Appuntamento numero cento
di Giovanni Chiarini
Illustrazione di Hopnn
Per novantanove volte le ho aperto la porta, le ho sorriso, lei ha ricambiato, le ho preso il cappottino giallo e le ho versato un bicchiere di vino biologico, che quello del supermercato non le piace. Per novantanove volte abbiamo parlato della mia passione per gli acquari, giusto per rompere il ghiaccio, e per altrettante novantanove volte si è messa a ridere quando, indicando il pesciolino solitario nascosto sotto un’alga, ho fatto quella battuta sui pesci pagliaccio che sono sempre tristi. Battuta forse un po’ sciocca ma che è sempre servita per sedersi a tavola con l’umore giusto, rilassato e un po’ complice, e godersi la cena che ho perfezionato nel corso dei nostri identici, ma meravigliosi, novantanove primi appuntamenti. Mentre la guardo buttare giù l’ultimo sorso di vino e singhiozzare per due volte di fila, mi chiedo come andrà a finire stasera. Sì, perché quando porterò il tiramisù in tavola non ci saranno più tentativi precedenti a cui fare riferimento, test statistici o studi pregressi; da quel momento me la dovrò cavare da solo. E, a dire la verità, per me che ho dedicato l’intera vita a inseguire la fredda certezza matematica delle cose non è facile buttarsi in quel mare oscuro che sono gli appuntamenti. Nessuno mi ha mai insegnato come ci si comporta, né i miei genitori, né i miei compagni di scuola, né tantomeno i miei amati professori all’università di genetica robotica: nessuno che mi abbia preparato ad affrontare quel sentimento ingombrante che è l’amore. Ma se stasera sono qui, a mettere in gioco tutto me stesso in questo novantanovesimo primo appuntamento, è perché ho incontrato Anita.
L’ho vista entrare in aula a metà lezione qualche mese fa, lunghi capelli rossi legati in una coda e occhi verdi sopra a una costellazione di piccole lentiggini. A testa alta e senza il minimo pudore mi è passata davanti alla cattedra, ha fatto alzare metà prima fila ed è andata a sedersi nell’unico posto libero al centro. Mi ricordo di aver dovuto ricominciare da capo la dimostrazione perché avevo perso il filo del discorso. Gli studenti mi hanno guardato come se avessi avuto un attacco cardiaco. Quel giorno, le cose sono cambiate per me, il mio mondo fatto di perfette equazioni si è completamente rovesciato per un sorriso. Non mi sono fatto avanti subito, ho sempre preferito galleggiare nella mia fantasia. Ci immaginavo fianco a fianco all’università mentre le spiegavo la complicata e affascinante arte degli algoritmi genetici. L’unico problema era che, nonostante in quelle fantasie avessi potuto fare di noi qualsiasi cosa e in qualsiasi circostanza, tutti i nostri appuntamenti immaginari finivano sempre allo stesso modo, interrotti. Rimanevamo immobili, senza poterci sfiorare, le nostre labbra ancora troppo distanti tra di loro. Eternamente stoppati dalla mia poca conoscenza in materia che mi suggeriva una cosa soltanto: prudenza. D’altronde, lo diceva sempre mio padre: “Mai lasciarsi andare all’istinto, Isaac, bisogna fare sempre e solamente quello che si ha la certezza di saper fare, solo così sono state raggiunte le più grandi vittorie dell’umanità”. E avendo io stesso contribuito ad alcune di quelle vittorie, ho iniziato la mia fase di studio, il mio progetto più impegnativo e ambizioso: novantanove primi appuntamenti che mi avrebbero dato l’assoluta sicurezza di eseguire tutte le mosse giuste al momento giusto, evitando silenzi imbarazzanti, battute fuori luogo e commenti troppo invasivi sulla reciproca vita privata. Insomma, eliminare ogni forma di variabile che mi avrebbe portato a sudorazione incontrollata delle mani e paralisi psicomotoria. Inutile dire che i test si sono rivelati una sorpresa per me. Ritrovarsi coinvolto in prima persona in questo esperimento è stata una vera e propria avventura che ha richiesto uno sforzo notevole. Ognuno degli appuntamenti mi ha fatto vivere emozioni talmente forti da togliermi il sonno, la fame e a volte pure la voglia di lavorare.
La pressione a cui sono sottoposto stasera è inimmaginabile, ma necessaria per poter raggiungere il bagaglio di esperienze sufficienti per affrontare, domani, il centesimo primo appuntamento, il più importante. Mi alzo da tavola con il magone, lo stomaco si fa pesante e non è per la lasagna comprata al supermercato, ma per la certezza che, a breve, farò una stupidaggine delle mie e rovinerò tutto. Raccolgo i piatti sporchi tentando di non sudare. Anita mi dà una mano e io nemmeno la guardo negli occhi mentre mi passa il suo piatto. Lo prendo di scatto, di rapina, e per poco non mi scivola via rischiando di finire in mille pezzi sul pavimento. Prima che possa dire qualsiasi cosa la anticipo, facendo uscire le prime parole che mi vengono in mente: «Devi sapere Anita che la sudorazione è un processo di controllo della temperatura corporea» le dico per sdrammatizzare. «È un meccanismo di equilibrio che l’uomo ha per equilibrare, per l’appunto, la temperatura che non era equilibrata». Con questa splendida battuta mi rendo conto di aver già messo a rischio l’esito dell’appuntamento. Anita, infatti, mi guarda stupita con tanto di sopracciglia alzata, ma per fortuna scoppia a ridere. Tra una risata e l’altra mi dice: «Sì ne ho sentito parlare, Isaac, l’ho provata su di me quando ho sostenuto il tuo esame di algoritmi genetici». Finisce di mettere le posate sopra il vassoio e aggiunge: «Mi ricordo che avevano tutti paura di te, mentre io non vedevo l’ora. Ti trovavo molto intelligente, e anche un po’ triste». Dentro di me squilla un campanello d’allarme. «Triste?!? No guarda, ti sbagli Anita, in realtà sono una di quelle persone piene di vita, non sto mai fermo un attimo, mi definirei senza dubbio un tipo esplosivo». L’ultima parola mi esce così, senza pensarci, e ha l’effetto di aumentare il livello di sudorazione portandolo oltre la soglia consentita dalle buone maniere. Soprattutto perché casa mia assomiglia al museo della scienza: ci sono articoli scientifici appesi ai muri, lauree conseguite nel tempo e poster di svariate menti illuminate. La cosa più esotica che mi possa avvicinare alla definizione di ‘tipo esplosivo’ sono i pesciolini nell’acquario. Anita finisce di legarsi i capelli con l’elastico rosa che teneva al polso, lo fa con calma, come se non avesse sentito. Poi, quando ogni capello è andato al suo posto, si alza in piedi e mi dice: «Ho come la sensazione che dopo il dolce scopriremo che uno di noi due ha torto». Prendo nota mentalmente di questo frangente, lo trascrivo nelle mie pagine di appunti invisibili, lo sottolineo più volte e ci allego pure una foto. Non sono sicuro di averlo ben interpretato, ma di sicuro è qualcosa su cui riflettere. Sparecchio la tavola e sparisco in cucina.
Di fronte al frigo ancora chiuso mi preparo per il finale di serata. Dal motore esce un ronzio monotono e soffuso che disturba la mia concentrazione. In questi casi le calamite a forma di elementi chimici disposte in perfetto ordine di tavola periodica mi aiutano a fare pace con i miei pensieri. Nella mia testa ci sono due Anita, quella seduta nel mio salotto che aspetta il dolce che ho fatto con le mie mani, e quella vera, la studentessa a cui ho spedito una lettera di invito a cena per domani sera e a cui ha inaspettatamente risposto di sì. Sono entrambe nel mio cervello, identiche nell’aspetto e nel carattere, una di fronte all’altra con me nel mezzo, omino piccolo piccolo rannicchiato su sé stesso. Solo che l’Anita nel mio salotto è una cavia, un manichino fatto di circuiti che segue le regole dell’intelligenza artificiale. Una bella bambola che non può stupirmi. So cosa dirà e quando lo dirà, i suoi limiti non sono altro che i miei limiti nella progettazione. Per quanto raffinata sia la sua psiche, questa Anita risponderà agli eventi conseguentemente alla gelida elaborazione di dati acquisiti. L’altra Anita, quella vera, quella che accoglierò a casa mia domani, invece, non potrò spegnerla nel caso in cui le cose cominciassero ad andare male. Ogni istante che spenderemo insieme sarà unico, irripetibile. Il tempo scorrerà come fa nella vita reale, sempre in avanti e sempre alla stessa velocità. Non ci saranno reti di salvataggio, si camminerà al buio, come avviene per tutte le persone che si innamorano a questo mondo. Alla vigilia del mio centesimo primo appuntamento, mi ritrovo dunque paralizzato in cucina a cercare il coraggio di mettere finalmente da parte i numeri per fare spazio all’ignoto. Apro il frigorifero e lo chiudo con la ferma convinzione di aver preso il vassoio del tiramisù e di averlo sostituito con tutte le mie argute riflessioni esistenziali. Quando mi giro e mi trovo il volto di Anita a pochi centimetri dalla faccia, capisco di non esserci riuscito affatto, anzi, le sento volare nella mia mente sbattendo da ogni parte fino a che non si bloccano di colpo. La osservo paralizzato fare un passo verso di me. Siamo così vicini che posso sentire il suo respiro caldo sulla mia bocca. Non sono in grado di muovermi, posso solo starla a guardare mentre infila l’indice nel tiramisù, lo tira fuori sporco di crema al mascarpone e se lo mette in bocca. Poi si alza leggermente sulle punte e mi bacia. Il sapore del caffè sulle sue labbra si mischia alla mia saliva. Chiudo gli occhi di scatto, il contorno splendido del suo viso scompare lasciandomi al buio. Mi ci immergo in cerca di un qualsiasi pensiero che possa aiutarmi a capire cosa mi stia succedendo. Quando penso di aver afferrato qualcosa di abbastanza solido le metto la mano sulla nuca, faccio scorrere le dita tra i capelli cercando il tasto di emergenza e, prima di premerlo, esclamo: «Termina appuntamento!»
Ventidue ore dopo arriva il mio centesimo primo appuntamento. Apro la porta di casa e accolgo la bellissima ragazza dai capelli rossi con un sorriso. Anita entra nell’ingresso e mi lascia il cappottino verde scuro, si sistema i capelli che le ricadono dolcemente sulle spalle e prende il bicchiere di vino biologico che avevo preparato per l’aperitivo. La sua attenzione viene subito richiamata dai pesciolini esotici che nuotano nell’acquario. Uno per uno le presento tutti gli abitanti della vasca, ovviamente mi soffermo su quello più timido che si nasconde sotto l’alga. La osservo cambiare espressione dopo la battuta sui pesci pagliaccio. La sua risata è sincera e spontanea, nonostante la pessima qualità della freddura. Ci sediamo a tavola in salotto e durante la cena continuiamo a parlare del più e del meno, fino a raggiungere quel livello di intimità che avevo previsto di stabilire. Dopo la lasagna, Anita mi fa i complimenti e mi aiuta a sparecchiare. Inizio prendendo il mio piatto, poi il suo, li impilo uno sopra l’altro e li appoggio da una parte. Anita finisce il suo bicchiere, e dopo i due singhiozzi di fila mi si fa più vicina: «Sai, Isaac, sono contenta di essere qui, hai una bella casa, sei una persona davvero affascinante» dice passandomi le posate che metto sopra alla pila di piatti. «All’università mi ero fatta tutt’altra idea su di te, pensavo fossi una persona impacciata, e anche un po’ triste a dire la verità». «Triste, dici? Non saprei, Anita, a volte ci facciamo delle idee sulle persone» le dico con lo sguardo basso, rivolto verso una macchia di sugo. «Pensiamo di capirle semplicemente guardandole. Poi, quando le conosciamo, scopriamo di avere davanti tutta un’altra persona». Appena alzo gli occhi la vedo indaffarata con i capelli, l’elastico blu che esegue una serie di giri perfetti in aria e che riesce in qualche modo a racchiuderli in una lunga coda. «Stasera magari scopriremo che sei meno triste di quanto pensassi». Sollevo piatti e posate con entrambe le mani e le dico: «Sei pronta per il dolce? È un buonissimo tiramisù, fatto con le mie mani». Dopodiché sparisco in cucina.
Dentro al frigorifero c’è il vassoio avvolto nella carta stagnola. Lo guardo con sospetto, i fogli argentati non sono disposti a coprirne l’intero volume. Sono scombinati, asimmetrici e leggermente rovinati. Mi scervello per capire cosa sia successo e alla fine ho un’illuminazione: con tutto il trambusto di ieri sera e i preparativi di oggi mi sono completamente dimenticato di prepararne un altro. Evidentemente devo averlo visto lì nel suo ripiano dentro al frigo e non ho pensato che andasse rifatto. Adesso non c’è tempo per rimediare, speriamo sia abbastanza buono da garantirmi il successo dell’esperimento. Esco dalla cucina con in mano il vassoio cercando di ostentare quanta più sicurezza possibile. Lascio lo spazio ad Anita che si offre di fare le parti, e mi accomodo sulla sedia. La vedo scoperchiare il dolce, osservarlo minuziosamente e lanciarmi uno sguardo perplesso. «Sarai un genio della genetica robotica, ma sui dolci hai ancora tanto da imparare». Mi sporgo per capire a cosa si riferisca, il tiramisù ormai lo so fare alla perfezione. Lei non può saperlo, ma ho trascorso nottate intere a cercare la perfetta combinazione di tutti gli ingredienti. Prima che possa chiederle spiegazioni, Anita affonda il coltello nel soffice strato di caffè e mascarpone e mi mette davanti al naso il piattino di ceramica rosa con sopra il dolce. Non appena abbasso lo sguardo e vedo il piccolo foro nel quadratino di tiramisù, il respiro si interrompe e la sudorazione mi inzuppa da capo a piedi. Sono a sedere, ma ho la stessa sensazione di vuoto al petto di quando ti senti cadere nei sogni. Il mio corpo va all’indietro e non posso farci niente. Provo a reggermi a qualsiasi cosa possa vagamente assomigliare a un appiglio sicuro: gli occhi verdi di Anita fissi su di me, il centesimo primo appuntamento portato orgogliosamente a buon fine, addirittura i pesci nell’acquario che nuotano indifferenti, ma niente di tutto questo è abbastanza solido da permettermi di fermare la caduta. Sprofondo con tutto me stesso in quel forellino largo quanto un dito indice e lo percorro tutto, fino all’uscita rosa dall’altra parte. Precipito, senza schiantarmi, perché non mi sono mai mosso dalla sedia. Quando riapro gli occhi, infatti, è tutto uguale a prima, tutto tranne me. Sì, perché ora so cosa manca finalmente a questo centesimo primo appuntamento.
Mi alzo di scatto da tavola con un gran mal di pancia, vado in cucina e inserisco il codice numerico di inizio nuovo esperimento. Ritorno da Anita chiedendole scusa per l’improvviso malore e la accompagno all’ingresso. Ci salutiamo con la promessa di rivederci al più presto, ma dall’espressione infuriata sul suo viso capisco che non ci è cascata. La porta si chiude con un tonfo che fa tremare i vetri dell’acquario. Torno alla tavola quando dal piano superiore sento il rumore di passi. Per la precisione, il rumore di un paio di scarpe da donna tacco dodici ben cadenzati, equilibrati e ritmati. Dalle scale, vedo scendere l’unica persona di cui mi sia innamorato veramente. Anita mette piede in salotto, è raggiante e mi sorride, avvolta nel suo cappottino giallo. Guarda sorpresa la tavola già apparecchiata. Fa per andare all’ingresso, uscire, suonare il campanello e dare inizio al nostro solito primo appuntamento. Mi dispiace ma questa volta non succederà. Stavolta non ci saranno bicchieri di vino, chiacchiere inutili o stratagemmi. Stavolta le porgo direttamente il vassoio di tiramisù, ci infilo il dito e le dico: «Dove eravamo rimasti?»