Aronofsky (scritto e diretto)
di P. Tiziana Caudullo
Darren Aronofsky, il regista capace di prendere ciò che di più caro c’è nel tuo subconscio e sezionarlo minuziosamente. Sì, la sensazione è proprio questa: di qualcuno che con un affilatissimo bisturi se ne stia lì, chino su ciò che di più intimo hai nella psiche, impegnato a tagliarlo, martoriarlo, schiacciarlo.
Definizione troppo estrema? I casi sono due. Forse è colpa mia, è il mio tipo di sensibilità che mi rende particolarmente vulnerabile ai suoi film. Oppure è colpa tua, lettore, che non hai guardato abbastanza o abbastanza attentamente ciò che Arnofsky ha fatto.
Se vai a leggere la filmografia di Aronofsky, non ti ritroverai di fronte a una lista eccessivamente lunga. E se ti limiti ai film che da lui sono stati scritti e diretti, allora potrai contare appena cinque pellicole: Π – Il Teorema del Delirio, Requiem for a Dream, The Fountain – L’albero della Vita, Noah e Madre!. Probabilmente hai capito di quale regista sto parlando grazie agli ultimi due titoli, o mi sbaglio? Ma sarebbe un vero peccato fermarsi a questi.
La prima volta che vidi un suo film ero al primo anno di università, sola nella mia camera. Π – Il Teorema del Delirio. Oh, sì. Lo trovai in una lista di consigli tipo film-e-filosofia, e ne rimasi affascinata. Qualche tempo dopo vidi per caso Requiem for a Dream senza prestare attenzione al nome del regista, ma fu inevitabile: la fotografia, la colonna sonora scelta e la quantità di tagli di scena sono inconfondibili, e da lì in poi Aronofsky è diventato uno dei miei registi preferiti. Anzi, diciamolo pure: quello è stato il principio del mio amore non corrisposto.
Prendiamo quindi questi due primi capolavori, rispettivamente del 1998 e del 2000. Sono un ottimo esempio di come Aronofsky sia un regista estremo, che esprime ciò che è più autenticamente umano in modo crudo, diretto e sincero. Voglio dire, le cose che rendono umano l’uomo lui te le spiattella lì sullo schermo senza timore.
In Π – Il Teorema del Delirio lo fa attraverso la ricerca della verità. Non una verità, ma la verità, quella assoluta, che identifica il principio della realtà e definisce le regole secondo cui tutto è e si muove. Ma il punto è: l’uomo è davvero capace di conoscerla? «Mia mamma mi diceva di non guardare fisso il sole, ma una volta, a sei anni, l’ho fatto». Elementi fondamentali del film: allucinazioni, droghe, numeri, emicrania, sole, follia.
Requiem for a Dream è forse più subdolo. Inizia a stuzzicarti l’intimità della psiche attraverso una fotografia che richiama immagini ancestrali e profondamente ancorate nella tua mente. Il sesso è carnale e senza veli. L’amore è spudorato e sincero. Una volta che la visione della pellicola ti avrà spogliato delle razionali protezioni che abitualmente avvolgono quella parte del tuo inconscio, la trama la farà a brandelli. Forse all’inizio non capirai perché ti sentirai così nudo e violato. La colonna sonora di Clint Mansell (nota di stramerito, come per il film precedente) è ripetitiva e ipnotizzante. Se guardi il film con il giusto coinvolgimento quel motivetto ti seguirà per giorni e ti angoscerà nei momenti meno opportuni.
![[Foto di Andriy Makukha. Fonte: Wikipedia]](http://threefaces.org/wp-content/uploads/2019/02/Aronofsky-ridotta1-Foto-di-Andriy-Makukha-wikipedia.jpg)
Ma Aronofsky non è lo psicopatico malato e ricolmo d’angoscia che possiamo immaginare. Guardalo, con il suo bel faccione sorridente. Il fatto è che la sua espressione della cruda nudità dell’essere umano non è unilaterale. Darren lascia trasparire (quando più quando meno) anche un lato sentimentalista e teneramente emotivo. Lo fa attraverso la colonna sonora, la fotografia e ovviamente la trama. Mi riferisco a quell’amore spudorato e a quel sesso carnale di Requiem for a Dream. Lo fa anche con The Fountain – L’albero della Vita in cui, di nuovo, l’amore è talmente puro e semplice che la profondità della sintonia spirituale si riflette in una fisicità estremamente sensibile. I personaggi dei suoi film, quando fanno sesso in vasca, sono così presi dal loro contorcersi e unirsi che non si preoccupano dell’acqua e della schiuma che sgorgano e inondano il pavimento. Non so se rendo il concetto.
D’altra parte The Fountain si delinea un po’ come l’anello di congiunzione tra i due film precedenti e quelli che seguono. In qualche modo l’uomo cresce, supera un primo stadio di sensibilità e subconscio (carne, sensi, follia) creando un mondo simbolico che si dispiega nelle storie. La carnalità dell’essere umano è superata in virtù della scelta etica, così come Noè negherà il diritto di procreazione ai figli. La narrazione religiosa di tradizione ebraica è centrale. Lo stile di regia diviene più attutito e meno schiaffo in faccia.
Noah si configura così come una necessaria conseguenza. Non posso dire di aver studiato i testi sacri, tantomeno gli apocrifi di origine giudaica, e durante la prima visione del film non avevo idea dell’effettiva presenza di quegli strani mostri di pietra chiamati Vigilanti in un testo dal titolo Libro di Enoch risalente al I secolo a.C., che racconta una versione alternativa del diluvio universale. Pensa te se mi deve venir voglia di leggere la Bibbia e i suoi colleghi-testi-sacri per colpa di Aronofsky. Quello attorno a cui ruota tutta la trama è, alla fin fine, il libero arbitrio. La vita o la morte, la salvezza o la sfida. Il riferimento alla questione ambientale e alla salvaguardia della natura è costante.
«Fratello contro fratello. Paese contro Paese. L’uomo contro il creato. Ci siamo uccisi l’un l’altro. Abbiamo distrutto il mondo, abbiamo fatto questo. L’uomo ha fatto questo. Tutto ciò che era bello, che era buono: l’abbiamo annientato. Adesso, comincia di nuovo».
Perché in fin dei conti Noè è ossessionato semplicemente da una convinzione: quella di dover sacrificare il genere umano in virtù della salvezza del mondo (una convinzione che non ci dovrebbe essere del tutto estranea, considerata la situazione attuale della nostra Terra). Perire in virtù di una rinascita. In fondo, è un concetto già presente in The Fountain:
«Che cosa ne pensi?»
«Di cosa?»
«Di questa idea: la morte come atto di creazione».
In riferimento al suo ultimo film, Aronofsky ha rivelato in un’intervista: «In Madre! esploro le zone oscure dell’essere umano». Solo in Madre!? verrebbe da chiedersi. È inevitabile guardare il film in questione dall’inizio alla fine, anche con estrema attenzione, leggendovi chissà quale interpretazione e pensando di scorgere il senso che si cela dietro tutti quei simboli, per poi arrivare alla fine e dirsi: non ci ho capito un cazzo. O almeno è quello che ho fatto io. Non voglio generalizzare, ma se qualcuno ha capito la trama del film senza leggere su qualche sito la spiegazione data dal regista stesso ha il mio profondo rispetto. Un piccolo indizio, senza spoilerare: la narrazione religiosa e la questione ambientale non sono centrali, di più. Lo stile di regia e la colonna sonora più morbidi sono perfettamente compensati da immagini e accadimenti. Non pensare di scampartela, insomma, perché Aronofsky affonda il suo coltello nella tenera carne della tua psiche dal primo all’ultimo dei suoi film.
Ore 10.42
Premo INVIO
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Nota 1. Non tutte le sceneggiature dei film citati sono state scritte solo da Aronofsky. Quella di Requiem for a Dream è scritta insieme a Hubert Selby, autore del libro omonimo da cui il film è stato tratto. Quella di Noah invece con Ari Handel e John Logan.
Nota 2. Se non hai capito il perché di “Ore 10.42 Premo INVIO” alla fine del testo, guarda Π – Il Teorema del Delirio.
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