Simply (the) Best
di Cartavelina
Trovò dei vecchi articoli di giornale del nonno Anselmo. Era stato un compulsivo accumulatore di tutto ciò che potesse ricordargli il suo periodo immortale. Tutti viviamo un periodo immortale, in cui siamo giovani e belli. Dei pirati moderni alla ricerca del nostro tesoro che ci consegni alla memoria dei sette mari. Con il senno di poi non ci riesce quasi nessuno, molto più probabilmente è una visione retrospettiva falsata che tende a innalzare il passato solo per l’enorme fastidio che proviamo nel vivere il tedioso quotidiano. Però così suona peggio. È più bello e romantico vederci come dei Don Chisciotte post-moderni che hanno lottato contro i loro mulini a vento e, come l’eroe della Mancha, non siamo minimamente riusciti a scalfirli.
Tornando a nonno Anselmo aveva una ricca collezione di articoli che coprivano un ampio spettro di notizie. Per esempio, quella del primo uomo che mise piede sulla Luna. Ora c’è chi vorrebbe farci credere che fu tutta una montatura ma sono gli stessi che credono che la terra sia piatta e che i vaccini facciano male, quindi credo che sia il caso di dare poco adito alla tesi. Nel trattarla troppo si rischierebbe di dare autorevolezza a qualcosa che è paragonabile a una flatulenza. Basterebbe fare come faceva nonno Anselmo con lui, una volta che si arrischiò a fare un rutto a tavola durante il giornale radio. Lo fece probabilmente per provare a vedere fino a dove poteva spingersi nelle sue esternazioni, si sentiva grande e voleva palesarlo al mondo. Il nonno lo vide invece come un affronto a duemila anni di evoluzione umana e gli lasciò quattro dita e mezzo stampate sulla nuca, con buona pace dei metodi educativi soft, il mezzo dito che non lasciò traccia sulla sua nuca era rimasto sotto una pressa.
Per fortuna il nipote di Anselmo aveva un computer portatile ultimo modello con una connessione internet di ultima generazione, era interconnesso con il mondo. Poi c’è sempre da chiedersi se il mondo viene messo a conoscenza della cosa ma non divaghiamo. Partì alla ricerca d’informazioni sul calciatore fangoso e da una visione preliminare dell’articolo del nonno aveva capito che si trattava della finale di Coppa Campioni 1968.
Manchester United contro Benfica.
Vagabondando nella rete venne a conoscenza che quella fu la prima vittoria di una squadra inglese in quella prestigiosa coppa. Gli inventori del calcio ci avevano messo tredici edizioni per vincere il massimo trofeo europeo per club ma questo lo dico io, non il nipote di Anselmo. Insomma dopo pochi minuti finalmente arrivò alla meta, aveva un nome, George Best. Però a lui suonò più come un soprannome. Aveva appena imparato dalla sua maestra d’inglese che, nella lingua che fu di Shakespeare ma anche della Tatcher (come a dire c’è sempre il bene e il male), best voleva dire “il migliore”. Insomma Giorgio il Migliore, anche per un bambino, suona molto come presa di culo. Dopo poco capì che nello specifico era davvero un cognome, c’era proprio una famiglia Best.
A leggere notizie su notizie sembrava un uomo che aveva raggiunto davvero la gloria dei sette mari, però a lui continuava a sembrare tremendamente triste. Gli ricordava una scimmia, nella fattispecie un gorilla, che aveva visto allo zoo qualche domenica prima. Maestoso e potente ma alla fine re in una gabbia a specchi, libero di battersi il petto recitando, a sua insaputa, una commedia che aveva come fine la spettacolarizzazione della natura. Lesse che il signor Best era nato nel 1946 e non gli fu difficile, facendo un breve conto, capire che quella prestigiosa coppa l’aveva vinta a 22 anni e nello stesso anno aveva vinto anche il Pallone d’Oro.
Risulta particolarmente iconico vincere il Pallone d’Oro nel 1968, il miglior calciatore europeo nell’anno più pazzo del novecento, un anno che non ebbe mai voglia di omologarsi. Perché allora quell’aria malinconica, come mai quegli occhi persi in altre vite?
Più si addentrava nella storia più provava una profonda tristezza, di quelle irrazionali, di quelle che ti colpiscono in soleggiate giornate primaverili. Troppo facile piangere in un piovoso lunedì di novembre, pare che sia il cielo a guidarti in un pianto a dirotto. Piangere senza motivo quando tutto ci comunica felicità fa tanto spleen romantico.
Lesse, in un’intervista, che il sogno di Best era sempre stato quello di superare in dribbling tutta la difesa, fermare il pallone sulla linea di porta, inginocchiarsi, forse un omaggio alla fedele palla, e colpirlo con la testa. Una volta aveva quasi rispettato l’intero copione ma poi calciò la palla per non far prendere un colpo al “boss” Matt Busby, suo allenatore e mentore allo United. La descrizione del gol perfetto secondo Best illuminò il nipote di Anselmo, capì che era stato l’irrazionale in un campo di calcio. Scartava l’avversario alla ricerca di una strada diversa, la sua Eldorado. Per non inaridirsi. Fughe sulla fascia ma soprattutto dalla malinconia e dalle proprie angosce. Giocava a pallone, nel senso puro e fanciullesco, non era mai stato un professionista. Non avrebbe potuto esserlo. Tutto sommato meglio, avrebbe solo mortificato il sogno.
Continuò a leggere e la vera illuminazione la ebbe quando scovò un trafiletto in una pagina dedicata ai grandi campioni del passato in cui George raccontava un fatto accaduto durante un’amichevole giocatasi nel 1976 tra Irlanda del Nord e Olanda.
“Era il 1976, si giocava Irlanda del Nord – Olanda. Giocavo contro Johan Cruyff, uno dei più forti di tutti i tempi. Al 5° minuto prendo la palla, salto un uomo, ne salto un altro, ma non punto la porta, punto il centro del campo, punto Cruyff. Gli arrivo davanti gli faccio una finta di corpo e poi un tunnel, poi calcio via il pallone, lui si gira e io gli dico: «Tu sei il più forte di tutti ma solo perché io non ho tempo»”.
Sentiva di avere una scadenza, che ci fosse un timer con un conto alla rovescia già partito che non era possibile fermare. Non aveva tempo per essere atleta, con tutto quello che ne consegue. Non poteva essere il migliore al mondo, lo è stato forse solo per due o tre anni.
Il nipote di Anselmo continuò a pensare alla cosa del tempo, della scadenza. Capiva che dietro c’era qualcosa di più complesso. Provò a immaginare e si dette una sua spiegazione, Best viveva come giocava. Sempre al limite, una meraviglia dietro l’altra. Donava stupore su di un campo di calcio e questo lo logorava dentro.
Decise a questo punto di passare all’atto finale della sua ricerca, guardare immagini di cosa questo nordirlandese facesse, riuscendo a scendere a patti con i fili d’erba. E lì non ebbe più dubbi. Quelli non erano dribbling, erano una cesura con il passato. Più cose belle faceva, più l’occhio torvo delle divinità del pallone lo prendeva di mira. Più lui le sfidava addentrandosi nei meandri dell’irrazionale più la sua maledizione si ingigantiva. Decise di giocare a dadi con il destino e inevitabilmente perse perché era pur sempre umano. Un moderno Achille, perfetto in un campo da calcio, come l’eroe omerico lo era su un campo di battaglia, ma il suo tallone fallace erano tutti i vizi che sono stati creati su questa terra. Era davvero il ’68 in campo e fuori, totale assenza di moderazione tra i ciuffi d’erba dell’Old Trafford così come ai banconi di pub e locali. Giocava sempre in casa George Best, non esisteva il terreno ostile. Era un prestigiatore, sempre al confine del baratro come se fosse a conoscenza della fine che avrebbe fatto e della rapidità con cui avrebbe calcato le scene. Si sentì sopraffatto e dovette porre fine alla visione anche perché la mamma lo stava chiamando per cena ed era meglio non sgarrare.
Sua mamma era pur sempre la figlia di Anselmo e quindi c’era poco da scherzare. Gli fu servito un piatto ricolmo di minestrone e provò con carote e patate ad emulare i movimenti del suo nuovo eroe ma si arrese velocemente. Andò a letto con la convinzione che un Best non ci poteva essere al mondo d’oggi né probabilmente mai rinascerà. Come c’è un solo Semola, cavaliere in erba nella favola Disney, un solo Piccolo Principe, tra volpi parlanti e rose da salvare, così c’è stato un solo George Best fanciullo del pallone che ha pagato per tutti con i suoi vizi. Farewell Best, verso i dannati non ci sono arrivederci ma solo grati addii.
La partita più bella Best dovrà sempre giocarla, non è uno sminuire il calciatore ma è un innalzarlo al livello che gli spetta, quello del sogno.
Cartavelina,
Firenze, 21 dicembre 2018.