Appunti per un naufragio
di Chiara Francioni
È mercoledì sera e, con l’idea di rompere la routine infrasettimanale, ho deciso di andare a teatro. Entro nella sala familiare e mi guardo intorno. È pieno di volti distesi e sorridenti. Scambio qualche convenevole, condividendo l’atmosfera festosa, e cerco un posto dove sedermi. Inizio quindi a fare calcoli geometrici e prospettici in cui non sono certo una campionessa, ma lo sforzo è sempre lo stesso: trovare una seduta con visuale perfetta. Incredibilmente ci riesco. Non ho letto molto sullo spettacolo che sto per vedere perché mi piace l’effetto sorpresa. Conosco l’autore, però: Davide Enia, attore, scrittore e drammaturgo palermitano che ha già regalato ai posteri diversi capolavori (Maggio ’43 e Italia-Brasile 3 a 2, per citarne alcuni). Il titolo della pièce è L’Abisso e da quel che ho capito, la critica se ne è innamorata. È tratto dal libro Appunti per un naufragio scritto dallo stesso Enia, vincitore del premio Anima Letteratura nel 2017 e del premio SuperMondello e Mondello Giovani nel 2018.
Mi accomodo nel mio “spazio” e faccio appena in tempo a indossare la veste da spettatrice quando lo spettacolo comincia.
Anche chi non è un addetto ai lavori sa bene che in teatro esistono essenzialmente due dimensioni: il buio e la luce. Il buio è il regno del non-essere. Quando le luci sono spente i personaggi non esistono anche se i loro “portatori” sono proprio davanti ai tuoi occhi. La luce, invece, è l’essere. Non appena i fari inondano di calore il palco, i corpi si trasformano, oltrepassano la barriera del possibile e si manifestano nella loro incarnazione drammaturgica.
Eccola, dunque, la luce. Le due figure di cui avevo scorto i profili nella penombra sono adesso ben delineate: uno è un musicista (al secolo, Giulio Barocchieri), l’altro è colui che si appresta a narrare, ossia lo stesso Davide Enia. Ci regala uno sguardo capace di oltrepassare qualsiasi parete, sia fisica che ideale e il contatto è stabilito, ora il passaggio di flusso energetico tra pubblico e attore è in atto.
Non so quanti di voi ricorderanno, così su due piedi, quanto avvenuto la notte del 3 ottobre 2013 nei pressi di Lampedusa. Certo, dopo aver letto il titolo dello spettacolo dovrebbe tornarvi in mente l’accaduto e sono certa che in questo preciso istante siete già al punto del “Ah, ecco!”. Memoria tornata, groppo in gola istantaneo. Quella notte a poche miglia dalla costa lampedusana un barcone con a bordo più di cinquecento persone, in maggioranza profughi eritrei ed etiopi in fuga dalla Libia, affondò a causa di un incendio improvviso. Circa 360 persone persero la vita, inghiottite dal mare. L’evento, sebbene non unico nel suo genere (ahimè, aggiungo) si distinse per proporzioni ed è passato alla storia come il più tragico naufragio della storia recente del Mediterraneo. In quel periodo, immediatamente successivo alla cosiddetta Primavera Araba, Lampedusa si trasformò in una vera e propria frontiera, diventando costante punto di approdo per i migranti che abbandonavano le coste dell’Africa. Questi sono i fatti di cronica e, a questo punto, probabilmente avrete già recuperato anche utili informazioni sull’operazione Mare Nostrum, sull’istituzione della Giornata mondiale dell’accoglienza e così via. Ma dietro alla cronaca c’è sempre dell’altro. Ci sono persone, e non solo i profughi, sui quali normalmente poniamo l’attenzione, nel bene e nel male. C’è la vita degli isolani, dei professionisti impegnati nell’accoglienza (medici, educatori, infermieri, militari e non solo), dei volontari che dedicano il loro tempo alle sciagure altrui.
Ed è proprio di questo che ci parla Davide, intrecciando l’epopea di Lampedusa con il racconto del suo rapporto con il padre e del saluto definitivo allo zio Beppe, malato terminale di tumore, in un crescendo di emozioni sempre più forti e capaci di rubare la parola al più loquace e pettegolo degli spettatori. Il tutto impreziosito dalla perfezione dell’incastro tra voce, movimenti del corpo e musica. Un monologo che trascende i propri limiti e si trasforma con agilità in un coro, una sinfonia energica, un grido d’amore e di strazio trasportato da un tiepido vento profumato di salsedine.
Ma come nasce questo spettacolo? L’autore (che chiamerò semplicemente Davide tanta è l’intimità che si è creata tra lui, in piedi sul proscenio, e un’intera platea di sguardi ammutoliti) decide di andare a Lampedusa a più riprese per parlare con la gente, i testimoni diretti degli sbarchi, e comprendere il volto reale del fenomeno, ripulito dalle distorsioni provocate dal dibattito politico e dalla stampa. E in questo viaggio viene accompagnato dal padre, uomo di altri tempi che sembra imperturbabile. Due generazioni a confronto che mostrano un’unica possibile reazione dinanzi alla spietata visione della frontiera in cui morti e vivi si incontrano in un abbraccio struggente: l’empatia.
“Io non sono di sinistra, anzi, tutt’altro, proprio l’opposto”.
“Qui salviamo vite. In mare ogni vita è sacra. Se qualcuno ha bisogno di aiuto, noi lo salviamo. Non ci sono colori, etnie, religioni. È la legge del mare”.
Più o meno queste sono le parole con cui Davide inizia il suo monologo. È uno dei rescue swimmer che presero parte alle operazioni di salvataggio durante il naufragio del 3 ottobre 2013. Subito il sorriso che mostravo al mio ingresso dal foyer inizia a svanire, lasciando il posto a germogli di emozioni pungenti che ancora non riesco bene a comprendere. I sommozzatori, ci spiega, sono abituati alla morte “un calcolo sbagliato e si muore”. Eppure non esistono alternative, quando ti tuffi c’è un unico imperativo: salvare vite. E poi arriva la sentenza: ”Se hai davanti a te tre persone che stanno andando a fondo e cinque metri più in là sta affogando una madre con un bambino, che fai?”

E la risposta fa male, come ormai fa male tutto, anche le mie articolazioni costrette a forza in una posizione che vorrei abbandonare: “Tre vite sono più di due”. Immagino di poter ascoltare i pensieri del sommozzatore di cui ci parla Davide e ancora una volta solo il silenzio può dare forma alle mie parole.
Inizio a muovermi, ma non trovo pace. Lampedusa ormai è dappertutto. Non ci sono mai stata, lo confesso. Eppure riesco a vederne la terra battuta dal sole e a sentire l’odore salmastro portato dalla brezza, il suono della risacca che s’infrange contro le barche ancorate alla riva, i volti scavati dei pescatori, le loro abitazioni spartane. Lampedusa si presenta come un bottone che unisce sul mare due continenti. Rifletto su quello di cui ormai è diventata il simbolo: l’immigrazione. E ascoltando il racconto che procede mi rendo conto, forse per la prima volta in vita mia, della profonda frattura tra l’immagine che si presenta quotidianamente agli occhi del comune cittadino, intento a guardare il mondo attraverso lo schermo di una tv, e quella che invece restituiscono coloro che vivono a stretto contatto con la frontiera. Mi sento inadeguata e impotente.
Il narrato prosegue e vorrei poter raccontare per filo e per segno tutte le storie che ascolto, ma non avrebbe senso, perché anche la più fedele delle trasposizioni sarebbe comunque una sintesi incapace di rendere giustizia all’intensità di quanto sta accadendo davanti ai miei occhi. E allora penso che forse potrei farvi un dono e cercare di trasmettere la forza risvegliante del disagio che ora nuota nel mio stomaco, così simile alle braccia stanche dei profughi che si dibattono tra le correnti. Riesco a sentire il respiro di chi mi siede vicino, la tensione che attraversa i loro corpi, i muscoli contratti. Non siamo più in un teatro a fruire di uno spettacolo: siamo sulla costa ad accogliere uomini disidratati, coperti dai lividi e dai segni delle torture subite dai carcerieri libici, ragazzine stuprate, bambini sconvolti. Siamo su una motovedetta a fare il conto dei cadaveri che affiorano sul pelo dell’acqua. Siamo in un cimitero dove le lapidi non hanno nomi e recano indicazioni incerte sull’età dei defunti, siamo sulle imbarcazioni di pescatori che si trasformano in spalla d’appoggio per i militari impegnati nelle operazioni di recupero, siamo sulla riva a osservare giovani piedi che toccano terra dopo troppo tempo e restiamo ammutoliti, col cuore in gola, mentre ragazzi in abiti mezzi e strappati si gettano in lacrime a baciare la terra ringraziando Dio. Siamo nei centri di accoglienza che non hanno abbastanza spazio per accogliere tutti, siamo lì a fare qualunque cosa possa servire ad aiutare chi di aiuto non ne riceverà mai abbastanza. E forse non torneremo mai più indietro con la stessa anima che avevamo prima.
La realtà mi piomba addosso solo quando sento le lacrime che si raccolgono sul mento: hanno attraversato le guance e nemmeno me ne sono accorta, penso.
Ebbene, non voglio certo dirvi cosa pensare, non voglio tradurre questo bagaglio esperienziale che ho cercato di condividere con voi in scialba critica politica o trasformarlo in un autoreferenziale monito etico. Del resto io non sono nessuno. Anzi, sono qualcuno, esattamente come voi. Mi limiterò, pertanto a supporre che a questo punto sia possibile, per chi legge, trarre le proprie conclusioni, mettendo da parte inutili bandiere e fuorvianti ideologie. Il nord della bussola, dopotutto, dovrebbe essere sempre e solo uno: la vita, che è un valore unico e imprescindibile.
Così, certa di non avere molto da insegnarvi rispetto a quanto già dovrebbe fare la vostra coscienza, decido di concludere questo concentrato di pensieri, sconvolti e disordinati, riportando le parole con cui Davide chiude il suo spettacolo: “Da dove c’è la guerra, non si scappa in aereo. Si fugge a piedi e senza visto per il semplice motivo che i visti non vengono rilasciati. Quando la terra finisce, si sale su una barca. Parto quindi dalle origini, ché è una la fonte da cui sgorga l’acqua che ci abbevera. In fondo, è sempre la stessa storia che si ripete. Una ragazza fenicia scappa dalla città di Tiro, attraversando il deserto fino al suo termine, fino a quando i piedi non riescono più ad andare avanti perché di fronte c’è il mare. Allora incontra un toro bianco, che si piega e la accoglie sul dorso, facendosi barca e solcando il mare, fino a farla approdare a Creta. La ragazza si chiama Europa. Siamo i figli di una traversata in barca”.
Buio.
Note
* L’Abisso di e con Davide Enia, musiche composte ed eseguite da Giulio Barocchieri.
Produzione Teatro di Roma, Teatro Biondo di Palermo, Accademia Perduta Teatri, in collaborazione con Festival Internazionale di Narrazione di Arzo.
Spettacolo tratto da Appunti per un naufragio di Davide Enia, Sellerio editore.
Dalla programmazione invernale 2018/2019 – Auditorium Le Fornaci, Terranuova Bracciolini (AR).