
Analogia bucolica
di Gianluca Bindi
Illustrazione di Bladi
Un giorno tre facce di cazzo si decisero finalmente a entrare nella grotta oscura. Ci erano passate davanti innumerevoli volte, ma la loro curiosità era sempre stata bloccata all’entrata. Non perché quel buco incutesse loro timore; ma perché tutte le altre facce di cazzo del villaggio dicevano che la grotta era pericolosa. Leggende popolari narravano di un cunicolo stretto, buio, maleodorante; alcuni erano addirittura sicuri della presenza di veri e propri spiriti maligni là dentro. Ma le leggende, secondo loro, non erano altro che falsi miti per esorcizzare la paura delle cose ignote. Che poi era un po’ il solito discorso per cui non andavano più a messa da qualche tempo: solo perché non si aveva idea di come fronteggiare la paura di morire, non per forza significava che esistesse un dio misericordioso che le aspettava nell’aldilà.
Andarono al laghetto, come spesso accadeva la domenica. Si divertirono un mondo, come sempre. Lo specchio d’acqua giaceva in mezzo alla foresta meridionale, appena sotto un rilievo erboso alto qualche metro. Da quel pendio, in corrispondenza di una sporgenza rocciosa, filtrava un ruscelletto, nascosto dai fitti alberi tipici della regione. E proprio dall’accumulo di questa parete gocciolante, a valle, si era formata, in ere ancestrali, una piccola pozza d’acqua. Tutti gli abitanti del villaggio adoravano passare i pomeriggi nella pozza e, tra di essi, non mancavano certo le nostre tre facce. Quella domenica era un bellissimo ed eccitante pomeriggio estivo. Avevano passato ore e ore a fare una miriade di tuffi, avanti e indietro come degli ossessi, a bagnarsi il viso e assaggiando l’acqua stillatasi di dosso a ogni emersione. Poi le tinte rosse della sera cominciarono a incremare il cielo. Si sdraiarono a riva per asciugarsi. Erano rimaste sole. Avrebbero dovuto essere spossate dopo una giornata passata a sfogare la loro gioia infantile. Ma c’era una cosa che, in alcuni e peculiari individui, non poteva mai essere sopita o vessata: la curiosità, la fame di cose nuove, di ricerca e conquista di mondi sconosciuti. Il bisogno di essere pionieri in qualcosa. A quel punto, poco lontana, intravidero la grotta oscura e d’un tratto la stanchezza si tramutò in eccitazione per l’ignoto. Decisero di non tornare subito indietro verso le grandi pianure, ma andarono dalla parte opposta, proseguendo per un brevissimo tratto nella foresta. Erano elettrizzate, avvolte da un sostrato d’ansia crescente: mai come in quel momento avevano avuto la reale intenzione di entrarci. Quando vi furono di fronte, le palpitazioni si fecero più forti e martellanti. Si allungarono verso di essa, tutte e tre insieme all’unisono. Ma attorno al buco oscuro era come se si fosse creata una patina rugosa e calcificata, una concrezione di fango indurita. Spinsero, spinsero ancora ma non riuscirono a far breccia. Il buio ormai stava scendendo e, sentendosi afflitte dal fallimento della spedizione, si avviarono a riattraversare la foresta prima che l’oscurità impedisse loro di trovare la strada di casa.
Il giorno dopo ne parlarono con i loro amici, pensando di essere consolate. Ma dalle loro reazioni schifate si accorsero di non essere dalla parte che comunemente il villaggio definiva ‘giusta’. Si sentirono giudicate, si sentirono dare delle invertite.
«Perché entrare nella grotta oscura quando abbiamo tutto il divertimento necessario al laghetto? Cosa c’è di meglio nel tuffarsi in quello specchio d’acqua così puro? Voi state male, fatevi curare…»
Il villaggio non era grande e le voci circolavano velocemente, specie quelle di pubblico scandalo. Le avventuriere furono isolate dagli altri abitanti, persino dalla loro famiglia. L’ignoto, l’esotico, l’inconcepibile avevano fatto terra bruciata, esiliandole nel loro stesso punto di origine che, comunque sia, mai e poi mai si erano sognate di rinnegare.
Seguirono giorni bui. Nessuno più rivolgeva la parola a quelle pervertite. Presto furono costrette a lasciare la casa dove amorevolmente erano cresciute: la loro famiglia non poteva sostenere uno squarcio del genere nel proprio tessuto genealogico. Mendicarono. Diventarono sporche, emanarono odori sgradevoli da ogni poro del corpo. Furono coperte da un’irrimediabile melma di disprezzo, che giornalmente la gente gli riversava addosso. Spezzate furono le catene di affetti di una vita, che con dedizione avevano creato e solidificato. Si adagiarono nello schifo, nel lutto e nel rimorso, razzolando nell’aia dei sensi colpa ora che, diventate di pubblico bersaglio, non potevano fare altro che convincersi dei propri peccati. Nonostante fossero passate poche settimane dal misfatto della caverna, non ricordavano più nemmeno quale fosse stato il loro ultimo momento felice. Ma appena formularono tale pensiero, si drizzarono. Improvvisamente si resero conto di sapere la risposta. Lasciarono il villaggio, incamminandosi verso sud. Attraversarono le grandi pianure e poi aggirarono la collinetta da ovest, entrando nella foresta. Quando raggiunsero lo specchio d’acqua, si misero a fissare, riflesse, le loro strane fattezze. Poi si abbandonarono come non mai alla pozza. Ritrovarono l’eccitazione primordiale, le capriole e gli spruzzi. Si rigenerarono l’anima e rinvigorirono l’autostima portata via ingiustamente da una morale granitica e conservatrice. Si liberarono del disprezzo, fecero a pezzi i condizionamenti imposti e conobbero il loro nucleo autentico e ingenuo: loro erano facce di cazzo esploratrici. E come tali si trovarono di fronte a un bivio, uno di quelli che la vita mette davanti per testare la personalità di un individuo e fargli percepire l’orizzonte attraverso cui dare un senso alla propria esistenza. Adesso erano chiamate a scegliere nel senso più genuino: tornare al villaggio e continuare a elemosinare il perdono di una comunità in cui ormai non si riconoscevano più, oppure…
Stavano galleggiando sul pelo dell’acqua, col sole filtrato dagli alberi a balenare a intermittenza nei loro occhi. Scivolando su quella superficie viscosa ebbero l’intuizione di cui avevano bisogno. Non ci fu più nient’altro da dire, finalmente.
Si ripresentarono davanti all’entrata della caverna. Ora che quel buco rappresentava il loro destino non ne erano più spaventate. Mentre si riallungarono verso l’oscurità dell’ignoto, sentirono le gocce d’acqua scorrere sulle loro facce, quasi a simboleggiare ogni ricordo felice collegato alla pozza. Sentirono di nuovo l’attrito, ma non forte e abrasivo come la volta precedente, quando erano asciutte. Spinsero di nuovo e quei ricordi sotto forma di liquido le aiutarono ad entrare. Piano piano, dolcemente, senza fretta, una dopo l’altra. I loro visi si coronarono di un’espressione di godimento e beatitudine: ce l’avevano fatta. E per la prima volta si sentirono un tutt’uno con sé stesse, non più tre facce di cazzo qualunque, ma tre facce dello stesso cazzo che andavano nella stessa direzione, in quell’antro oscuro, stretto, dove nessuno era mai stato solo perché una stupida leggenda bloccava tutti all’entrata, ognuno con la propria paura in mano.