Three Faces

La terza faccia della medaglia

Amore+Desiderio=Inevitabile Disgrazia di C. Francioni || Varie ed eventuali || THREEvial Pursuit


 

Amore+Desiderio=Inevitabile Disgrazia

Ovvero lezioni musicali su quella roba lì

di Chiara Francioni

amore testa cassetta

Lo sapevo che sarebbe giunto questo giorno ma ciò non significa che sia preparata ad affrontarlo. Voglio dire, anche Neil Armstrong era preparato a salpare con l’Apollo 11, ma sono certa che quando il countdown è terminato, lì sul momento, si sia cagato sotto lo stesso. Quindi che male c’è se non riesco a trovare le parole per raccontare qualcosa, che non sia né banale né scontato, su quella roba lì!

Del resto, innumerevoli vite si sono spente in nome di quella roba lì, sono state combattute delle guerre in nome di quella roba lì, per non parlare delle notti passate insonni e delle sbronze prese per dimenticare quella roba lì.

Capirete che non è certo per pigrizia o scarsità di ispirazione, se adesso sono qui a scrivere di come non riesca a scrivere qualcosa di interessante sull’amore. Il fatto è che potrei assumere i più svariati punti di vista e comporre il più melenso dei poemi, così come sciorinare la più spietata delle invettive. E quando le possibilità sono infinite, si sa, l’intelletto indugia. Poi, in fondo, che ne so io dell’amore? Forse nulla. E siccome mi sta parecchio sul cazzo chi si atteggia come se avesse la verità in tasca (quando in realtà c’ha solo due spicci), se parlassi con pretesa di competenza finirei per restarmi sulle palle da sola.
Dunque da dove posso cominciare per restare fedele alle premesse? Tenterò la via più facile: l’etimologia.

La parola “amore” deriva dal sanscrito kama, termine usato per esprimere il concetto di desiderio (se state pensando al Kamasutra, avete indovinato). E qui casca l’asino, perché sono convinta che anche nelle vostre menti si sia già illuminata una sinapsi. Amore più desiderio uguale inevitabile disgrazia. Non a caso già Aristotele scriveva ne La Politica, e quindi facendo finta di parlare d’altro, che “è nella natura del desiderio di non poter essere soddisfatto, e la maggior parte degli uomini vive solo per soddisfarlo”.
Sapete chi mi viene in mente? Nada, mentre canta la famosa strofa:

E scoprirà, scoprirà l’amore
l’amore disperato.

amore ridotta 2Lo so che l’avete letta intonandola, pensate che io l’ho scritta facendolo e sfrutto l’assist del mio cervello per svelarvi la mia strategia: parlare dell’amore, barando. E cioè non parlando dell’amore in sé, ma raccontandovi fatti più o meno tragicomici legati alle canzoni che, nel corso degli anni, mi hanno insegnato a comprendere a pieno il significato della massima di cui sopra: amore più desiderio uguale inevitabile disgrazia.

Dovete sapere che sono nata a cavallo degli anni ’80 e nel mitico decennio dei pantaloni a vita alta, capelli cotonati e spallini imponenti ero poco più che una poppante, pertanto le uniche canzoni che ricordo sono quelle di Cristina D’Avena. Motivo per cui devo per forza saltare agli anni ‘90, fetta temporale alla quale appartiene il primo testo d’amore che abbia mai davvero compreso, grazie a un giovane e ancora inesperto spirito critico. Ci fu un periodo, presumibilmente il 1993 (anno di uscita del brano di cui sto per parlarvi), in cui mia mamma, che all’epoca non aveva manco trent’anni, entrò in fissa con una canzone e passava in continuazione da una stazione radio all’altra cercandola tra le frequenze. Si trattava niente po’ po’ di meno che di Ti Innamorerai di Marco Masini e vi giuro che più l’ascoltavo, più un nugolo di terrore mi cresceva dentro al petto: il buon Marco ammoniva una fanciulla, con la quale io – bimba in crescita e proiettata sul futuro – finivo irrimediabilmente per identificarmi, e le diceva cose carine del tipo:

Ti innamorerai
di un bastardo che
ti dirà bugie
per portarti via da me

e poi ci andava giù di tatto con

Sarai sola contro tutti
perché io non ci sarò,
quando piangi e lavi i piatti
e la vita dice no.

Immaginatevi la scena: io che rientro in casa, dopo aver giocato, e trovo mia mamma che prepara la cena mentre canta a squarciagola, esprimendo una vena di dolore nella voce per immedesimarsi al meglio. Una ferma convinzione cominciò a prendere campo dentro di me: questa faccenda dell’innamorarsi è una cagata pazzesca.

Un sentire che, in qualche modo, sarebbe sopravvissuto anche negli anni venire, quelli in cui cominciai a guardare i video musicali in tv. Tra questi c’era quello di una delle hit dell’ultimo decennio del XX secolo: November Rain dei Guns ‘n’ Roses. Il brano è del ’91, ma l’episodio che vi narro lo collocherei da qualche parte nello spazio-tempo antecedente al 1995. Come certamente saprete, altrimenti ve lo dico io, nel video Axel si sposa con la donna che ama: lui, fulgida chioma con taglio alla Heather Parisi, e lei, bonazza-da-paura-in-minigonna, convolano a nozze in una chiesa mastodontica. Ci sono proprio tutti, anche Slash con la sua tuba da Gary Oldman in Dracula di Bram Stoker, il quale si esalta talmente tanto per il lieto evento che non ce la fa a restare in chiesa e, a un certo punto, decide di compiere un viaggio interdimensionale per raggiungere un arido deserto, lanciandosi quindi in un assolo di chitarra davanti a una chiesetta di sei centimetri quadrati. I festeggiamenti proseguono poi con uno sfarzoso rinfresco che viene però interrotto da un evento sconcertane: un temporale. Tutti fuggono in preda al panico nemmeno fossero la strega dell’est e niente, la novella sposa (la bonazza) improvvisamente muore. Ah, le fanno subito il funerale, così i presenti manco si devono cambiare d’abito. Quando finì il video, la cui visione per me fu traumatizzante, rimasi in compagnia di domande esistenziali alle quali non seppi trovare risposta. Sono quasi sicura di poter affermare che sia stato in quel preciso momento che ho realizzato: “No, il matrimonio non fa per me” (non si sa mai che si metta a piovere durante il ricevimento).

Ma gli anni ’90 sono stati un periodo ricchi di input. Ad esempio, era il 1997 quando Celine Dion divenne una delle donne più famose del mondo, per aver cantato il brano centrale della colonna sonora del film-fenomeno Titanic. Il brano in questione era My Hart Will Go On. Attenzione eh, perché qui c’è una combo sia di format che di dure lezioni da digerire: a) il film ti insegna che quando finalmente trovi l’amore della tua vita su una nave da crociera (no, non è Love Boat), un coglione che di lavoro fa quello che dovrebbe avvistare gli iceberg, non vede l’iceberg più grande della storia di tutti gli iceberg, così la nave affonda e il tuo amato muore in alto mare, solo perché non siete bravi in geometria e non sapete ben calcolare la superficie quadrata della tavola di compensato su cui ti sei avviluppata; b) il testo della canzone, invece, ti spiega senza mezzi termini che l’amore bello, vero e potente è solo quello che a un certo punto finisce, lasciandoti ricordi dolorosi e piacevoli allo stesso tempo con cui dover convivere. La via d’uscita non può che essere quella di abbracciare con convinzione il motto

I believe that the heart does go on

Sono quindi giunta alla soglia dell’adolescenza con una certa cinica saggezza.

Ma forse non ero comunque pronta agli anni 2000. C’è da dire che già l’essere sopravvissuta a ben due mancate catastrofi (Apocalisse e Millenniun Bag) mi aveva regalato una certa ventata d’ottimismo, ma non vi preoccupate, sul piano delle lezioni musicali in tema d’amore non c’erano buone nuove ad attendermi.
Com’è che faceva quella canzone?

Puoi rimanere?
Perché fa male, male
male da morire senza te.
Ma vuoi dirmi come questo può finire?
Non me lo so spiegare.
E nell’ansia che ti perdo,
ti scatterò una foto.

amore ridottaVa bene, probabilmente alcuni di voi lo avranno già capito. In realtà non è un’unica canzone, bensì un mix di tre versi presi da altrettanti brani di Tiziano Ferro usciti nel corso del primo decennio del XXI secolo: Non me lo so spiegare, Sere Nere e Ti scatterò una foto. Stanno bene insieme, formando quasi un periodo di senso compiuto, perché sono accomunati da un impeto di sprizzante entusiasmo (il sarcasmo è a livelli storici). Tutto l’entusiasmo che l’ingresso nel futuro poteva avermi regalato, viene quindi irrimediabilmente sopraffatto dalle pene d’amore gridate a gran voce su tutte le frequenze radio. Vero è che, al tempo, io ero devota al punk, al rock, al grunge, al noise e giù di lì e non mi lasciavo molto catturare dalle tristi ballate da hit, ma ce ne fu una che, negli anni a seguire, mi sarebbe tornata in mente più e più volte per la peculiarità del messaggio che ne ho voluto trarre. Ma datemi il tempo di spiegarmi meglio. Non so se ricordate la band inglese nota al secolo come i Blue (nel caso di risposta negativa, a breve probabilmente li rammenterete). Nel 2003, al culmine della loro breve carriera musicale, uscì un brano intitolato Breathe Easy che parlava di un tipo ormai divenuto incapace di respirare, dormire e sognare a causa delle pene d’amore. Nel 2004 la band fece un regalo ai fan italiani pubblicando A Chi Mi Dice, versione in lingua nostrana del successo dell’anno precedente, sulle note del quale venne cantata la nuova storia di un tipo, forse sempre lo stesso, che sta di merda dopo aver perso la sua amata e non crede più a chi gli dice che lei tornerà (anche perché lei, nel frattempo, mentre le dicono che lui soffre, se la ride insieme al suo nuovo ganzo). Vi ho anticipato che ho spesso ripensato a questo brano, in particolare nella sua versione italiana, e il motivo non è solo il fatto che il ritornello mi si è appiccato al lobo temporale in modo indelebile e spunta fuori in momenti insospettabili. Il punto è che secondo me quella che al tempo poteva sembrare una semplice operazione commerciale diretta ai giovani fan del gruppo (dei cui componenti non ricordo assolutamente le fattezze), fu in realtà un’impresa volta a dimostrare come sia possibile veicolare in qualsiasi lingua e con la medesima forza il messaggio: amore-più-desiderio-uguale-inevitabile-disgrazia.

Fin qui non sembrano esserci vie d’uscita. Forse il nuovo che avanza avrebbe potuto addolcire il mio animo ormai inaridito. Magari gli anni ’10 in salsa futuristica sarebbero stati forieri di grandi lezioni in tema di sentimenti. Il mondo, dopotutto, era ed è scosso da avvenimenti assai tristi: la crisi dell’euro, la primavera Araba, il crescente numero di attentati, l’elezione di Donald Trump, l’inasprimento delle correnti razziste e … qui mi fermo per evitare di scivolare in polemiche di stampo politico.
Insomma, una certa voglia di riscatto, almeno sul piano sentimentale, mi ha spinta a riporre nel nuovo decennio le più sentite speranze.

Aspettate, ma questo è il decennio di Vorrei ma non Posto e Despacito!?.
Allora no, scusate. L’abbozzo qui.
Mi tengo il mio mantra, ormai assodato e interiorizzato, amore-più-desiderio-uguale-inevitabile-disgrazia e continuo a sperare che, un giorno, tutto questo dolore mi sarà utile.
E intanto, in sottofondo, la playlist dei Radiohead riempie già il silenzio.

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