Boris siamo noi
di Guido Landini

A più di dieci anni dalla sua uscita, Boris si evolve, conquista gli spettatori su Netflix, mostra le sue molteplici facce divertenti e non. Mentre si paventa la possibilità di un quarto ritorno, raccogliamo da questa serie tante, troppe cose che ci appartengono: televisione, politica, cinismo, televisione che manda in onda la televisione. Tanto di noi insomma.
La qualità ci ha rotto il cazzo.
Si potrebbe scrivere un pezzo su Boris impostandolo come una critica alla televisione italiana. Ma sarebbe parziale e non temerario come Boris, perché Boris è una critica alla televisione punto e basta. Migliaia di prodotti sempre uguali, massificati e tendenti alla spazzatura; perché è quello che il pubblico vuole, ed è quello che la televisione vomita, in una sorta di nodo gordiano che è impossibile sciogliere. Tuttavia, un simile atteggiamento psicoanalitico, o fenomenologico o addirittura sociologico, puzzerebbe un po’ di già sentito. Spostando un po’ l’inquadratura invece, il taglio potrebbe essere questo: Boris è un inno alla bassa risoluzione. Perché il brutto trionfa sul bello? Perché la bellezza è soggettiva, il brutto invece sembra essere ecumenico; il brutto è concreto e deittico, genera tentazione e repulsione, il bello chiama in causa teorie, estasi, critici e cherubini e cheppalle; e poi costa di più. Ma non è finita qui. La schifezza, la merda, finisce per piacere, è legata ad una tonalità affettiva: la riconosciamo, puntandogli il dito addosso come fa uno dei meme con Di Caprio, e ci riconosciamo. Siamo noi. Nel gusto per il trash facciamo squadra, manteniamo viva una punta conservatrice che sentiamo necessaria. Perché insomma, siamo tutti d’accordo che questa roba fa schifo, ma è roba con cui siamo cresciuti, e dunque qualche valore ce l’avrà! Si potrebbe immaginare un personaggio schifoso alla De Maistre (quindi anche il dr. Cane potrebbe andare benissimo) con un bicchiere di whiskey in mano, preso a sussurrare ad uno dei suoi apprendisti schifosi: “Dateceli dai cinque ai dieci anni in prima serata, e saranno nostri per tutta la vita”.

Quando manca una protezione politica…
Un pezzo su Boris potrebbe prendere la piega della satira politica. Gli occhi del cuore, la fiction televisiva che sta al centro della serie, è un necrologio politico: ripudio della meritocrazia, raccomandazione come pratica endemica, sfruttamento e precarietà del lavoro, razzismo e sessismo, e chi più ne ha più ne metta. “L’Italia del futuro è così, un Paese allegro mentre fuori c’è la morte”, suggerisce uno degli sceneggiatori di Boris – uno di quelli finti. Come si costruisce il consenso? Mandando in onda Gli occhi del cuore. La fiction trash più amata dagli italiani è una bilancia politica che pesa infinitamente di più di qualsiasi attività istituzionale. E le scene e le situazioni irreali rappresentate sono strategiche, perché – si stenta a crederci – propongono modelli di comportamento: bisogna esser pronti a dire le parolacce senza senso, a far sparire gli omosessuali quando la Lega prende voti, e mai – tabù assoluto- menzionare un lutto infantile. Allora qui scendiamo nel torbido. Scrivere questo pezzo su Boris significherebbe ripercorrere l’ascesa del berlusconismo; o ancora meglio, la discesa televisivamente annunciata di una mentalità che ha fatto tabula rasa di ogni tipo di aspirazione valoriale. Boris non fa altro che raccontare i primi frutti depositati da questa mentalità.
Tutto su questo set è doppio. Io sono triplo.
Queste le parole di esordio per il backstage di Stanis La Rochelle (Enzo Facchetti nella vita “reale”). Una serie, Boris, incentrata sulla produzione di una serie fittizia, Gli occhi del cuore: è come se la televisione si rovesciasse su se stessa per guardarsi dentro le budella. Un altro possibile pezzo su Boris potrebbe quindi essere giocato sulla forma di un esperimento meta-narrativo. Potrebbe ambire a restituire l’impianto sterile, onanistico e auto-referenziale che ha assunto la televisione con gli anni. Perché non sembra davvero possibile riprodurre o immaginare un mondo al di fuori di una cornice mediale; pochissime in Boris sono le scene riguardanti la vita privata dei personaggi: non c’è vita al di là del set. Il mondo è il set: un luogo raccolto, costruito e senza sorprese. Non resta che riprodurre un gioco di incastri, specchi e di cornici, mentre la realtà viene tenuta sotto tiro da una pistola mediatica, e a debita distanza, perché la distanza è fondamentale in un ambiente del genere. Essere diretti e autentici diventa un controsenso (vogliamo vedere vederci), come lo è amare, perché l’esperienza dell’amore rende incoerente il personaggio creato. Amarsi diventa il diktat. Bisogna raschiare il fondo della menzogna per cavare fuori qualche verità: il cortometraggio della Formica Rossa girato da Ferretti (Francesco Pannofino) in parallelo agli Occhi del Cuore apre uno squarcio improvviso di profondità, potenza e bellezza, e il frastuono sembra zittirsi. Ma di che bellezza si tratta? È la coda del pavone, il fascino e la tristezza di trovate ipocrite che si aprono a ventaglio. Boris come una telenovela barocca.

Ma fattela ‘na risata!
I possibili articoli Boris elencati sopra sono davvero troppo musoni e tradiscono il genere di Boris: la commedia. Nella commedia si ride. E in Boris si piange dal ridere, chi scrive non ha mai riso così tanto guardando una serie tv. Infatti, si piange anche per il ridere: per l’ironia che è dovunque e copre tutto come un rumore bianco che sale dalla gola. Si ride per il coraggio che hanno avuto certe persone a riprodurre e mandare in onda certa monnezza. Si ride perché è vero, e perché non rimane altro da fare: le emozioni umane o sono finte, o sono basite, o sono comprabili, o sono effetti collaterali. L’ironia è la benzina della televisione. L’ironia tradizionalmente sorge in contrasto tra ciò che si vede e ciò che si sente, e quella forma di ironia televisiva funziona tramite immagini e suoni in contrasto tra loro: ciò che viene mostrato smentisce ciò che viene detto. Cogliendo l’ironia di uno spot, riconoscendo l’imbroglio, lo spettatore dimostra un’astuta superiorità e crede di trascendere la categoria stessa di cui fa parte, così come apprezzando la freddezza e il cinismo di certi programmi conferma di non essere coinvolto con quanto sta vedendo, e di sapere il fatto suo. Ma questo “svelamento” è guidato quanto il percorso della cavia in un labirinto allestito per un esperimento: l’ironia geneticamente modificata che propone la televisione viene spogliata della sua componente rivelatrice e anti-ipocrita più pericolosa. Quello che rimane è una critica radicale, distruttiva e senza contenuti, un’ironia tirannica perché sempre capace di dire “non sto dicendo sul serio”.
Cinismo che allena ad atrofizzare la speranza.
Boris come Bojack Horseman con un pesce rosso e senza cavalli. Boris come Infinite Jest con i nomi dei tennisti e i personaggi grotteschi. Boris che intrattiene come gli epigrammi di Marziale: quelli cattivi, sporchi e taglienti.

Un’altra televisione è possibile?
Chi scrive confessa di appartenere a coloro che hanno visto Boris per la prima volta su Netflix, in tempi recenti e pandemici. Boris parla al futuro, perché Gli occhi del cuore riserverà sempre qualche puntata da girare in un domani, sempre che in quel domani attori e registi non vengano sostituiti da robot (che poi a quel punto, ci si domanda cosa cambierebbe davvero: magari proprio i robot sarebbero capaci di fare un lavoro migliore). Al che questo suggerisce un pezzo aggiuntivo. Forse un’altra televisione oggi è davvero possibile, ma non nei termini che immaginavano Ferretti & Co.
È possibile nel carnaio delle piattaforme di streaming, nell’armageddon dei contenuti on demand, dove la novità bruciante e l’aspettativa che ci creano attorno sono come reti calate per catturare ogni nostro briciolo d’attenzione; dove si rimane paralizzati non perché danno sempre la “solita fiction”, ma perché l’offerta è troppo ampia e bisogna scegliere. Si deve scegliere. Boris come la televisione è un contenitore di immagini, spunti e schifezze; codifica un processo, e una carrellata veloce di temi e una smarmellata di idee non basteranno a definirlo. In fondo, a volerla stringere, Boris sceneggia la storia di uno spreco. Boris parla di noi: noi italiani, essere umani. Noi spettatori. In fondo, cosa lega Lost a Un medico in famiglia? Non tanto il fatto che entrambi si vedano attraverso uno schermo; ma che sono oggetto di scelte, le scelte che noi facciamo, a cui ci dedichiamo e che ci definiscono: la libertà ridotta ai tasti digitati sul telecomando e sulla tastiera. Parla di quel tempo dedicato all’intrattenimento e che tiene in piedi l’intero baraccone: un tempo ritenuto vuoto, ma che è cruciale e brulicante di possibilità.
Bibliografia
Adorno T. W, How to Look at Television, in “The Quarterly of Film Radio and Television”, vol. 8, no. 3, 1954, pp. 213–235.
Benjamin W., Il Dramma Barocco Tedesco, Einaudi, 1999.
Dal Lago A., Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre epopee, Manifestolibri, Roma, 2010.
Flusser V., La Cultura Dei Media, Mondadori, 2004.
Luhmann N., La realtà dei mass media, Franco Angeli, 2000.
Mantellini M., Bassa Risoluzione, Einaudi, 2018.
Menduni E., I Linguaggi Della Radio e Della Televisione: Teorie, Tecniche, Formati, Laterza, 2010.
Wallace D. F, E Unibus Pluram: Television and U.S. Fiction, in “A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again: Essays and Argument”, Abacus, 1998.
Wallace D. F, Infinite Jest, Einaudi, 2016.
Un commento su “Boris siamo noi, un articolo di G. Landini || THREEvial Pursuit”