Three Faces

La terza faccia della medaglia

Bianca, un racconto di V. Corvello || Street Stories


Bianca

di Vincenzo Corvello

Illustrazione di Bladi

Io sono un fantasma.

La vita si è staccata da me pezzo per pezzo. È rimasta indietro mentre io proseguivo, ogni volta più leggera, piccola, vuota. Pietro e Luisa, Luigi e Michele. Si sono fermati mentre io procedevo mio malgrado, e il cammino si faceva sempre più insensato. O forse è più giusto dire che sono stata io a rimanere indietro. Ostinata, sono rimasta qui, dove li ho conosciuti. E mentre io ero ferma, loro sono scappati in avanti, dove non potevo più vederli. Come Michele, da piccolo, quando lo guardavo correre in giardino: piegavo la testa un minuto e lui spariva dietro un angolo. Il tempo di farmi preoccupare, poi riappariva ridendo spensierato.

Io sono un’ombra.

Il mio corpo è avvizzito. La carne è sparita lentamente, consumata dagli anni e dalle sofferenze, finché la pelle ha aderito alle ossa. Si sono consumati i sensi. La vista per prima e poi l’udito. Infine il tatto: si è atrofizzato, da quando posso toccare solo le superfici lisce degli oggetti. Niente piante, niente animali, non il corpo di un uomo o di un bambino: solo pareti e pavimenti, tavoli e lenzuola, le statuette di porcellana che per un po’ mi è piaciuto collezionare. Senza sparire, i sensi si sono diradati, lasciandomi in un vuoto in cui rimbombano i ricordi. I ricordi dei fatti, delle persone, della musica e dei suoni, della luce e dei corpi, degli abbracci, delle carezze, degli amplessi. Per ultime se ne sono andate le emozioni. Credo sia stato quando ho cominciato a non sentire bene. È strano il legame che esiste fra i suoni e le emozioni. Da quando è sceso il silenzio, anche il cuore e lo stomaco sembrano diventati sordi.

Sono un fantasma e infesto questa casa enorme.

Questa casa che è l’unica cosa più antica di me. Da cui in lontananza – lontano davvero – si vede il mare. Una casa così grande che quando sono al piano superiore e penso all’ingresso, mi pare sia in un’altra epoca. Nello stesso luogo, nello stesso tempo in cui sono i miei fratelli, Pietro e Luisa. Una casa di blocchi di pietra, che assorbe i suoni dall’esterno, come il mio udito indurito. Che rimbomba di ricordi come la mia testa.

Vago fra le statue di porcellana, ciascuna legata a un giorno speciale, tutte a una stessa persona. A Luigi, che me le regalava. “Buon compleanno Bianca”, “Buon Natale Bianca”. Luigi che è stato con me per così poco, quando pensavamo saremmo stati insieme per sempre. Lui che mi ha voluta – anche io l’ho voluto, ma è stato lui a scegliermi – in un tempo in cui pensavo che non sarei mai stata come sono ora: quando ero ragazza e potevo avere tutti gli uomini che volevo. Uno solo fra tutti, a essere esatti, perché in quegli anni, in quei luoghi, più di un uomo non volevi, non osavi avere. Luigi che mi ha voluta e mi ha presa. Mi ha sposata. Ce ne siamo andati lontano, in America e lì pensavamo di rimanere. Ma lui è rimasto con me davvero per poco. Mi ha lasciata che ancora non avevo imparato l’americano. È morto. Mi ha lasciata con Michele e io sono tornata qui. Qui dove avevo una casa, tanti amici e per fortuna i soldi. Qui in questa casa dove pensavo avrei avuto ancora una vita felice.

Il piano superiore è diviso in quattro stanze. Due camere da letto. Un salottino, o uno studio se volete. La quarta è una biblioteca. Ho sempre amato i libri. Il piano di sotto ha tre stanze e un bagno. Un salone. Ha due porte: una enorme che dà sull’ingresso e una più piccola, di servizio, in fondo. Dall’ingresso si arriva in cucina, che fa anche da sala da pranzo. La sera a volte sto nella camera da letto al primo piano. Da lì si vede il mare, in lontananza. Più spesso vado in biblioteca. Il piano di sotto lo frequento poco. Non che mi crei problemi scendere e salire le scale. Per fortuna di tutte le capacità che ho perso, quella che è stata compromessa meno è il movimento. L’ultima volta che ho lasciato questa casa non saprei dirvelo, visto il tempo che è passato, ma sento che se volessi potrei andare lontano. Ogni tanto capita che io sia in biblioteca e qualcuno passi per strada, oltre il giardino. Guardo quelle figure con curiosità: gente che cammina, corre o va in bicicletta, gente che parla o ride. Che grida. Una volta – ci vedevo ancora bene – una ragazzina che piangeva. Quasi tutti guardano verso la casa. Non credo mi vedano perché c’è sempre buio in biblioteca. Però qualcuno a volte insiste. Forse indovina la mia presenza: non lo so, ma accelera il passo.

Spesso ci sono dei bambini. Da qualche tempo hanno preso a sfidarsi a chi più si avvicina alla casa. Una prova di coraggio. Cos’è che si diranno? “C’è un fantasma”, certamente. O forse una strega. Un cadavere, magari. Così stanno lì un bel po’ a spingersi e strillare. Poi uno si stacca e si avvicina. Per lo più percorrono il lato sud del giardino. Si nascondono dietro la siepe addossata al muro di cinta. Vengono, bussano e scappano via. Qualche tempo fa uno ha proseguito verso le finestre del salone. Le ha trovate entrambe chiuse, così – mascalzone – ha tirato un sasso e ha rotto un vetro.

Oggi sono tornata in biblioteca e mi sono avvicinata alla finestra del balcone. I bambini sono di nuovo lì. Sono un crocchio fitto e non li distinguo uno dall’altro, ma mi accorgo fin da qui dell’eccitazione insolita. Quella massa informe di membra infantili si deforma ogni tanto, come se un pezzo stesse per staccarsi. Poi la protuberanza rientra e ricominciano a parlare. Alla fine però uno si separa dal gruppo. Da quella macchia scura esce un esserino paffuto, più piccolo degli altri. Guardando quel grumo mi ero immaginata ragazzini magri e bruni. Questo, invece, è bianco e rotondo. Entra nel giardino e percorre il tratto fino alla siepe, lento. È spaventato. La tentazione di tornare indietro deve essere forte, ma si fa coraggio e alla fine ci arriva, alla siepe. Si acquatta dietro le foglie. Lo perdo di vista. Aspetto che sbuchi vicino all’angolo della casa, come hanno sempre fatto gli altri. Da lì farà una corsa fino al portone di ingresso per il solito scherzo: bussare e scappare via. Lui però, quando finalmente esce dalla siepe, corre sì, ma non verso la porta. Si dirige rapido verso il fondo del giardino sul lato sud. Sparisce dietro l’angolo, verso la finestra rotta qualche giorno fa da uno dei suoi compagni. La posta è aumentata. La prova di coraggio non è più disturbare il fantasma. Bisogna entrare in casa e correre il rischio: vederlo. E chi scegliere per questa prova che nessuno ha avuto il coraggio di affrontare prima? Il più piccolo, certo, magari uno da fuori. Che non sa le regole. A cui si può dire che lo hanno già fatto tutti. O comunque uno che, se vuole non lo si tratti male, questo deve fare e zitto. Non può che ricordarmi Michele, che è stato bianchiccio e paffuto non più degli altri bambini, ma che ora ricordo così.

Può farsi male, penso. La lastra di vetro è venuta via. La finestra è spalancata, ma può esserci ancora un frammento che sporge. Torna un’emozione. Ansia. Non ci sono più abituata e così la considero per un po’, in attesa di sapere cosa farci. Poi decido di trattarla per quello che è, ansia: mi muovo per lasciarla indietro e scendo al piano di sotto. È buio e io sono leggera, non faccio rumore. Così, quando mi affaccio alla porta di servizio del salone lui non mi ha sentito né visto. Si guarda intorno. Forse è costretto a prendere qualcosa per provare il suo coraggio. Comunque sia, non trova quello che cerca. Si gira verso la finestra. Ha sentito uno scricchiolio. Per un attimo mi pare voglia correre indietro, ma resiste e si gira verso la grande porta che dal salone dà sull’ingresso, il temerario. La attraversa. Io esco sul corridoio. Il bambino si ritrova la porta d’uscita sulla destra. È una tentazione forte per lui. Ma è proprio un ragazzino coraggioso e prosegue verso la cucina. Mi avvicino, ma non voglio spaventarlo. Dalla soglia lo guardo mentre si accosta al tavolo. Ha i calzoni corti. Come aveva Michele, solo che questi non hanno le bretelle, quelle che facevano una croce sulla schiena e tenevano su pantaloni comprati un po’ grandi perché durassero. Arriva in fondo e si ferma. Sta per girarsi e tornare indietro, così mi nascondo nell’angolo che sta fra la porta d’ingresso e quella della cucina. Lui esce e mi passa davanti senza accorgersi di me. Non più di qualche centimetro. Sento il suo calore vicino al braccio.

Quel calore! Il calore vivo di un corpo infantile. Mi ricorda Michele in grembo, così piccolo, a riscaldarmi allo stesso modo, nello stesso punto. Lo rivedo cresciuto, un uomo di cinquant’anni. Ancora paffuto, ancora bianco, ma ora freddo. Michele all’obitorio, ucciso dalla malattia e sua madre che non capisce come sia possibile. Michele che è scappato avanti dove non posso vederlo. Michele che mi ha lasciato indietro, il pezzo più grande di me, che se ne è andato rendendomi più vuota, piccola e leggera di quanto potessi mai pensare di essere.

Allungo le mani verso il bimbo. Lui non mi vede. Le mie mani quasi gli accarezzano i capelli. Da quanto tempo non ne tocco. Solo superfici lisce. Avvicino le mani ancora un po’ e la punta delle dita sfiora alcuni di quei capelli. Ma è sufficiente: lui si volta e mi guarda. Terrorizzato, mi fissa per un attimo, ma ciò che vede non sono io. Vede un fantasma, una strega, vede tutte le sue paure in un volto. E scappa via. Prima verso il salone, poi, più per istinto che per la testa, capisce che la porta d’ingresso è la via più veloce e si butta verso la maniglia. Per sua fortuna si apre immediatamente. Scappa via senza chiudersela dietro. Non mi pare abbia nemmeno gridato. Ora è lì dove io non posso più vederlo, come Michele.

Mi avvicino al portone e lo chiudo. Giro la chiave. È fredda. E così scopro – mi ricordo – di non essere ancora morta. È come se lo fossi, in fondo. Sono vecchia, incredibilmente vecchia. Ma non sono morta. Michele se n’è andato ormai cinquant’anni fa. Luigi settantacinque. Io ho superato i cento anni e sono ancora qui. È innaturale. Michele non è riuscito a vedere l’uomo sulla Luna. Se ne parlava. Avrebbe voluto. Luigi è morto che l’Italia era ancora un regno, vi pare possibile?

È innaturale pensare ai fatti della propria vita come si pensa alla Storia. Eppure per me è così. Per me, io stessa sono remota come quello che voi leggete sui libri. Forse per questo amo la biblioteca. Per questo la amo più della finestra. Perché mi sento più vicina all’astrazione dei libri che alla consistenza del mare. È innaturale vivere così a lungo. E infatti non durerà per molto. Le gioie sono finite. Sono una foglia d’inverno, sopravvissuta alla propria stagione. Quando chiuderò gli occhi per sempre, l’ultimo calore che avrò sentito sarà quello di un bambino che mi ha sfiorato il braccio.

Bianca, un racconto di V. Corvello || Street Stories

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