
Alla scoperta del blues
di Mattia Mei
Illustrazione di Vito Giannandrea
Scrivo sulla strada, sul bordo della strada. E fumo.
Amo questi inizi d’impatto: non d’impatto nella storia, intendo del mio impatto con la scrittura. Un patto d’impatto. Non mi servono Muse per ora, non attingo nella loro memoria depositata nei millenni, piuttosto mentre faccio qualcosa o sono seduto, prendo un quaderno e cerco una penna. Così mi impatto nel foglio, lo apro e scrivo, come adesso che sono seduto sul ciglio di una strada del Sud e le macchine mi sfrecciano a un metro dalle ginocchia.
Dice che questa scrittura sia un po’ schiava dell’ispirazione. Ci sta. Preferisco essere schiavo della scrittura che essere schiavo di altre cose. Sputo.
Ho conosciuto il blues l’altra notte, sopra un treno regionale notturno. Sei lunghe ore di viaggio passate in piedi accanto a un cesso nell’inframezzo tra due vagoni scompartimenti sovraffollati. Me l’ha fatto conoscere un siciliano di 53 anni, Turi, sulle note di Je so’ pazz e nun me scassat u cazz, con una bottiglia di rosso veneto da due euro e venti e dieci secondi di fisarmonica.
«Vedi Napoli e poi muori» mi diceva ogni tanto. Non capivo.
«Non si può morire prima di aver visto Napoli» mi urlava. Filosofia ferroviaria notturna. Sei ore di lezione.
Turi era un tipo tosto, borderline, cazzuto, aveva una scritta a penna sul palmo della mano: AK-47. In tasca un grosso coltello svizzero. Veniva da Ginevra, direzione Sicilia.
«Cosa ti dice Napoli Centrale?»
«Non so, la stazione dove scendo».
«Ricorda queste parole. Napoli Centrale: James Senese Saxophone, Tullio de Piscopo, Tony Esposito e un certo Daniele Pino, ricorda».
«Certo che lo ricordo».
Poi mi ha offerto un caffè da uno di quei bagarini del caffè e panini che arrotondano facendo su e giù per i vagoni affollati. Un bicchierino di plastica con un dito di caffè un euro e cinquanta. Ho accennato una critica al rapporto quantità-prezzo una volta che il bagarino si era allontanato e Turi si è messo all’erta e con uno sguardo indemoniato mi ha urlato: «Signore, guarda se non ti conoscessi già da un po’ prenderei la lama che ho nello zaino e ti farei una croce sulla fronte. Tu sei uno di quelli che non ha le palle di dire le cose in faccia, sei un fantasma, dovevi dirglielo prima all’altro signore. Come cazzo ti sei permesso di criticare un caffè che io ti offerto. Non hai capito bello mio, yah man».
Sono rimasto di pietra ma poi abbiamo continuato a fare della filosofia ferroviaria notturna e ogni tanto mi chiedeva due euro per il servizio. Non sto a dilungarmi sui discorsi per cui ho conosciuto il blues, lui era il capitano della nave e io il suo ammiraglio. Ha iniziato ad articolarne uno abbastanza criptico riguardo a una tangente e poi, mentre io pensavo a una mazzetta, mi ha detto: «Ma bello mio ma che lingua stai parlando? Una tangente è questa» e ha disegnato un cerchio sul vetro appannato tirando quattro linee nella parte superiore, «questa è una tangente, e questa e questa e questa».
Io gli ho disegnato col dito degli occhi e una bocca e gli ho detto: «No, questo è Elvis».
In segno di profondo rispetto mi ha passato il vino allungando le braccia e porgendomelo come fosse il Santo Graal: ogni sorso di quella bottiglia me lo sono guadagnato così a colpi di blues. Alla fine Elvis è rimasto tutta la notte a farci compagnia su quel treno fantasma di cui io ero l’ammiraglio e Turi il capitano.
La sua potenza e la mia incredulità hanno raggiunto il culmine quando ho visto il confronto tra lui, che era sprovvisto di biglietto, e il controllore. Prima volta in vita mia che assistevo a un confronto del genere. Lì, è avvenuto il miracolo. “L’impiegato delle ferrovie”, come lo chiamava lui, gli ha chiesto il biglietto. Turi ha iniziato a lamentarsi e a rivendicare il suo diritto di essere libero di viaggiare e il destino ha voluto che alla fermata dopo il controllore dovesse abbandonare per sempre quel treno. Primera vez che accade ai miei occhi di osservare un numero così potente. Non avevo mai visto scendere dal treno il controllore dopo che ha chiesto il biglietto a un qualcuno che non lo ha.
Durante tutto il siparietto io canticchiavo questa canzone in loop:
Libre como l’aire,
Libre como el viento,
Como las estrellas,
En el fimamento.
E sempre canticchiando questa canzone l’avevo conosciuto salendo sul treno. Mi aveva fermato e mi aveva chiesto se l’aire non era uguale a el viento. In quei giorni stavo leggendo dei kōan quindi le mie risposte cercavo di darle senza usare l’intelletto, ma solamente con il cuore o d’istinto.
Sei ore di filosofia ferroviaria notturna con il capitano, che mi hanno fatto imparare il blues, non mi ha insegnato nulla lui.
«Bello mio, ma guarda che io non ti insegno nulla».
«Tranquillo, sono io che mi sto imparando».
«Yah man», altro sorso di vino.
Quando sono sceso, lui proseguiva il viaggio e gli ho chiesto, nel caso fossi andato a Ginevra, come avrei fatto a incontrarlo.
«Bello mio, tu vuoi incontrare a Turi a Ginevra? E che ci vuole, basta che tu appena metti piede fuori dalla stazione fai un fischio. Subito arriva uno della ciurma che ti chiede: “Che fai? Che vai cercando?” E tu a Turi gli devi dire, il capitano: “A Turi? Aaah”» e schioccando le dita «vedrai che ti portano da me».
Poi è scoppiato in una fragorosa risata. Mi è venuta in mente la scena degli Aristogatti in cui il topolino va nei vicoli di Parigi a cercare Romeo e allora viene graziato. Vabbè.
Prima di scendere alla stazione di Napoli Centrale l’ho ringraziato e ho ripetuto, scandendo bene, i nomi della migliore scena partenopea che avessi potuto conoscere: James Senese Saxophone, Tullio de Piscopo, Tony Esposito e Daniele Pino, yah man.
«Adesso puoi morire» e ci siamo abbracciati.
Il blues.
Non scorderò mai quel cambio treno da uno sporco regionale notturno ad uno sterilizzato Freccia Rossa; dalla nave fantasma di cui ero l’ammiraglio, al treno dei morti, dove tutti, e dico tutti, stavano seduti composti immersi dentro il display del cellulare, navigando, si fa per dire, su internet.
Alla scoperta del Blues.
Vedi Napoli e poi muori.
Luce.
Alla scoperta del blues è un racconto di Mattia Mei tratto da StreetBook Magazine #11
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