50 anni di Batigol pt. 2 di A. Biagioni || Hobby e Sport || THREEvial Pursuit


 

50 anni di Batigol pt. 2

I gol

di Andrea Biagioni

batigol arsenal

Se sei un attaccante che ha segnato qualcosa come trecentocinquanta gol in carriera e lo ha fatto nei modi più disparati possibili, beh, diventa difficile sceglierne solo alcuni per racchiuderci una carriera. Quindi, ci vogliono dei parametri. Allora diciamo che: innanzitutto devono essere decisivi, perché di gol belli ma inutili la storia del calcio è pieno; poi devono essere di fattura non banale, il che non vuol dire necessariamente belli; infine, devono avere un significato profondo. Lo confesso, non è facile fare una selezione quando si tratta di Batigol, ma proviamoci.

25 agosto 1996

La stagione 1995/96 si apre con la finale di Supercoppa Italiana a San Siro tra il Milan, campione d’Italia, e la Fiorentina, detentrice della Coppa Italia.
Già, nel maggio scorso i viola sono tornati a vincere dopo vent’anni, battendo nella doppia finale l’Atalanta, e Firenze ha sfogato una gioia trattenuta da due decenni con una festa incontrollabile. Quando la squadra è rientrata da Bergamo ad accoglierli a Peretola saranno stati in almeno quattromila, al Franchi dove hanno visto la partita sui megaschermi in quarantamila, per le strade c’era tutta Firenze. Gabriel ovviamente ha dato il suo contributo: 8 reti in 8 gare. Ma non è solo quello. Da un due anni ha preso in mano la squadra. La fascia di capitano è sua. La Fiorentina è sua. Ha fatto dei progressi tecnici e mentali che fanno impallidire ogni altro calciatore: non in Italia, a livello mondiale. Ha trovato il giusto equilibrio tra la potenza di cui l’ha graziato qualche dio e una tecnica che nel corso degli anni si è sempre più affinata. Lavora su sé stesso come uno scultore che leviga il marmo.Una rassegna veloce da quella Coppa Italia per darvi un’idea. Semifinale d’andata contro l’Inter: Controllo di petto a seguire in area con parabola d’esterno sul palo opposto. Semifinale di ritorno: Pallonetto a San Siro. Il cucchiaio di Totti qualche anno dopo, praticamente una cover.

Ma ora si deve pensare alla Supercoppa e i rossoneri sono favoriti d’obbligo. La Fiorentina spera che il cambio Capello-Tabárez sulla panchina rossonera significhi la fine di un ciclo e che le gambe imballate dalla preparazione estiva possano pesare sui padroni di casa. Sia la prima che la seconda condizione si presentano esattamente al 12°. Il Milan è ancora lontano dall’assimilare gli schemi di Tabárez e non riesce a gestire il pallone, Cois la recupera e la cede, ma poco dopo se la ritrova tra piedi e quindi la butta su i non ci pensa due volte: controllo a seguire che in realtà è un sombrero; Baresi segue il pallone con gli occhi ma perde Batistuta, se lo cerca alle spalle, ma lui è già davanti, mentre Maldini assiste alla scena praticamente da fermo e Seba Rossi aspetta di essere inchiodato. 0 a 1. Dieci minuti Savićević la rimette sul pari con un sinistro dal limite e da lì la gara è tostissima. È una partita bloccata, di quelle che si dice solo un calcio da fermo o la giocata di un campione possano risolverle. Anche in questo caso le due condizioni si manifestano in contemporanea a quindici minuti dalla fine. Desailly stende Bati centralmente a venticinque metri dalla porta. Non lo fare, non lo fare con Batigol. Piccola digressione tecnica. Ci sono molti modi di calciare una punizione, ma stanno tutti sotto due macrocategorie: punizione a girare o punizione di potenza. Nel gergo di Batistuta esiste solo una categoria: la punizione a girare di potenza. Parte il destro, il movimento di Seba Rossi è in ritardo, la palla è all’incrocio e Batigol corre, corre. Corre verso la telecamera e c’è solo una cosa da dire. «Irina te amo».

Si sono conosciuti alla quinceañera di lei, la festa che nel mondo latino-americano sancisce il passaggio di maturità per le ragazze, una specie di ballo delle debuttanti per intendersi. Gabriel di anni ne aveva diciassette e col calcio aveva appena iniziato. La vede è pensa che nella sua vita da lì in poi ci sarà solo lei. E lei è lì: quando esordisce, quando arriva il primo gol e poi i problemi al River, il campionato col Boca, la Copa América, l’Italia, la Serie B e tutto il resto. Irina c’è sempre. E adesso è casa, nella loro casa di Firenze con Thiago e Lucas. Bati vorrebbe averli tutti e tre lì, perché sta per alzare un’altra coppa e perché sa di aver fatto qualcosa di grande. Magari a Firenze non li aspetteranno di nuovo in quarantamila al Franchi, ma questa Supercoppa non è una coppa qualunque: è una coppa vinta a San Siro, contro il Milan. È proprio un’altra cosa. C’è la sensazione che la Grande Fiorentina non solo sia davvero tornata, ma che sia solo all’inizio di un ciclo. Non sarà così purtroppo. Finirà con un deludente nono posto e con l’immeritata eliminazione in semifinale di Coppa delle Coppe contro il Barcelona di Ronaldo, anche se c’è il tempo di un altro Batigol con indice sulla bocca a zittire il Camp Nou. A fine stagione un po’ di delusione c’è, ma c’è anche il ricordo di una notte a San Siro di tarda estate.

13 dicembre 1998

Alla fine della stagione 1996/97 Claudio Ranieri, il mister delle due coppe, lascia Firenze e al suo posto arriva l’esordiente Alberto Malesani, che fa divertire i tifosi ma lascia poche soddisfazioni. Batistuta da par suo è sempre il solito. Segna. Nel corso della stagione però, inizia ad avere qualche mal di pancia. Lui vuole vincere e minaccia di andarsene. Ma non è un minaccia contro Firenze, bensì una minaccia contro la dirigenza per Firenze, perché lui vuole vincere lì, vuole portare uno scudetto in quella che ormai è la sua città e non capisce perché la società non abbia la sua stessa voglia famelica. Alla fine, la dirigenza cede e fa il colpo, perché sulla panchina viola arriva uno che di scudetti se ne intende abbastanza: Giovanni Trapattoni. È proprio lui a convincere Bati a restare. Per metà stagione la Fiorentina è esaltante. La convinzione che possa essere una stagione particolare cresce di gara in gara e si cementifica il 13 dicembre ’98, quando al Franchi arriva la Juve e per una volta le posizioni sono ribaltate: la Viola è capolista con 25 punti, i gobbi ne hanno 18.

Al 59°, Lulù Oliveira gestisce un pallone sulla fascia sinistra, alza la testa e vede che Bati c’è. Fa partire il cross a rientrare e Bati lancia la volata, Tudor guarda la palla e non vede che l’altro lo sta prendendo alle spalle, perché ha capito esattamente dove andrà la palla. Peruzzi fa un passo in avanti, ma capisce di essere in ritardo. Tudor invece non lo ha ancora capito, ma quando vede con la coda dell’occhio una macchia viola sfrecciargli alle spalle, si paralizza. Rispetto a sette anni prima, Bati cambia l’angolo e impallina Peruzzi nell’angolino alla sua destra. Probabilmente il boato si sente fino a Sesto Fiorentino, mentre parte l’esultanza di Batigol, che sembra un misto tra una schitarrata e una mitraglia.

Ora Firenze ci crede e infatti quattro domeniche dopo si laurea Campione d’Inverno. Batigol è inarrestabile: 18 reti in 19 partite. Non lo tieni. Ma il 7 febbraio successivo, nello scontro diretto con il Milan al Franchi, il ginocchio di Gabriel si gira e senza Bati la Fiorentina crolla. Il sogno sfuma, ma arriva comunque la terza piazza, che vuol dire Champions League.

27 ottobre 1999

Ora però devi giocarla la Champions e sin da subito non è semplice, perché passato il preliminare con i polacchi del Widzew Łódź, c’è un girone di ferro: Barçelona, Arsenal e Aek Atene. Alla penultima giornata, la Fiorentina si ritrova appaiata all’Arsenal al secondo posto che significa passaggio del turno. Di perdere non se ne parla, quindi rimangono due opzioni: o si vince; o si pareggia e ci si gioca le ultime chance all’ultima con il Barça. Meglio vincere.

Wembley. Arsenal-Fiorentina. Il pieno autunno inglese è pungente e i viola hanno una missione: espugnare la Cattedrale del Calcio. Inizi a giocare da bambino e sogni di segnare un gol decisivo a Wembley. Vincere lì non significa solo passare il turno, ma entrare nella storia. Solo due italiane ci sono riuscite: il Milan e il Parma, ma non contro un’inglese. E ora tocca alla Viola, in una partita che ha mille significati, anche economici, perché la Champions paga bene e nelle casse viola si inizia a notare un vuoto preoccupante. Il girone va superato per forza.

La partita è ansiogena. L’Arsenal preme per settanta minuti e la Fiorentina in almeno due o tre occasioni sembra crollare, ma San Toldo la tiene a galla. Poi Heinrich si fa trenta metri di campo in percussione centrale, Bati si sbraccia sulla destra e il tedesco lo serve. Winterburn, il terzino sinistro inglese, ha la pessima idea di lasciargli un paio di metri. Quando il pallone arriva sul piede di Bati, accorcia la distanza con l’idea di mandarlo sull’esterno e chiudere lo spazio, ma l’altro non gli dà il tempo perché stopparla di destro e riportarsela in avanti col sinistro è una frazione di secondo. Bati scappa sul fondo e Winterburn lo rincorre, ma neanche tanto. “Che vuoi che faccia da posizione defilata a due metri dal fondo? Al massimo, la crossa nel mezzo, mica tira”. E infatti se Bati la buttasse nel mezzo, Winterburn la prenderebbe in scivolata. Invece, tira sull’angolo più lontano. Un missile terra-aria. All’incrocio opposto. Rivedi il replay e ti rendi conto che se avessi chiuso o allargato di due centimetri l’angolo di tiro, avrebbe mandato il pallone in curva o avrebbe come minimo ucciso Seaman, perché la potenza è impressionante. La Fiorentina ce l’ha fatta. Ha sbancato Wembley e Batigol è entrato nella storia.

26 novembre 2000

Alla fine, è successo. Bati se n’è andato. La situazione economica della Fiorentina non può più permettersi di tenere immobilizzato un capitale come Batistuta, anche se venderlo ormai significa voler tappare un cesso con 500 lire. Fatto sta che non può più sostenerlo e nel giro di un anno non riuscirà più a sostenere tutti gli altri.

Bati si trasferisce quindi alla Roma, che con Capello in panchina, Totti, Emerson, Samuel, Cafù e ora Batistuta sta costruendo una grande squadra. A Roma viene accolto come un re, nonostante i rapporti tra tifoseria viola e giallorossa siano sempre stati… diciamo caldi. Per un tifoso viola, peggio di un romanista c’è solo uno juventino e forse per un romanista, peggio di un viola c’è solo un laziale. Ma in quella domenica di novembre in cui affronta la sua più passionale storia d’amore sportiva, Gabriel riesce a circondarsi di un rispetto che impedisce ai tifosi romanisti di fischiare, mentre lui va verso lo spicchio dei suoi vecchi tifosi che lo acclamano, perché non hanno mai smesso di amarlo.

E poi il destino è crudele, gli dei del calcio bizzosi e Fiorentina-Roma è sempre stata una partita centrale nella vita di Gabriel, perché non possa succedere qualcosa di speciale. Per ottantadue minuti sembra che i sessantacinquemila dell’Olimpico non aspettino altro che quel momento, perché tutti sanno che arriverà. E infatti Batigol arriva. Zago alza un pallone sul vertice alto sinistro dell’area fiorentina, Totti lo spizzica verso Bati che lo lascia rimbalzare e si coordina. Quando il pallone sta scendendo, il suo collo destro impatta la sfera, mentre Toldo fa l’unico errore che non dovrebbe fare: tre passi avanti. Eppure lo sa come va con quei tiri. Partono dritti, vibrano, non sai mai dove possono finire e invece finiscono sempre nel solito punto, sotto la traversa. È successo con l’Atalanta, col Barça, col Manchester e altre decine di volte. E succede anche adesso. Mentre la rete sventola come una bandiera, Bati abbozza uno scatto. Poi la razionalità del cuore prevale sull’istinto del goleador e lo ferma. “Non puoi Gabriel. Hai promesso”. I compagni lo avvolgono e lui piange, mentre Totti se lo carica sulla spalla e lo riporta a centrocampo, perché è l’unico su quel rettangolo a capire cosa sta provando. Mia madre, mai stata tifosa viola come me del resto, guarda la scena e mi dice: «Questi sono i veri calciatori».

Non credo ci siano molto da aggiungere. C’è tutta la poesia del calcio in quel pianto. Così triste, bello, drammatico nel senso più teatrale della parola, è il finale più degno che si potesse dare a questa storia. La storia di un ragazzino cresciuto in un piccolo paese santafesino, che Firenze ha fatto diventare grande e che in una fredda notte di inizio millennio ha capito cosa vuol dire essere un uomo.

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