QuaranThreevial N°6: Antropocene
di Rossella Cipro

Non è vecchia l’ipotesi dell’Antropocene, l’epoca umana, e non è tardi per riportarla all’attenzione, soprattutto in un momento come quello che stiamo vivendo. Oggi non abbiamo scuse. Dobbiamo guardarci allo specchio. Siamo costretti a restare a casa, notte e giorno, a fare i conti con noi stessi. Ci avevamo perso l’abitudine, diciamoci la verità. Eravamo così occupati a vivere negli occhi degli altri che abbiamo scordato per molto tempo di vivere guardandoci con attenzione, per davvero, senza il filtro dell’aspettativa.
È normale concretarsi così tanto nel guardarsi per farsi guardare, in un sistema in cui ciò che appare è ciò che importa, mentre facciamo finta che ciò che non vediamo non esista. Ci hanno insegnato a essere superficiali, a non andare a fondo, a lasciarci andar bene qualsiasi cosa. Ci hanno insegnato che le masse seguono il flusso delle tendenze. Se questo è vero, allora ci hanno trainato a forza verso la nostra distruzione.
L’Antropocene potrebbe essere la dimostrazione del fatto che abbiamo spinto l’uomo oltre la propria ragione, in funzione di scopi che non hanno niente a che fare con il benessere individuale, e con il benessere in generale. Parlo dell’interesse personale di persone troppo abituate a fare soldi per rischiare di perdere anche solo un centesimo cambiando le loro abitudini. E intanto continuiamo a produrre e produrre e ancora produrre. Per questo l’epoca umana denomina quel periodo in cui la nostra specie e le attività che svolgiamo hanno apportato al nostro pianeta modifiche territoriali, strutturali e climatiche, causando un diverso assetto negli ecosistemi. Oggi il termine si usa per indicare una nuova era geologica vera e propria, diversa dal contemporaneo Olocene.
Questo fatto mi pare assurdo e straordinario insieme. In oltre quattro miliardi di anni, mai gli abitanti della Terra avevano agito a tal punto da modificare così radicalmente l’ambiente circostante, come noi stiamo facendo da qualche centinaio di migliaia d’anni. Prosciughiamo fiumi, costruiamo dighe, inondiamo terre, facciamo esplodere montagne e le trapassiamo da parte a parte, bruciamo foreste, tagliamo più alberi di quelli che piantiamo, cacciamo alcuni animali per sport trattandoli da trofei, ne alleviamo altri in condizioni pietose, smaltiamo rifiuti pericolosi in terreni coltivabili, costruiamo discariche per poi incendiarle.
Straziamo la nostra Terra in ogni modo, come sanguisughe succhiamo ogni suo bene, ogni risorsa deve essere la nostra, ogni terra deve avere un nome, ogni punto sulla mappa deve essere esplorato. Ogni nuova e vecchia specie va catalogata, ogni rettile, ogni uccello, genere, ordine, classe, phylum, regno, dominio, vita. I miracoli della nuova genetica, la scoperta di DNA, RNA, di proteine. Gli elementi chimici che vanno messi in ordine. Tutto al suo posto, niente scappa all’occhio dell’essere umano che tutto controlla e che tutto trasforma a propria immagine e somiglianza.
Tutto tranne un piccolo imprevisto. Un invisibile esserino che ha invaso le nostre vite. Nella maggioranza dei casi l’ha anche cambiata, peggiorata o migliorata, l’ha resa diversa. È arrivato all’improvviso e ci ha sconvolto, trascinandosi dietro notizie di migliaia di morti. Nessuna nazione è stata risparmiata, nessun continente: una pandemia globale. Siamo stati costretti ad affacciarci ai balcone e alle finestre, e a guardare il mondo fuori con tutti i suoi colori, e a renderci conto che questo va avanti anche senza di noi. E non sto ovviamente parlando delle nostre fabbriche, e di tutte le altre attività che ancora si affannano a produrre, ma parlo del silenzio riempito solo da cinguettii, dal rumore del vento tra le foglie degli alberi. Faccio caso che oltre le case si vedono le montagne, il cielo è azzurro e l’aria profuma di primavera.
Dai balconi abbiamo costruito ponti con i nostri vicini, c’è chi ha ritrovato la comunità e chi ha iniziato a scoprirla, è tornata la voglia di vivere gli spazi pubblici che ci appartengono, di riportare la gente per le strade, di allacciare mani e cuori e creare reti e collaborazioni, unire tutte le persone nella voglia di ricominciare. Il problema è uno solo. Che nel voler ricominciare dimentichiamo che è necessario cambiare le nostre abitudini, e gli esseri umani sono molto restii in questo. Se c’è una cosa che abbiamo imparato a fare bene è adagiarci sulle comodità, inseguire il piacere oltre ogni morale, dare più conto ai nostri capricci che ai nostri ideali. Siamo abituati a trasformare la realtà così come ci torna utile e, dagli animali alle piante, dai campi alle montagne, dai laghi ai fiumi e fino al mare, abbiamo reso tutti schiavi dei nostri piaceri.
E non a caso tutto sta lentamente tornando come prima. Niente sembra essere cambiato e forse abbiamo anche sbagliato a illuderci. Abbiamo visto tutti la foto del fiume Sarno dopo solo un giorno dall’inizio della Fase 2. Quel fiume è conosciuto come il corso d’acqua perenne più inquinato, non d’Italia, ma d’Europa. Durante i mesi del lockdown era tornato limpido e pieno di pesci, a dimostrazione che siamo noi il nostro più grande problema.
Non sto dicendo che ognuno di noi è un tiranno verso la natura, anche perché la deforestazione, l’aumento dell’inquinamento, la perdita di biodiversità, il sovrasfruttamento delle risorse minerarie, la distruzione degli ecosistemi, non li abbiamo causati direttamente noi, ignari individui. Insomma, mica tanto ignari. Semmai veniamo trattati come burattini di quella enorme farsa che è il capitalismo.
Sì, siamo burattini nella mani di chi decide in direzione deve andare l’economia, quanti ettari di foresta debbano essere abbattuti per far spazio a un enorme allevamento di suini, o quanti per far spazio alla soia, o alle vacche. Quanto spazio va strappato alla natura per far posto a ciò che a noi, e solo a noi serve – e non ci serve neanche tanto. Esistono persone che non vogliono tener conto che siano possibili alternative ai moderni modi di comportamento e produzione, di qualsiasi genere questa sia. Così, assecondando i nostri vizi e le nostre ragioni, siamo entrati nell’epoca a cui abbiamo il disonore di aver suggerito il nome:
Sì, perché tra migliaia di anni, nelle conformazioni rocciose, nella sabbia, nelle acque, nell’aria, i nostri residui saranno ancora presenti a testimoniare l’evento più catastrofico avvenuto sulla Terra dopo la scomparsa dei dinosauri: la presenza del genere umano. E non lasciamo niente di buono, sia chiaro. Anche se dovessimo tutti rinsavire e cominciare a porre un freno a questa folle sovrapproduzione, le nostre intenzioni, le nostre buone azioni non saranno bastate a fermare ciò che è irreversibile. Siamo già stampati nella memoria del nostro pianeta, per il quale il sole non cala mai, e che deve sopportare il nostro peso costantemente, mentre continua senza tregua il suo moto perpetuo di rotazione e rivoluzione.
Rivoluzione, insieme a “emergenza climatica”, è un alto termine che riecheggia nel silenzio delle strade. Ma nessuna rivoluzione può funzionare se non ci rendiamo conto che siamo nell’epoca in cui tutto, ogni minimo particolare, dipende da noi e da nessun altro. Se proprio deve restare qualcosa del nostro passaggio, allora che non sia una landa desolata e senza piogge ciò che ci lasciamo dietro. Nessun essere vivente nasce per restare e, se resta, non è mai sempre uguale, anche se non si riesce a vedere il cambiamento.
L’unica cosa che non cambia però sembra essere il nostro comportamento, il quale a lungo andare porterà questa zattera alla deriva, fin dove nessuna nave potrà raggiungerla per salvarci.