco Martana
Illustrazione di Dubhe
Ricordo le partite a pallone giocate con i compagni di scuola su un campetto di periferia, in certi infiniti pomeriggi di maggio. L’erba spuntava soltanto qua e là in piccoli ciuffi, fra la polvere e il brecciolino, e nessuno sapeva se fossero i superstiti di un prato un tempo rigoglioso o degli intrusi che si erano fatti largo a forza. Appena attraversavamo lo squarcio nella recinzione eravamo presi dall’orgasmo della partita e pensavamo soltanto a tirare calci, altrimenti li avremmo strappati volentieri, perché si finiva per inciamparci, e a volte facevano il solletico al pallone, e quello non capiva più niente e prendeva traiettorie strane e infide.
Io stavo in porta, perché a correre mi stancavo e perché il grosso del tempo potevo passarlo a guardare gli altri, a giudicarne i corpi, i movimenti e le urla. Ogni tanto battevo i talloni contro un palo, come facevano i portieri veri per liberare le scarpe dalle zolle. Ma le mie suole, invece di precipitare terra, disperdevano lievissima polvere.
Ero un portiere mediocre, ma non ne soffrivo: mi bastava sentire l’impatto del pallone contro le mani protese, godendo della parabola del tuffo, dalla curva appena accennata per la distanza cospicua tra il fuoco e la direttrice. La sensazione di compensare un fuoco che distrugge con una direttrice che costruisce inseriva il mio estremo tentativo di difesa nell’equilibrio del cosmo. Ecco dunque spiegata la mia felicità nel seguire l’esultanza degli avversari quando mi facevano gol, la stessa di quando sentivo il tocco leggero delle palme dei compagni sulle natiche o sulla nuca, per ringraziarmi di una bella parata. Loro però, non si capacitavano dei miei sorrisi quando raccoglievo il pallone in rete; me lo strappavano di mano come se non ne fossi degno e mi facevano certi sguardi come per dire: “Se ci fosse un altro che vuole andare in porta, con noi non giocheresti più”. Per loro contava vincere: dell’equilibrio del cosmo se ne fottevano altamente.
Il segreto del gioco l’avevo scoperto qualche anno prima. In certi pomeriggi d’estate mio nonno mi portava ai giardinetti. Scendeva di casa con una bianca canottiera di lana infilata nei bermuda beige. Ai piedi aveva delle ciabatte di plastica, delle quali ricordo soprattutto il fetore. Quando mi chiedeva di portargliele, le tenevo con la punta delle dita, stendendo il braccio il più in basso possibile, fino a sentire dolore, e alzando il mento. Pensavo così di allontanarle di qualche centimetro dal naso, ma era tutto inutile. Quando ero abbastanza vicino alla sua poltrona, mio nonno mi puntava un piede in faccia e diceva: «Le ciabatte profumano di rose, in confronto a questo!», ma io smettevo subito di respirare, e non ho mai saputo se fosse vero oppure no.
Ai giardinetti ci andava per giocare a scopone con gli amici. Si mettevano sotto un grosso albero ritorto, intorno a un tavolo rotondo, di pietra. Due di loro sedevano su panche, anch’esse di pietra, gli altri due su certe seggioline pieghevoli che portavano da casa, le stesse che usavano per andare a pescare in fondo al molo. Io ero libero di andarmene sull’altalena o sullo scivolo, ma il più delle volte quegli attrezzi mi annoiavano e preferivo osservare il gioco dei vecchi. Per timidezza me ne stavo dietro il nonno e a volte gli poggiavo il mento su una spalla. Lui per scherzo mi minacciava: «Se dici le carte a questi due fetenti ti faccio mangiare le mie ciabatte», ma io nemmeno avrei saputo come fare. Guardavo le facce degli altri giocatori. Le vedevo ingrugnirsi, poi d’improvviso distendersi per una bella presa. Spesso ridevano e facevano certi commenti che non capivo, forse osceni, o forse segnali in codice. Qualche volta cominciavano una bestemmia senza finirla, o all’ultimo momento la trasformavano in una parola innocua.
Una volta che mi ero stancato di stare in piedi ma non di guardarli giocare, mi arrampicai sull’albero e mi sdraiai a pancia in giù su un ramo, ficcando la testa nel vuoto creato da due rami più piccoli. Da lassù scompariva la mimica dei volti, e quindi la funzione cosciente del gioco: vincere. Vedevo solo l’alternarsi delle braccia verso il centro del tavolo. Le carte si affastellavano lì in mezzo come ciocchi buttati in un falò primordiale e sacro, intorno al quale tutti si scaldavano. Schiacciate con forza, quasi crepitavano; la sequenza veloce dei turni teneva alta l’energia, e il bottino preso in custodia sembrava ancora fiammeggiare tra le mani, fino a un nuovo rimescolio.
In quel momento mi era sembrato di intuire che nel gioco vale tutto allo stesso modo: sbagliare e indovinare, perdere e vincere. Un gol preso e una parata aumentano allo stesso modo la nostra conoscenza, proprio come una scopa inflitta o subita. I giocatori siedono allo stesso tavolo, corrono sullo stesso campo: non solo i compagni, anche gli avversari sono nostri complici. Il vero confine è fra quelli che conoscono il gioco e quelli che lo ignorano. Io, per esempio, non avrei mai saputo quando lasciare il sette a terra e quando no; e per questo stavo sull’albero e non al tavolo.
E così, mentre guardavo il terribile Michelone scrollarsi di dosso la marcatura di Gino e puntare diritto verso di me, lo sentii fratello nel gioco e mi buttai in mezzo ai suoi piedi per abbracciarli, stendendo il più possibile muscoli e tendini, come ai tempi delle ciabatte del nonno. Ai margini del campetto c’era Serena, che passando con le amiche si era fermata a vederci giocare, ma solo perché scimuniva per un paio di noi. Anche se aveva delle gambe che a pensarci potevi farti tre seghe di seguito, nulla sapeva di fuorigioco e rigori, di punizioni dirette e indirette, e per questo mi sentii in diritto di compatirla.
La scarpa di Michelone doveva avermi preso in piena faccia a mille all’ora. Prima di svenire feci in tempo a sentirlo esultare per il gol, ma mi tranquillizzai al pensiero che i miei compagni mi avrebbero reso giustizia, facendolo annullare. Poi avrebbero chiamato i grandi, e i grandi avrebbero chiamato un’ambulanza, mentre Serena si sarebbe coperta la faccia con le mani per la paura di vedermi tramortito a terra. La poverina sapeva che avevo preso un calcio, ma provate a spiegarle la carica al portiere e le sue conseguenze, e dopo due secondi se ne scappa via con le amiche con la scusa che faranno tardi al cinema.
Michelone fu il primo a farmi visita in ospedale. Dietro di lui suo padre gli teneva bonariamente le mani sulle spalle, quelle stesse mani che dovevano averlo riempito di mazzate, a giudicare dalla chiazza violacea che spiccava sotto l’occhio sinistro. Lo sentii ancora più fratello, nella comune disgrazia. Mi portò in regalo tutte le figurine che mi mancavano per finire l’album e non la finiva più di scusarsi: disse che avevo fatto proprio una bella uscita, che non se l’aspettava, e per questo aveva tirato, credendomi più lontano dai suoi piedi giganteschi e fatali. Mi confermò che il gol era stato annullato, all’unanimità, senza discussioni, e la partita sospesa. L’equilibrio del cosmo era salvo, e i nove punti di sutura che avevo sulla fronte cominciavano a farmi meno male.