Black Friday
di Andrea Polverosi
Illustrazione di LaMascra
Ero solo. Dei miei compagni non c’era più nessuno. La mia famiglia era morta da tempo. Poco dopo l’inizio del cammino, avevamo finito i soldi. Non avevamo più nulla. Mia moglie morì per denutrizione, nell’inutile tentativo di sfamare nostro figlio di due anni. Lei mi mentiva. Diceva di mangiare a sufficienza ma non era vero. Alla fine non ce l’avevano fatta, nessuno dei due.
Anche gli altri con noi erano morti. Ero rimasto solo ma proseguii. Ormai non potevo fare altro che andare avanti. Mi hanno picchiato, frustato, torturato, sodomizzato. Non so più quante volte mi hanno costretto a lavorare fino a svenire. Ho provato a togliermi la vita. La seconda volta ci ero quasi riuscito, stavo morendo dissanguato ma loro mi hanno ricucito. Per loro ero un guadagno. Non mi avrebbero lasciato andare via così facilmente.
Quando ormai non ero altro che un mucchio di inutili ossa scarne, mi hanno messo sul gommone insieme ad altri spettri neri in un mare che uccide. Qualcuno di noi sperava ancora. Molti non ce l’hanno fatta. Eppure io sono ancora vivo…
Alla gola. L’acqua mi arrivava fino alla gola facendomi morire. L’annegamento era una delle morti che più mi aveva sempre colpito per la sua violenza. Chi affoga è inerme; non può fare nulla. Una lenta e consapevole discesa verso il profondo. Verso il freddo. Una gelida immersione dove chi muore riesce a cogliere l’esatto momento in cui tutto svanisce.
Mi sbagliavo. Dopo essermi gettato dall’imbarcazione ero un frenetico schizzo di vita. Il mio corpo si dimenava in ogni direzione cercando di cacciare via l’acqua. Annaspando, non ero consapevole di nulla, ero un grumo di vita assoluta. Mentre morivo, sentivo tutta la realtà della mia esistenza come poche altre volte mi era capitato. Quel qui e ora verso cui, prima di partire, ero solitamente asettico, incapace di percepirlo. Una vita gratuita che non si fa sentire.
***
«BIP. BIP».
Un rumore fuori. Una lingua che non parlo, ma che riconosco. Finalmente. Ce l’avevo fatta. Ero arrivato.
«Oh cazzo, finalmente ci sei Mario! È da stamani che ti aspetto maledetto. Su, su fa’ vedere questo gioiello di cui mi parli da giorni. Ma è piccolo. Solo un bambino! Ah dici che non è un problema, è così che deve essere… mah sarà! E quindi questo è l’ultimo modello di robot casalingo. Scusa, ma le filippine non ci sono più? Se ne sono andate via anche loro da questo schifo eh… e fanno bene! Qui si muore e basta. Poi mi dici dove l’hai rubato questo coso qua, che di sicuro non l’hai avuto in modo pulito… anzi, no! Non me lo dire. Meglio non sapere la merda che combinate voi altri. Prima di pagartelo, però, voglio fare una prova, ché ieri mi è capitato un altro affare per le mani».
Rumore di chiavi che girano alla porta. La porta che sbatte. Un uomo che entra. La luce che mi fa male agli occhi. Due o tre schiaffetti mi picchiettano il volto.
«Uè! Uè! Ciccio, sveglia, dai! Dai che c’ho da fare. Mi chiude il supermercato quindi vediamo di sbrigarci».
«What?! What?! Wait! Who are you?»
«Eeee con questa vostra lingua strana. Alzati».
Provo a mettermi in piedi ma cado. L’uomo allora mi prende sotto una spalla e mi solleva un po’. Non so da quant’è che non mangio. Mi sento vuoto. La testa dentro di me è bianca.
«Adesso ti spiego la situazione, caro».
Mentre mi accompagna fuori, l’uomo mi parla piano, con movimenti lenti, come se mi volesse rassicurare.
«Piacere, Angelo. Mia moglie mi ha lasciato per uno coi coglioni più grossi dei miei e i miei figli se ne sono andati tutti a Milano a lavorare. Certo, qui si muore. Però loro mi hanno proprio abbandonato. Quegli ingrati cani bastardi. Comunque, tra poco andrò in pensione e ho bisogno di qualcuno in casa che mi dia una mano con le faccende. Sai, quelle cose che a me non va di fare… pulire, cucinare, rifare il letto. Roba così. Insomma, io ho un lavoro da offrire ma qui nessuno lo vuole. Sono tutti vecchi come me e i pochi giovani rimasti fanno il DAMS. Poveracci. L’altro giorno il mio amico qui fuori mi ha parlato di un nuovissimo attrezzo, un giocattolo robotico che fa tutto in casa al posto tuo».
Mentre l’ometto sproloquia, guardo davanti a me e vedo un tizio curvo, in là con gli anni, vicino a un vecchio furgone verde scuro. Qualche metro oltre, in mezzo alla terra arsa dal fuoco del sole, sta eretto un piccolo cucciolo di robot. Sarà alto fino alla mia coscia. In parte bianco e in parte blu, al posto della faccia ha delle emoticon. Con le guance rosse, mi sorride.
«Quello lì è iRon ma a vederlo così mi sa più di Luigino. Be’, Luigino a quanto pare c’ha un gran cervello. Coi suoi algoritmi calcola di tutto. Mi fa il sette e trenta e cucina il pollo anche meglio di mia moglie. E caga il cazzo meno di lei. Ora, Luigino mi costa 30 mila euro, che a rate diventano circa 45 mila. Il mio amico mi ha detto che visto che sono io, mi sconta 5 mila euro, per un totale di 40 mila. A quanto pare ‘sti cosi vivono a lungo e se dovesse rompersi prima che io muoia, il mio amico conosce uno che può rimetterlo a posto. Adesso… tu avrai sui ventidue anni a guardarti così. Sei giovane e forte e mantenendoti per una ventina d’anni così a occhio dovrei spendere meno, molto meno. Luigino è sicuramente più efficiente di te, però sai, sono uno un po’ all’antica io. Non ho nemmeno mai comprato un e-book. Che ci vuoi fare, l’odore della carta! E poi, forse, tu sei un po’ più di compagnia di lui. Insomma, prendo chi vince! L’altro può andare a farsi fottere, non sono affari miei. Tranquillo, non ci devi fare a cazzotti. Non siamo mica in un cartone splatter giapponese qui. Vi sfiderete in una partita a scacchi. La creatività umana contro l’algoritmo d’acciaio! Lo so, lo so… lui è una tremenda macchina calcolante. Ma tranquillo. Oggi mi sento buono. Basta che gli mangi un pezzo. Uno solo, anche per caso. Va bene anche per caso».