Accordi e disaccordi
di Rocco Cannarsa

Si consiglia di accompagnare la lettura di questa recensione con l’ascolto del brano “I’ll see you in my dreams”. Diventa meno noiosa, garantito!
II o Re minore settima
Sono le dieci di sera quando decido di prendere l’autobus e tornare a casa per rilassarmi sul divano guardando un film, dopo una giornataccia come quella appena passata. Vorrei vedere, se esiste, un film su Django Reinhardt, il chitarrista francese degli anni Trenta che suona quelle chitarre particolari che non ricordo mai come si chiamino. L’idea mi è venuta perché alla radio del bar in cui ero passava Minor swing, che per molti non è che la colonna sonora del romantico film Chocolat. Quindi sì, vedrò proprio un film su Django Reinhardt, e già m’immagino le riprese dei club parigini con il gipsy jazz suonato live in sottofondo, le calde luci gialle e le grandi vetrate a separare la folla da una nottata di pioggia. Appena tornato a casa accendo il computer e cerco questo benedetto film. Mi informo e leggo che ce ne sono ben due, di cui cerco lo streaming scoprendo, deluso, che il nostro amatissimo cinema pirata non ne è provvisto. Cerco e ricerco tra file cancellati, consigli indesiderati su come investire in bitcoin e donne calde insaziabili che notte per notte sembrano avvicinarsi sempre di più… Impazzisco, provo anche i link più disparati perdendoci mezz’ora ma niente. Mi accontento di un film che internet mi consiglia tra le “ricerche simili”: Accordi e disaccordi, un film di Woody Allen con Sean Penn, Samantha Morton e Uma Thurman sul famosissimo chitarrista statunitense Emmet Ray, “nella chitarra secondo solo a Django Reinhardt” stando a quanto dice la descrizione del film. E io davvero non l’ho mai sentito nominare, così, tra l’infastidito e l’incuriosito, ne avvio la visione.

V o Sol maggiore settima
«Era il secondo chitarrista del mondo», così inizia Accordi e disaccordi. Woody Allen e degli esperti di musica che raccontano tra dati biografici e leggende la vita del famosissimo Emmet Ray. Eterno secondo (sono passati solo pochi attimi e questo concetto martellante è già chiaro) dopo Django Reinhardt, di cui parla con una malinconia che non sembra sia proprio invidia, né il classico timore reverenziale, quanto una strana manifestazione di ammirazione sconsiderata tristemente accompagnata da una impossibilitata imitazione. Si racconta lo abbia incontrato una volta in Europa, probabilmente in Germania e sia svenuto. Un’altra volta, prima di un concerto, il manager lo beffeggiò dicendogli che tra gli spettatori c’era Reinhardt e lui, preso dal panico, scappò via, come se avesse paura di scoprire che quello che per lui era un dio, fosse mortale.
«Sono considerato il miglior chitarrista che sia mai esistito. Perlomeno qui, in questo paese. C’è uno zingaro in Francia, che è la cosa più bella che abbia mai sentito».
Emmet Ray è un personaggio particolare. Da Allen viene descritto come “patetico, iperbolico, volgare e nel complesso molto sgradevole”. Cleptomane, povero ma con un amore sfrenato per il lusso di cui riesce adornarsi con mezzi illegali. Pappone, anzi, “manager di prostitute” come preferisce essere definito, cerca attivamente di costruirsi una vita di miserie che lo renda quasi forzatamente un artista. Ed è proprio questo rincorrere l’ideale dell’artista da strapazzo a creare gli sketch comici («Mi faccio un tiro in New Jersey e mi ritrovo in Pennsylvania?») che rendono divertente un film che in realtà è della più triste drammaticità.
Ebbe per un periodo l’ossessione per la falce di luna. Ne fece costruire una scendendo dalla quale avrebbe fatto gli ingressi sul palco, da vera star, con lo sfondo di velluto nero e l’abito intonato alla luna. Per giorni la adorò come un falso idolo, ma quando fu il momento, ebbe paura a salirci, perché l’egoismo di cui si pregna lo porta a temere la morte, forse neanche tanto per la morte in sé, quanto per la conseguente necessità di abbandonare la propria arte. Fu così che a fine concerto diede la luna alle fiamme.
Perde continuamente gli ingaggi negli alberghi di lusso perché non si presenta mai, e quando lo fa è ubriaco. Non si capisce molto bene durante il film se all’epoca della storia sia già famoso oppure no, perché si vanta di essere il migliore («Ne ho visti troppi versare lacrime amare. Invece io sono una star»), e un attimo dopo sembra lagnarsi della propria condizione rincorrendo il sogno di una notorietà che non vuole proprio arrivare (fa la comparsa in una pellicola ad Hollywood sperando di essere notato, ma chiedono alla compagna, che stava guardandolo sul set, di recitare in un film).
I o Do settima maggiore
Una vita fatta di egocentrismo sfrenato, perfettamente in linea con ciò che nell’immaginario collettivo vuol dire essere una star e che, come artista, porta Emmet a sentirsi superiore ai fatti della vita, a poter provare dolore solo per la sua musica, perché è l’unica cosa che conta e che amerà mai, anche se, come uomo, lo annienta giorno per giorno, portandolo a un continuo isolamento, che sfoga piangendo, solo, con la chitarra tra le braccia.

Blanche Williams e Ray
Molla tutte le donne che ha per la semplice paura di amare e si giustifica così: «Devo essere libero, sono un artista. […] Io con le donne ci sto bene, le amo. Solo che… non mi servono. Credo che succeda così quando uno è un vero artista». E se non è lui a lasciare il suo carattere lo porta a ritrovarsi solo, perché «nessun genio vale troppi mal di cuore». La continua ricerca di eguagliare ciò che nella sua mente è “l’artista”, non solo lo rende poco più di un buffone presuntuoso e detestabile agli occhi di un pubblico indispettito e irritato, ma crea il dramma della sua esistenza: divenire ciò che vorrebbe essere, dimenticando chi in realtà è veramente, alienandosi dalla realtà. Ha paura di esprimere le proprie emozioni, di rendere visibile la sofferenza delle sue scelte di vita drammatiche. Ed è proprio questo che lo renderà perennemente secondo a Django Reinhardt, perché «lui non ha paura di soffrire davanti a nessuno». E il film va avanti in divertenti peripezie, leggende, pianti, sempre con questo energico jazz di fondo, spari nelle discariche, vagoni merci che viaggiano lenti nella notte e questa sempre presente malinconica adorazione per il semidio Django Reinhardt.
Variazioni sul tema
Quando Accordi e disaccordi finisce cerco su internet Emmet Ray, e si evince che sia un personaggio immaginario. Lo sospettavo, per carità, ma mi sento ugualmente deluso perché avevo già fatto partire una playlist di brani su Youtube a suo nome. La cosa è snervante… cosa ho ascoltato finora? Chi ho ascoltato? Insomma informandomi bene capisco che potrebbe essere esistito, solo che non si sa chi sia, se Allen lo abbia usato solo per parlare in allegorie di Django Reinhardt, se sia un pittore, uno scultore, un poeta o un sognatore. L’unica certezza che ho su Accordi e disaccordi è che è uno specchio per ambiziosi, che non è un errore guardare se si ha dello sporco tra i denti. Fa riflettere sull’approccio degli artisti alla vita, sull’autenticità dell’esistenza, sul fatto che, in fin dei conti, le loro vite sono uguali a quelle degli altri, ma sembrano diverse perché nel proprio dramma ci vedono del poetico, perché per quanto si credano divinità non sono che esseri umani che non hanno nulla di speciale, solo tanto narcisismo e un più o meno tacito complesso autocontemplazione.
