Dystopian Blues
di Chiara Francioni
Vorrei poter dire che questo folle e sconcertante periodo che ci troviamo a vivere mi ha insegnato molto, ma ho delle grandi riserve. Tuttavia una verità è stata messa ben in evidenza, giacché i social hanno rivelato un massiccio ricorso dei propri utenti al modello orwelliano (ovviamente parlo di 1984) come minaccia incombente senza però centrare il punto. In altre parole, per dirla come se magna: ho visto una gran quantità di citazioni fatte, come suggeriva il vate René Ferretti, alla cazzo di cane. E allora mi sono chiesta: cosa non è chiaro?
Nel mio vano tentativo di trovare risposta, ho finito per immergermi in un profondo oceano di congetture su quello che il genere distopico ha cercato di dirci negli anni, su quali fossero i moniti che gli autori sentivano di dover lanciare. E così, abbandonando la domanda originaria, ho finito con il farmi un po’ di seghe mentali (si può scrivere?) sui significati reconditi, e non solo, dei grandi film distopici, meritevoli di aver cercato di smascherare il contesto sociale di riferimento, mettendone in mostra le debolezze e i timori. E, siccome il regresso all’infinito è sconsigliabile, ho deciso di far cominciare la mia indagine dagli anni Ottanta, scegliendo una pellicola per decennio e giungendo così agli anni dieci del nuovo millennio. Perché? Ma è semplice, sono gli anni in cui la sottoscritta, ormai decisamente vintage, ha camminato su questa terra.
Anni ’80: Brazil (1985)
So benissimo che quando si accosta il termine distopia agli 80’s il titolo che balza in mente è Blade Runner, ecco perché vi parlerò di Brazil, indimenticabile opera dell’ex Monty Python, Terry Gilliam.
“Da qualche parte nel Ventunesimo secolo“, troviamo Sam Lowry (un ottimo Jonathan Pryce), grigio impiegato del Dipartimento di Informazione di una non meglio precisata nazione governata dalla burocrazia. Sam, che incarna alla perfezione l’archetipo dell’inetto, sopravvive rifiutando ogni responsabilità e conservando gelosamente il proprio status quo, in un mondo dove l’ossessione per i processi formali ha plasmato ogni aspetto della vita civile. Tuttavia ogni notte un sogno ricorrente si intromette nella sua piatta routine, mostrandogli una versione cavalleresca di sé stesso intenta a salvare una giovane donna. Sarà proprio la scoperta dell’amore, tormentato e impossibile, e l’incontro con un idraulico oppositore del sistema (Robert De Niro) a trasformare Sam in un perfetto Winston Smith, con il quale tuttavia dovrà condividere il triste destino, finendo per essere reso innocuo dal sistema che egli stesso avrebbe voluto sovvertire[1].
Terry Gilliam, nel suo omaggio – non troppo celato – a 1984 di George Orwell, indaga i timori di una società, quella occidentale di fine Ventesimo secolo, costretta a fare i conti con la crescente perdita di libertà dell’uomo medio, sempre più incastrato in una ripetitiva routine dettata dai ritmi serrati imposti dalla costante ricerca della massimizzazione dei profitti e del benessere. Neanche la forza dei sentimenti, ci ammonisce Gillian, è in grado di sovvertire l’ordine sociale, condannando il singolo all’eterna scelta tra l’essere una parte indistinta dell’ingranaggio o soccombere, tentando invano di liberarsi.
Il linguaggio scelto dal regista è senz’altro funzionale all’obiettivo, giacché si spazia dal grottesco – utile a estremizzare i tratti del contesto sociale – all’assurdo di chiara matrice pythonesca e il drammatico, mai evidente durante lo svolgimento, ma che si manifesta, inesorabile, nell’amaro retrogusto che resta in bocca al termine della visione. Un tragicomico che spiazza.
Anni ’90: Matrix (1999)
Sì, lo so cosa state pensando. Prima ho fatto la figa scegliendo un film meno scontato e ora vi propino l’apoteosi della prevedibilità. Eppure proprio Matrix, sebbene sopraggiunga in zona Cesarini, è il film distopico simbolo del decennio, in quanto incarna le incertezze destate dalle conseguenze, sempre più evidenti, dell’assoluta automatizzazione e informatizzazione. La rivoluzione telematica, infatti, è ormai iniziata quando le sorelle Wachowski, ci regalano una favola sci-fi imbottita di metafore (anche bibliche) che ruota intorno al confronto tra l’essere umano, fatto di carne e irrimediabilmente imperfetto, e l’intelligenza artificiale, sterile e apparentemente infallibile.
La storia dovrebbe essere nota ai più: abbiamo Thomas T. Anderson (un Keanu Reevs nel fiore dei suoi anni), alias Neo, che vive la sua doppia vita inconsapevole di essere intrappolato in una realtà simulata (la matrice) creata per lui e per i suoi simili dalle macchine. Quest’ultime, avendo sconfitto i propri creatori in una sanguinosa guerra, adesso dominano il mondo e sfruttano gli umani, intrappolati in un sogno senza fine, come risorsa energetica. Neo viene liberato e arruolato nella resistenza da Trinity (Carrie-Anne Moss) e Morpheus (Laurence Fishburne), i quali credono fermamente che lui sia The One (Neo is The One… surprise!), ossia colui che, secondo una profezia nota tra i ribelli, libererà il genere umano dalla inconsapevole schiavitù.
Senza analizzare gli stilemi proposti dai registi (tutti apprezzatissimi, come le famose pillole blu e rossa, il cucchiaio non esiste, l’introduzione del bullet time che ha cambiato per sempre l’approccio agli effetti speciali, la figaggine di Keanu, no scusate sto diventando ridondante), vorrei passare subito alla ciccia: la metafora. A tale proposito citerò un aneddoto. Il mio professore di filosofia delle superiori utilizzò Matrix come esempio per farci capire Schopenhauer. In altre parole, diceva il docente, Neo sarebbe colui che, liberatosi dal Velo di Maya, riesce a superare la realtà fenomenica e a ricongiungersi con il noumeno. In verità le Wachowski e Arthur Schopenauer non dicono proprio la stessa cosa, lo so. Tuttavia ho sempre pensato che, stiracchiando un po’ il pensiero dell’illustre esistenzialista, si potesse davvero scovare un trait d’union e che, quindi, la trovata del Prof. non fosse solo un espediente geniale per attirare la nostra attenzione.
Infatti, le menti dietro Matrix ci mostrano quello che la realtà potrebbe diventare se lasciata in balia dei soli desideri umani, governarti dalla bramosia, tipica dell’uomo moderno, di ottenere tutto ciò che percepisce, spesso erroneamente, come a portata di mano, inclusa – ed ecco la metafora – la creazione di macchine senzienti che dovrebbero servirlo come il più ricco dei signori. Soltanto che il cammino intrapreso condurrà l’inconsapevole essere umano a scambiare la propria libertà con un mondo/finzione in cui tutti gli obiettivi sembrano raggiunti, nonostante il totale annientamento dell’individuo. E allora è giusto porsi delle domande, fermarci finché siamo in tempo, abbandonare l’ingordigia ossessionante, concentrandoci su quella che è la nostra vera natura, così da far prevalere il noumeno sul fenomeno (e magari in una chiave più ottimistica di quella proposta da Shopenauer). Riportare l’uomo e le sue libertà al centro di tutto.
Insomma, vi sto proponendo di leggere Matrix come il manifesto di un moderno umanesimo reduce della presa di coscienza del più analitico degli esistenzialismi. A voi che pare? Per me funziona. Ah, i sequel? No, non esistono. Punto.
Anni 2000: Children of Men (2006)
Alfonso Cuarón santo subito! Già perché questo – almeno per quanto mi riguarda – è il miglior film di fantascienza del decennio e ora vi spiegherò perché.
Siamo nel 2027, in un futuro sconvolto dalla piaga dell’infertilità femminile: non nascono più bambini da almeno diciotto anni. Intanto il Regno Unito, la nostra location, è diventato un vero e proprio stato di polizia a causa delle difficoltà incontrate dall’establishment nel gestire il problema dell’immigrazione, che viene quindi affrontato ricorrendo alla totale negazione dei diritti dei migranti, imprigionati e ghettizzati senza ritegno (sono toccanti le scene delle gabbie di contenimento, soprattutto se ripensate oggi, all’indomani della vicenda messicana voluta da Donald Trump). Il protagonista è Theo Faron (Clive Owen), ex attivista disilluso e ormai rassegnato alla brutalità del sistema che si trova, a causa di una complessa sequenza di fatti, a dover proteggere una giovane immigrata. La ragazza deve riuscire a imbarcarsi sulla Tomorrow, nave-miraggio del Project Human, organizzazione che si batte per i diritti dei rinnegati, al fine di salvarsi dalle persecuzioni del sistema e dal campo profughi, dove viceversa dovrebbe rimanere internata. La giovane donna è incinta e ciò la rende, allo stesso tempo, un inaspettato miracolo e un boccone appetitoso per le forze impegnate nei truci giochi di potere che fanno da sfondo al viaggio di Theo. Viaggio che non sarà solo geografico ma anche interiore, portando il protagonista ad approdare nuovamente sulle sponde della speranza per il futuro del genere umano.
Non c’è bisogno di aggiungere che le tematiche affrontate sono incredibilmente attuali, al punto che non è possibile non fare parallelismi tra la pellicola (tratta dall’omonimo romanzo di P.D. James) e l’emergenza umanitaria che sta affliggendo il nostro presente: criminalizzazione dell’immigrazione, negazione delle cause dell’emorragia di profughi, denigrazione delle organizzazioni che, riempiendo i gravi vuoti istituzionali, cercano di arginare la crisi in atto. Senza contare la minaccia della sostituzione etnica, sventolata da certe correnti politiche, che nel film è rafforzata dalla brusca interruzione della crescita demografica. Theo, nel suo percorso evolutivo, rappresenta due facce ben distinte dell’opinione pubblica: dapprima incarna coloro che, voltandosi dall’altra parte, fingono che il problema non esista, trincerandosi sovente dietro un preteso cinismo fecondo di fatalistiche considerazioni del tipo “non può che essere così”. Successivamente, abbraccia l’istanza attivista secondo cui limitarsi a tollerare equivale a concorrere con i persecutori, accettando l’assunto che l’intervento attivo è l’unica scelta responsabile.
Questa seconda visione del personaggio, certamente positiva, è quella che Cuarón promuove con un narrato drammatico, intenso e introspettivo, volto a mettere in luce non solo le debolezze delle istituzioni, ma anche dei movimenti che le contrastano, spingendo lo spettatore a confrontarsi con la propria coscienza.
Con ciò non sto ovviamente suggerendo che ognuno di noi dovrebbe unirsi ad una ONG per rendersi davvero utile, sto semplicemente dicendo che dovremmo guardarci dentro e chiederci, con estrema franchezza, se c’è qualcosa che possiamo fare, in concreto, per migliorare una realtà che non intendiamo più accettare. Riflessione facilmente mutabile anche in altri contesti, come quello che mi accingo ad affrontare.
Anni 2010: Snow Piercer (2013)
Siamo giunti al termine di questo excursus e chiaramente l’approdo non può che essere quello ecologico, giacché la più grande paura (eccezion fatta per i negazionisti, i quali meriterebbero un discorso a parte) con cui dobbiamo – o dovremmo – fare i conti oggi è il disastro ambientale che, salvo brusche virate di rotta del sistema economico-politico, sembra sempre più inevitabile. In altre parole, siamo giunti al mostro finale, letale e con potenzialità distruttive illimitate.
Il film in questione è la prima opera hollywoodiana del coreano Bong-Joon Ho (regista di Parasite e Memories of a Murderer), che ispirandosi alla graphic novel Le Transperceneige, affronta in modo peculiare la tematica ambientalista. Nel 2031 l’umanità subisce le conseguenze del suo più grande fallimento: per cercare di contrastare il global warming, ormai inarrestabile, è stato infatti tentato un disperato esperimento volto a raffreddare l’atmosfera, il cui esito disastroso ha però condotto la terra in una nuova era glaciale. Gli unici sopravvissuti sono i passeggeri dello Snowpiercer, un treno appositamente congegnato per restare eternamente in movimento e sfrecciare tra i ghiacci che ormai avvolgono il mondo. All’interno del convoglio gli schemi sociali sono ridotti all’osso: i più poveri vivono nelle ultime carrozze e vengono avidamente sfruttati, mentre i più ricchi occupano la vetta del veicolo, godendo di qualsiasi comfort ci si possa aspettare. In altre parole, i poveri subiscono le conseguenze peggiori del disastro ambientale mentre i ricchi, riuscendo a gestire quel che resta delle risorse, conducono un’esistenza – nei limiti del possibile – agiata. Le tensioni sono inevitabili e si arriva ben presto a una vera e propria lotta di classe, incentrata sulle istanze rivoluzionarie e sovversive dei disagiati (capitanati da Curtis, alias Chriss Evans), da un lato, e quelle conservatrici dei benestanti (supportate da Mason, alias Tilda Swinton), dall’altro.
La satira sociale, rafforzata dalla rappresentazione grottesca dei personaggi e dei loro rapporti, è volta a lanciare un monito, che avrebbe poi incontrato quello di Greta Thunberg e del movimento Friday for The Future: il pianeta sta soffrendo, vittima delle logiche efferate di un capitalismo sempre più spinto, e arriverà il momento in cui non ci sarà più un rimedio opzionabile, nonostante le disponibilità economiche da schierare in campo.
Nel mondo di Snowpiercer si assiste alla rivolta delle classi operaie che, spodestando quel che resta dei capitalisti, riescono a recuperare il controllo di una realtà compromessa e a fermare quel treno in corsa, scendendo dal quale, si rendono conto che i ghiacci hanno cominciato a ritirarsi e che forse un nuovo inizio, con nuove regole sociali ed economiche, è possibile.
Potremmo leggere tutto questo come un invito alla presa di coscienza da parte della base sociale, che unendo le proprie forze potrebbe raggiungere la potenza necessaria a mettere alle strette le classi dirigenti e i magnati che governano il mondo, così da inaugurare un nuovo percorso, più consapevole e sostenibile, che dia speranza al genere umano. Viceversa, non dimentichiamoci mai che il pianeta Terra sopravvivrà anche senza di noi, riadattandosi, mentre l’uomo non sarà che un ricordo sbiadito di cui forse, nessuno, avrà memoria.
[1] Curiosità: il generale ottimismo che regnava durante gli anni del boom economico, spinse la Universal a pretendere da Gilliam la riscrittura del finale che doveva essere, a tutti i costi, un happy ending. Esiste, infatti, una versione alternativa del girato dove Sam riesce a coronare il suo sogno d’amore e fuggire, sano salvo, dai suoi oppressori. Gilliam ha però combattuto e ottenuto che il finale ufficiale fosse quello che tutti conosciamo, per fortuna (N.d.R).