Three Faces presenta THREEvial pursuit: una serie di articoli tra il serio e il faceto sulle tematiche più disparate! La prossima innovazione, un articolo di D. Petrelli || THREEvial Pursuit13 Gennaio 2021La prossima innovazione di Dario Petrelli La prossima innovazione che dobbiamo apportare nella nostra società non è tecnologica. Non ha a che fare con una grande invenzione che ci consentirà di teletrasportarci, o di conquistare Marte, o di generare grandi quantità di acqua dal nulla (ok, quello magari aiuterebbe, ma non è questo il punto). La prossima innovazione deve essere filosofica, etica, sociale. Deve riguardare il nostro modo di pensare: a noi stessi, alle nostre relazioni, al mondo che ci circonda. Ce lo diciamo già da tempo: solo un cambiamento radicale nel nostro modo di ragionare può aiutarci a trasformare in misura significativa il nostro modo di vivere. Non sarà il prossimo I-Phone a salvare la Terra – anzi, è molto probabile che il prossimo I-Phone contribuirà a peggiorarle. Ma quale potrebbe essere questa nuova idea, in grado di aiutarci a vivere meglio? Non lo so, ma sparo un esempio: il dare nuova, autentica importanza alla pausa. Sì, la pausa, intesa come mancanza di fretta, ansia, di voler fare, di voler avere, di essere sempre i numeri e le numeri uno. Mancanza di profonda, intensa avidità. La pausa, come nel gioco di Zidane, quando dopo un dribbling a metà campo si ferma e guadagna secondi aspettando la sovrapposizione del terzino sulla fascia, per poi servirlo sulla corsa. Senza ansia, senza voler accelerare il ritmo a tutti i costi, aspettando che i tempi coincidano. La pausa, come l’agricoltrice che evita di spruzzare pesticidi e veleni su ogni centimetro quadrato del suo campo per velocizzare il processo di crescita e maturazione dei suoi ortaggi, delle sue vigne, dei suoi alberi. La contadina che concede alla vita le condizioni migliori per venire a formarsi. La pausa, come quella delle città che scoraggiano l’utilizzo dell’automobile nelle proprie strade. Esistono davvero queste città, no? Magari non sono così diffuse, non in Italia almeno, ma esistono. Fatevi una camminata, gente. Non abbiate fretta. La pausa, come quella che esisterebbe in un mondo ideale dove non c’è l’obiettivo del profitto costante, il plus a ogni secondo che passa. Il plus che finisce per soffocarci tutti quanti: generando traguardi ogni volta più irraggiungibili nei nostri lavori; saturando i nostri smartphone di roba che ci martella e ci confonde; riempiendo gli scaffali dei supermercati e i nostri frigoriferi di cibo incommestibile basta che si compri. Cazzo, a volte mi sento come incastrato nella home di Netflix, dove scorrendo dall’alto verso il basso finisci per perderti nell’oceano di serie tv che continuano incessanti a sbucare fuori dal nulla, e sono tutte uguali e ogni volta che ne inizio una nuova mi sento subito preso per il culo perché dai, siamo seri, cos’ha veramente di nuovo questa nuova serie tv? L’innovazione di cui potremmo aver bisogno, insomma, è una rinuncia alle innovazioni. Perlomeno a quelle a cui ci siamo abituati così tanto da pensare che il nostro orizzonte debba essere sempre costellato dall’arrivo di nuovi prodotti, aggiornamenti, scoperte, esperienze, cose. Troppe cose, forse ce ne vorrebbero meno, forse sarebbe il caso che tutti provassimo a rallentare per un po’. [E so bene che in questo momento storico un concetto simile non può che riportare alla mente il lockdown, ma quello in fondo non ha davvero a che fare con la pausa per come ne ho parlato fin qui: è piuttosto uno stop forzato nel tentativo di salvare il salvabile e far diminuire le morti. Non è il calciatore che si ferma col pallone tra i piedi per far salire la squadra, è il calciatore che viene espulso dopo un brutto fallo e abbandona la partita. Certo, avremmo potuto sfruttarlo come un’occasione per ragionare a fondo su tematiche importanti e su come prevenire disastri futuri. Di solito nei film (o nei libri o in qualsiasi tipo di racconto), la pausa serve anche a preparare lo spettatore a cambiamenti inattesi nello svolgimento della trama. Dopo il primo lockdown invece abbiamo scoperto che non era cambiato nulla, e non è un caso se siamo ancora intrappolati in una situazione molto simile a quella in cui eravamo finiti a marzo]. La realtà è che la nostra è una società che va a mille all’ora sotto tutti i punti di vista. Si è già schiantata più volte ma ciononostante non accenna a frenare – sembra non sapere come si fa, a frenare. Sembra ansiosa di andare incontro allo schianto definitivo. La svolta, allora, potrebbe consistere nell’imparare a decelerare. Cambiare velocità, ma verso il basso – e non sempre e solo verso l’alto come ci siamo condannati da soli a fare. Magari non funziona, o magari invece potrebbe piacerci. Il cambio di ritmo, del resto, aiuta a rendere la fruizione di un’esperienza meno monotona. Insomma, avete afferrato il concetto, no? Niente di nuovo in fondo, se ne parla da tempo e risale agli anni ’90 il motto di Alexander Langer – personalità poliedrica i cui contenuti paiono farsi più urgenti a ogni anno che passa – “lentius, profundius, suavius”, che tradotto significa: diamoci una calmata. Capito, piattaforme di streaming? Datevi una calmata anche voi. Sul serio, c’è troppa roba su quella home e non si riesce mai a capire cosa scegliere: è un labirinto notturno pieno di potenziali scelte sbagliate e video che partono in autoplay per farti smarrire la via. Forse è meglio prendersi una pausa, anche dalle serie tv. Share Tweet Share... Read more...Intervista a Mathieu Romeo aka Trota, di G. Silvestrelli || THREEvial Pursuit23 Dicembre 2020Intervista a Mathieu Romeo aka Trota Nelle acque profonde del writing romano di Giorgio Silvestrelli TROTA, all’anagrafe Mathieu Romeo, è un writer di Roma. Non uno qualsiasi. Da sempre è considerato come un pilastro della scena del writing romano e non solo. Abbiamo deciso di incontrarlo e di fare una bella chiacchierata con lui dato che, insieme con Lorenzo D’Ambra, ha da poco dato alle stampe un libro dal titolo quanto mai emblematico: Roma Subway Art. Giorgio Silvestrelli: Ciao Mathieu, presentati al pubblico di Three Faces. Raccontaci chi sei e quali sono le tue passioni. Trota: Ciao, sono Mathieu, meglio conosciuto come TROTA.Le mie passioni sono la pesca con la mosca e i viaggi, mentre la cultura a cui appartengo è il graffiti writing. GS: Come ti sei avvicinato al writing e qual è il tuo primo ricordo legato ai graffiti? T: Mi bocciarono e dunque cambiai scuola, continuando nonostante tutto a fare politica. Entrai, così, a far parte di un collettivo dove, tra gli altri, c’era HIOM che qualche mese dopo mi chiese di andare a fare il palo a lui ed alcuni amici mentre dipingevano un treno. Una volta che ebbero finito, scrissi FUCK THE SYSTEM con uno spray giallo! GS: Raccontaci l’origine del tuo tag: Trota. T: Erano i primi giorni di scuola dopo Pasqua e stavamo facendo ricreazione quando i miei compagni mi dissero che la prof avrebbe interrogato così. Visto che come al solito non avevo studiato, appena rientrati in classe iniziai a raccontare di come qualche giorno prima, mentre mi trovavo dai miei zii in Francia, avevo pescato un piccolo pesce con dei puntini rossi lungo i fianchi: una trota.Doveva essere la seconda media, e da quel giorno tutti gli amici mi chiamano così. Da allora, per tutti, io sono TROTA GS: Ci sono stati dei writer in particolare che ti hanno ispirato? Parlo sia in riferimento alla scena romana, ma anche a quella americana. T: A Roma ci sono due writers che mi sono sempre piaciuti più di altri, e parlo di STAND e PANE, ma non mi hanno ispirato, anche se mi sarebbe piaciuto.In giro per il mondo ce ne sono stati tanti di writers che mi hanno colpito, su tutti ricordo SICK e MELLIE oltre ai tanti della scena di New York. Ho però un solo mito: DONDIGS: Cosa ne pensi dell’attuale scena romana di graffiti? T: Internet ha appiattito tutto e, purtroppo, la bella e particolare scena romana di una volta non c’è più. Così come manca il rispetto, sia sui muri che sui treni. Ormai le nuove generazioni, in larga parte, fanno le cose tanto per farle, senza capire bene di cosa realmente si tratti.GS: Come è cambiato, a tuo modo di vedere, il mondo del writing a Roma e, più in generale, nel mondo? T: C’è una generale regressione dello stile, si sta tornando alle origini di New York, al paleolitico del writing. Insomma, stiamo vivendo i veri graffiti! (ride, ndr). GS: A proposito di tempo che scorre inesorabile, parlaci del tuo libro Roma Subway Art, capace di raccontare 30 anni di graffiti nella Città Eterna. T: ROMA SUBWAY ART è un progetto nato dall’idea di Lorenzo, a cui avevo dato le mie foto affinché le scansionasse. Dopo una settimana che ci lavorava incessantemente, mi propose di fare un libro. E dopo oltre tre anni eccolo qui: Il libro. La metro.I graffiti.La storia.432 pagine, oltre 800 foto e 90 tra testi e interviste di alcuni dei writers più prolifici.GS: Questa è la prima volta che ti cimenti con un libro? T: Sì, questo è il mio primo libro. Già verso la fine degli anni ’90, insieme a DALE, avevamo dato vita a MACCARONI, che fu la prima fanzine di writing romano e della quale uscirono quattro numeri. Poi alzammo il tiro e a noi si aggiunse VELA, con il quale facemmo il primo video di writing in Italia, si chiamava STARTRASH. Chissà cos’altro mi riserverà la vita. Sicuramente per me questo libro è un punto di arrivo, un gesto d’amore verso il mio mondo, i miei amici, i nemici, la mia vita. GS: Quali sono state le maggiori difficoltà che hai incontrato nel realizzarlo? T: La parte più difficile, inizialmente, è stata quella di convincere le persone a partecipare, a scrivere un testo e a darci delle belle foto. Dopo un po’ che la voce ha iniziato a girare, devo dire che anche i più restii hanno voluto far parte del progetto. GS: Con quali criteri tu e Lorenzo avete selezionato le foto e i tantissimi writer che hanno preso parte alla realizzazione del libro? T: Il criterio è uno ed è molto semplice: se sei stato parte di questa storia, stai nel libro!A livello di testi, volevamo che tutte le crew importanti fossero rappresentate il più possibile, e credo che ci siamo riusciti. GS: Nel libro c’è una foto o un testo che più di ogni altro ti ha emozionato? T: L’emozione più grande l’ho avuta dai vari complimenti che mi sono arrivati dalle persone che hanno partecipato al progetto. GS: Perché era importante oggi, nel 2020, realizzare un libro sui graffiti? T: Non era tanto importante farlo uscire nel 2020, ma era fondamentale che Roma avesse un libro che raccontasse la storia del writing prima che se ne annebbiasse il ricordo. Alcuni writer sono morti, altri sono spariti nel nulla, altri ancora hanno ricordi vaghi. Mettiamoci anche che i vari traslochi hanno fatto sì che tante foto siano andate perse. Io e Lorenzo abbiamo scritto un libro di storia dell’arte di un qualcosa che, pur essendo effimero, è destinato a rimanere, custodito nelle librerie vicino a libri come SPRAYCAN ART e SUBWAY ART. GS: Vorrei parlare con te di street art. Per te, cos’è la street art? T: La street art è la necessità di artisti comuni di farsi pubblicità per poter poi vendere le loro piccole opere nelle gallerie. GS: Il writing può essere definito street art? Quali sono le differenze, se ci sono? T: Il writing fa parte della street art perché, nell’accezione del termine, è fatto per strada e ad alcuni cittadini piacciono i graffiti. Ma la verità è che il writing è una cultura, la street art, o come diavolo la si voglia chiamare, no. E, a mio personale modo di vedere la cosa, non lo sarà mai.GS: Street art vs. Urban Art. Illegale contro legale. Tu che opinione ti sei fatto? E i graffiti che ruolo hanno in tutto questo? T: Io credo che ognuno debba fare ciò che vuole e, soprattutto, ciò che lo fa stare bene. Quindi non importa che sia legale o illegale, l’importante è essere liberi di esprimersi ed essere felici del risultato. GS: Cosa pensi in generale del mercato dell’arte? Mi spiego meglio: sempre più spesso gli street artist, ma anche molti writer, trovano mercato tramite le gallerie che, ormai da diversi anni, hanno messo gli occhi sull’arte di strada. Tu cosa pensi al riguardo? T: È normale che il mercato dell’arte guardi alla street art poiché, come ti ho detto prima, è arte comune, che piace più o meno a tutti. La cosa interessante è la ricerca (da parte di pochi) di pezzi di writing, dove il collezionista è intenzionato a comprare la cultura e il mondo che c’è dietro a quei segni. Quando c’è una richiesta, c’è sempre anche un’offerta e dunque sì, sono a favore della mercificazione del writing anche se trovo che molti, troppi, si svendano.GS: Quanto resta oggi dello “spirito originario” del writing? T: Cosa rimane oggi? Come dice Frah Quintale in una sua canzone, solo “15 secondi di gloria su Insta”! GS: Roma, ad oggi, può ancora essere considerata come uno dei luoghi di culto italiani del writing? T: Non Roma. Il vero luogo di culto del writing mondiale, è la metro di Roma.Dove da 30 anni almeno un graffito al giorno ha sempre girato su una delle varie linee. GS: Personalmente cosa ti dà maggiore soddisfazione? Dipingere un muro o un treno? T: Dipingere treni è un’emozione unica. L’adrenalina è indescrivibile e l’idea che il mio pezzo si fermasse davanti agli occhi di qualcuno che non poteva far altro che ammirarlo, mi faceva sentire invincibile. Poi, però, gli anni passano, gli acciacchi aumentano e capisci che devi accontentarti di scrivere il tuo nome sui muri perché non sei più un ragazzino. GS: Che rapporto hai con i social network? Pensi che i social abbiano cambiato il modo di percepire e fare graffiti? T: Come dicevo prima, le nuove generazioni vivono di istanti (e distanti) sui social. Io preferisco ancora la carta stampata, una foto cartacea o ancora meglio un libro, nonostante, per lavoro, io stesso abbia dovuto mettermi al passo coi tempi.GS: C’è qualche cosa che vorresti raccontarci ma che nessuno ha mai osato chiederti? T: Vorrei tanto raccontarti il mio giro del mondo. Ma sarebbe una storia troppo lunga. GS: Hai un sogno nel cassetto? T: Li ho realizzati tutti.GS: Hai un messaggio per i lettori di Three Faces? T: Non so se il writing sia arte o vandalismo, però, che vi piaccia o meno, una scritta su un muro non ha mai fatto del male a nessuno. Grazie Mathieu e a presto Foto tratte da Roma Subway Art photos di Lorenzo D’Ambra / Foto graffiti di Mathieu Romeo aka TROTA Share Tweet Share... Read more...Labirinti notturni, di C. Durden || THREEvial Pursuit16 Dicembre 2020Labirinti notturni di Corto Durden Labirinti Notturni La scorsa notte stavo leggendo il libro che ho ordinato da Amazon, L’invenzione di Morel di Bioy Casares. Leggo sempre a letto prima di dormire, perché trovo che la calma della notte favorisca l’immersione nelle atmosfere di un racconto; il viaggio nei luoghi e nei tempi di una storia, inoltre, ha l’effetto di abbassare le mie difese e mi prepara ad arrendermi al sonno. Mentre leggevo Casares ed ero preso dai tentativi del protagonista di suscitare una reazione nella donna che guarda impassibile il tramonto dalla scogliera, curioso di scoprire come mai quella non gli prestasse la minima attenzione, sono passato da una pagina all’altra – senza voltarle, erano due pagine adiacenti – e mi sono accorto che l’inizio della seconda non aveva nulla a che fare con la fine della prima. C’era una rottura del flow in atto, il senso della frase che avevo iniziato non proseguiva affatto nel foglio successivo. “Che diavolo sta succedendo?” Ho cercato la risposta laddove ci si reca subito in questi casi, e cioè nei numeri delle pagine, e lì ho visto confermati i miei timori: da pagina 32 si passava direttamente a pagina 81. “Ma che cazzo”, mi son detto. Ho sfogliato il libro controllando la disposizione delle altre pagine, per scoprire che da quel punto in poi era semplicemente un casino: alcune stampate più volte, e altre totalmente mancanti (come le pagine da 33 a 80, chiaramente). Mi sono arreso. “Per stanotte è andata così”, ho pensato. “Domani contatto il servizio clienti, ora non resta che dormire”. Ho spento la luce, ma ero incazzato nero. Ci tenevo a leggere questo libro, l’ho ordinato perché mi incuriosiva parecchio e mi stava anche piacendo. Volevo proseguire l’esplorazione di quella cazzo di isola surreale su cui si trova il protagonista, e invece no. Te l’abbiamo stampato coi piedi, ah! Prendila in culo. Grazie. Non è nemmeno la prima volta che mi succede una cosa del genere. Un paio d’anni fa ho preso L’autunno del patriarca di Marquez in prestito dalla biblioteca comunale. Qualche notte dopo, mentre sono più o meno a metà del romanzo, assorto e bello comodo nel mio letto, volto pagina – stavolta la sorpresa attendeva che fossi io ad andarle incontro, come nei film horror – e trovo qualcosa che mi lascia di stucco: un mucchio di peli neri (pubici, temo) incastrati nella piega del libro, al centro fra le due pagine. Li guardo inorridito per qualche secondo, chiudo il libro, lo poggio per terra, vado a lavarmi le mani, dormo, il giorno dopo lo riconsegno alla biblioteca così com’è senza dire nulla. Ecco, magari è stato il karma: avrei dovuto interrompere quel sadico scherzo perpetrato dallo stronzo che aveva messo i peli nel libro, perlomeno avvisando le bibliotecarie mentre lo riconsegnavo (non so perché non lo feci, forse per imbarazzo, forse perché sono uno stronzo anch’io). O magari si tratta di una sorta di maledizione che mi colpisce quando leggo gli autori sudamericani del realismo magico, chi lo sa. Non c’era nulla di magico però in quei peli. Ad ogni modo, la scorsa notte non sono riuscito a prendere sonno come speravo. Sarà stato perché ho interrotto la lettura prima che le mie palpebre iniziassero a calare, sarà stato il nervosismo per la sfiga di aver beccato il libro rotto tra tutte le copie che potevano capitarmi, fatto sta che ero ben sveglio e mi sono ritrovato in balìa dei miei pensieri. Pensieri che si sono presto annodati in una spirale di negatività e riflessioni paranoiche. È qualcosa che mi succede alle volte nelle notti in cui non riesco a dormire, più o meno da sempre. Per fortuna da qualche tempo il sonno mi cattura quasi subito non appena chiudo gli occhi, ma se la mente è ancora arzilla quando spengo la luce, beh, la paranoia è dietro l’angolo. Sarà capitato a tutti almeno una volta nella vita, basta un attimo: seguendo il filo dei tuoi ragionamenti potresti intraprendere una direzione pericolosa e ritrovarti nel posto sbagliato, in un labirinto nero dalle pareti opprimenti, un groviglio di sentieri bui da cui non si riesce a venir fuori. È la notte stessa a farsi opprimente, seppure immobile, e il soffitto è più basso, come se venisse a cercarti. Dopo un po’ inizia anche a salire la temperatura, nonostante sia pieno inverno. Fa caldo per effetto dei tuoi movimenti continui, della nervosa ricerca di un riparo dai fantasmi nella tua testa. Le coperte diventano solo un peso, tu sudi, le scosti, ma passano i minuti e fa di nuovo freddo – sai com’è, è pieno inverno. Ti attivi sempre di più per cercare sollievo e il sonno continua ad allontanarsi. Ecco, è questo il tipo di trappola in cui mi sono incastrato la scorsa notte. Beh, ma pensa ad altro, potrebbe dirmi chi è abituato a dormire senza problemi. Eh, fosse facile. In nottate simili le tue angosce ti inseguono, ti si attaccano addosso e stringono la presa. Trovo anche inutile rivelare i motivi ricorrenti delle mie paranoie, perché non ci sono veri e propri motivi ricorrenti: l’ansia molto spesso se ne frega delle ragioni che l’hanno scatenata. Una volta innescata si nutre di tutto ciò che trova, e ci sono stati casi in cui ho finito per dimenticare come mai fossi ansioso. (Il casus belli, si sa, è solo un pretesto: la guerra si espande e si autoalimenta per amore della devastazione). Allora mi dico qualcosa per calmarmi: “pff, tra poche ore tutti questi pensieri non conteranno nulla. Ti sveglierai e sarà un altro giorno, come sempre”. Ci vuole un po’ di tempo perché questo mantra attecchisca, me lo ripeto. “Tanto alla fine ti addormenti sempre, sia pure per poche ore, ma il tuo cervello si arrende perché ne ha bisogno”. Aspetto. Guardo la mia compagna che dorme accanto a me – lei sì e alla grande – beata lei. Siamo vicini e su due pianeti diversi allo stesso momento. Mi piace guardarla nel buio, ma devo chiudere gli occhi. Mi rilasso, ci siamo quasi. “Domani è un altro giorno”. Sento i piani del mio pensiero slittare una prima volta, scivolano, la mia mente si è inclinata verso l’oblio. Ci siamo. Stamattina mi sono svegliato ed era un altro giorno, come sempre. Il sole riempiva la stanza dove avrei lavorato in smart working – un sole freddo e infiacchito dalle nuvole, ma pur sempre il sole. Notti così possono portarsi dietro degli strascichi durante la mattinata ma il fatto di averle superate – di aver dormito nonostante ti sentissi condannato a restare sveglio e in compagnia delle tue paure – dà come uno sprint iniziale alla giornata, ti fa partire più carico. È un periodo del cazzo, che ci fa sentire tutti fragili e in bilico. Lo stress sta mettendo a dura prova tantissima gente in tutto il mondo, e mi chiedo dove stiano trovando la forza di non impazzire le persone più indifese e che hanno meno strumenti per resistere alla pressione. Passerà ‘a nuttata? Saremo di nuovo carichi alla vista del sole che riempie le nostre stanze? Boh. Io per ora sto facendo il massimo, come tutti, per pensare positivo. Per conservare la fiducia nel fatto che sì, la notte è passeggera, e le paure che la abitano non trovano posto nel giorno che segue. “Non guardare dentro l’abisso”, mi dico. “Lo sai, quello poi guarda dentro di te e sono cazzi”. Ok, siamo d’accordo. Ma io che cazzo leggo stanotte? Share Tweet Share... Read more...Sentieri Leggendari, un articolo di R. Dell’Ali || THREEvial Pursuit9 Dicembre 2020Sentieri Leggendari Un libro per viaggiare altrove di Roberta Dell’Ali Copertina di Sentieri leggendari – L’arte di camminare fra storia, avventura e paesaggio, a cura di C. Honan, R. Klaten e A. Kouznetsova. A voi cosa manca dell’ante-Covid? A me viaggiare, mi manca un botto ed è per questo che oggi cedo la parola a luoghi magici e cammini lontani, raccontati in un bellissimo volume: Sentieri leggendari – L’arte di camminare fra storia, avventura e paesaggio, edito da Rizzoli, a cura di C. Honan, R. Klaten e A. Kouznetsova. Un libro prezioso, che due amici che non abbraccio da mesi e mesi e mesi mi hanno regalato tempo addietro. La dedica recita: Perché tra tutte le arti quella di camminare è quella che ti rende più libera In questo tempo sospeso che stiamo vivendo, le pagine di questo volume sanno portar lontano e, a volte, sembra persino di sentire i piedi affondare nella terra brulla dell’altrove, di cui il buon Calvino seppe dare la miglior definizione di sempre: Uno specchio in negativo Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà Facciamo un salto nell’altrove dei miei sogni quindi, vi va? Il circuito del Toubkal: montagne alte, villaggi berberi e boschetti di ginepro Vetta della Jbel Toubkal, Marocco, uno dei Sentieri leggendari Il circuito del Toubkal è un cammino semi-ostico che si srotola per circa settanta chilometri tra le montagne dell’Alto Atlante, la catena montuosa che attraversa diagonalmente il Marocco (dall’Atlantico a ovest all’Algeria a est). I nativi della regione chiamano le cime dell’Alto Atlante Idraren Draren, “montagne delle montagne”. Il circuito di Toubkal inizia e finisce nel pittoresco villaggio di Imlil e pare essere uno dei migliori trekking del continente africano. Un percorso che si sviluppa tra sentieri che sono stati battuti per millenni dai locali; luoghi dove si avvera una mescolanza strabiliante di valichi nascosti, vallate che sembrano oasi, vette innevate e creste panoramiche. Le vallate si succedono lungo il cammino, tutte diverse: alcune rigogliose e coltivate, altre sterili e spezzate dal vento. Bramo di percorrere i sentieri del Toubkal, di perdermici dentro (solo spiritualmente, questo è ovvio) e di imbattermi nel color smeraldo splendente del lago Ifni, appena a ovest del villaggio di Amsouzert. E poi, i berberi delle montagne: case fatte di mattoni di fango che sbucano dai fianchi pendenti delle montagne alte, le tajine, il tè alla menta e la tradizione berbera, preservata dal favore dell’aridità e delle fortificazioni. Il Wadi Rum: “Vasto, echeggiante e simile a una divinità” Il sentiero leggendario del Wadi Rum, GIordania, (Photo by Andrea Biagioni) Così T.E. Lawrence definì il Wadi Rum: “vasto, echeggiante e simile a una divinità”. Parliamo di un ghirigori profondo nella Giordania meridionale, scavato nei millenni da un corso fluviale. La chiamano anche ‘Valle della Luna’: un susseguirsi elegante e maestoso di vallate che scendono fino all’Arabia Saudita, un lungo intreccio di gole, archi, pilastri e sabbie color cremisi. Il Wadi Rum è molto simile a Marte, il pianeta rosso, solo con qualche forma di vita a noi nota che scorrazza qua e là: cammelli, qualche uccello. Stambecchi e capre di montagna. La notte, poi, si fanno avanti gatti delle sabbie e volpi del deserto. Ma vi immaginate che cosa indecente deve essere osservare l’intorno stando sulla cima del Jebel Um Adaami? Lì, sulla vetta più alta della Giordania, a 1839 metri sul livello del mare, immersa in una distesa di roccia infuocata. Dicono che il cielo del Wadi Rum sia impareggiabile: di notte, quando si raggruma di nero e le stelle lo tagliano con scie nette e limose; ma anche all’alba o nel tardo pomeriggio quando i raggi del sole infuocato creano sulla roccia un caleidoscopio rosso e arancione che dà senso alle parole del vecchio Lawrence, che il Wadi Rum lo conosceva bene. Quando tutto questo sarà finito io andrò in questi posti. Voi, invece, dove volete andare? Share Tweet Share... Read more...Voglia di droplets, un articolo di B. Bendinelli || THREEvial Pursuit2 Dicembre 2020Voglia di droplets di Benedetta Bendinelli In Peaky Blinders non rispettano la distanza di sicurezza Non so più cosa dire, scrivere o pensare riguardo questo Covid. Non so più cosa pensare di tutti noi, zitti e fermi nell’attesa che il nuovo anno cambi rotta – come se esistesse davvero un calendario con gli impegni del destino – mentre i colletti bianchi giocano a strega comanda colore. L’intrattenimento crudele della pandemia ha monopolizzato la sofferenza, la frustrazione, la noia e la solitudine, lasciando tutto il resto – i nostri soliti e piagnucolosi dolori da giovani Werther – in secondo piano: tutto fermo in un cassetto polveroso dove non ci sono sogni ma deboli realtà (semi cit.). Come questo pezzo che sto cercando di scrivere, e che vorrei fosse sano, privo dei sintomi di una malattia epocale, libero; e invece no, anche la scrittura è stata infettata dalla peste fredda: non la vediamo ma lei vede noi, ovunque siamo ci segue e ci rompe i coglioni; in silenzio sì, ma ce li spacca. Proprio l’altra sera, mentre cercavo di non pensare al Covid, ecco che mi trovo inaspettatamente a pensare al Covid. Stavo guardando un film e all’improvviso – dopo essermi chiesta per l’ennesima volta come mai gli attori non indossano le mascherine, per poi rendermi conto che la mia mente è già stata riprogrammata con i plug-in Covid – mi domando: cosa ne sarà degli sputi sul set? Gli attori saranno ancora a loro agio quando nel copione della sceneggiatura leggeranno: interno, casaMartin sputa in faccia a Henry più volte e poi esce di scena sbattendo la porta. Sebbene sia oramai un fatto certo che salteranno fuori vaccini e centinaia di altri metodi precauzionali per raggirare la malattia, bisogna sempre tenere a mente che sputare oggi non è soltanto un gesto spregevole e disgustoso, ma è anche la primaria azione veicolante del virus. Vi ricordate quando da piccoli leccavamo la merenda per non farcela fregare dal compagno di banco? Bene, pensate che d’ora in poi il principio di quella tattica primordiale sarà una regola fissa, che lo vogliamo o no saremo per sempre spaventati dalla saliva altrui. Quindi mi chiedo nuovamente: con che coraggio gli attori si faranno sputare in faccia? Se tutto va bene il 2021 sarà un anno salvifico e come per magia torneremo tutti a fare la vita di un tempo, ci abbracceremo, ci baceremo, scoperemo e torneremo anche a offenderci a colpi di sputi. Se tutto va bene non ci penseremo più. Se tutto va male arriverà un momento in cui faremo comunque ciò che ho elencato di sopra, ma probabilmente non assisteremo più a quegli intensi e patiti dialoghi tra le star di Hollywood che tanto ci garbano ed emozionano. Volendomi preparare al peggio – immaginando un mondo triste dove i dialoghi arrabbiati e sudati avranno bisogno di effetti speciali per ricreare i droplets – ho selezionato una classifica delle migliori scene di film o serie televisive dove partono sputacchi come piogge di stelle, alcuni dei momenti più memorabili della storia del cinema dove non ci sono regole di distanziamento e la saliva ha tutto un altro sapore. 10. L’allenatore nel pallone Un classico della commedia italiana anni ’80 dove schiaffoni, calci in culo e palpate erano archetipi estetici di un’epoca leggera in via d’estinzione (per fortuna, direi). Lino Banfi recita la parte di Oronzo Canà, un allenatore pugliese di serie B con grandi ambizioni calcistiche. Presto detto: in visita a Rio De Janeiro alla ricerca di un fuoriclasse per la sua squadra, Oronzo finisce in sala operatoria per un’appendicite. In una breve scena in coppia con Andrea Roncato, Lino nazionale prova a sputarsi in faccia da solo – soltanto dopo aver colpito anche il collega – in un gesto di auto umiliazione a seguito della sfortunata visita in Brasile. Grazie Lino, ma ‘sta roba non ci mancherà. Oronzo Canà (Lino Banfi) sputa in faccia ad Andrea Bergonzoni (Roncato). E poi sputa in faccia a sé stesso. 9. Il Petroliere Senza dubbio uno dei film più belli di Paul Thomas Anderson che in ognuna delle sue pellicole si preoccupa di fornire la giusta quantità di lacrime (Magnolia), sperma (Boogie Nights) e alcool (The Master). Nel lungometraggio che ho selezionato per questa classifica troviamo una delle scene più intense della cinematografia hollywoodiana, un dialogo ricco di pathos, dramma e senza dubbio saliva. Nel finale del film uno straordinario Daniel Day-Lewis si scaglia contro il collega in scena (il cucciolotto Paul Dano) e lo massacra di rabbia e parole, con una furia violenta che terminerà in un bagno di sangue, e non solo. Plainview (Daniel Day-Lewis) riempie di droplets il povero Sunday (Paul Dano) 8. Fight Club Memorabile per centinaia di ragioni: le botte prima di tutto, il fisico di Brad Pitt, le saponette; ma anche per la dura critica al sistema consumistico e a una società superficiale e materialista. Ma dove sono gli sputi? Durante la fase di reclutamento dei membri del fight club, Edward Norton si occupa di selezionare gli uomini del gruppo i quali, per avere accesso alla squadra, dovranno passare un lungo test d’ammissione che consiste semplicemente nell’attesa. Sul porticato della casa fatiscente di Tyler Durden & Co. volano sputacchi a distanze ravvicinate, in un contesto che ricorda un po’ Full Metal Jacket e soldato Palla di lardo. Già, adesso che ci penso… Il test d”ammissione al fight club di Edward Norton e Brad Pitt 7. L’odio – La Haine Qua urlano tutti e in faccia: più che sputi, volano pistole.Vinz, Hubert e Saïd si ritrovano in un bagno pubblico a farneticare di vendetta e porci d’ammazzare quando all’improvviso salta fuori un ometto canuto che li zittisce raccontandogli un vecchio aneddoto. Questo è un momento importante nella trama del film, non soltanto per l’intensità dei dialoghi ma anche per i loro contenuti. Il mio consiglio è quello di vedere il film oppure cercare su YouTube L’Odio ~ La predica di Grumvalski, dove proprio in questa scena convivono dense salivazioni e insegnamenti di vita. Un Vinz Cassel in vena di droplets ne L’odio 6. Friends, dall’episodio The One with Monica and Chandler’s Wedding (Part I) Niente di speciale in questo sketch se non la presenza edenica di Gary Oldman (per me, e per sempre, l’unico grande Dracula). È bello pensare che una volta attori del suo calibro trovavano il tempo per farsi sputare in faccia da dilettanti allo sbaraglio come Matt Le Blanc. In uno degli ultimi episodi della serie tv più famosa al mondo, Joey riesce ad avere una parte in un film di guerra e nella scena del confronto con un suo superiore entrambi gli attori enfatizzano la pronuncia delle parole con la P fino a spruzzare dalla bocca come fontane. Nulla di che, ma tanta saliva. Gary Oldman in Friends. Sì, è successo veramente ed è stato bellissimo. Pioggia di droplets a parte. 5. Kill Bill Vol.II Qua le cose si mettono male. Quentin Tarantino è noto per non risparmiare mai i suoi attori sul set. La sua filosofia è un po’ della serie “se devono rompersi una gamba, che se la rompano”. Ultimamente è stato criticato anche per l’eccessivo zelo adoperato durante le riprese di Kill Bill Vol.II nella scena di guida pericolosa di Uma Thurman. La macchina era vecchia e a quanto pare in pessimo stato, inoltre non venne utilizzata una controfigura e l’attrice fu obbligata a guidare ad alta velocità fino poi a scontrarsi (per davvero) con una palma. Con questi presupposti è ben chiaro che con Tarantino, quando si parla di sputi, non ci sono trucchi di scena. Beatrix viene messa a tappeto da Budd e il regista chiede a Michael Madsen di sputarle in faccia una miscela che somiglia a un mix di tabacco, whisky e fango. Voci di corridoio sostengono che Madsen da vero gentiluomo si sia rifiutato e così il buon vecchio Quentin si è trovato costretto a produrre personalmente l’orrendo fiotto melmoso.Uno degli sputacchi più brutti mai visti, vedere per credere. Lo sputazzo di Budd (Michael Madsen) prepara un mega-droplets per Beatrix (Uma Thurman) – che poi era di Tarantino. 4. Revolutionary Road Prima o poi a Di Caprio gli scoppia un embolo.Molte delle sue parti prevedono scene di incontrollabile rabbia, arricchite da indomabili vene gonfie che gli squarciano il collo e la testa. Potrei elencarne decine e decine, partendo da Buon Compleanno Mr.Grape fino agli anni maturi de Il Grande Gatsby, ma il mio “momento saliva” preferito si trova in un bellissimo e intenso scontro tra Leo e Kate Winslet in Revolutionary Road. A un certo punto urlano tutti, lei un po’ di più, e per questo motivo la prossima volta stileremo una classifica delle migliori grida sul set.Non è vero. L’evidente embolo di Leonardo Di Caprio in Revolutionary Road 3. Full Metal Jacket Non c’è bisogno di introduzione. Ha preso più schizzi soldato Palla di lardo che uno scoglio al molo di Viareggio. Semplicemente il droplets del sergente Hartman (Ronald Lee Ermey) per il soldato Lawrence (Vincent D’Onofrio). Che altro dovremmo dire? 2. Marriage Story Al secondo posto voglio celebrare una performance ingiustamente sottovalutata nel carosello dei premi hollywoodiani. Scarlett Johansson e Adam Driver nell’ultima pellicola di Baumbach, ci regalano un alto momento di recitazione nella cliccatissima scena del litigio. Il film è uscito nel 2019, e soltanto un anno dopo il mondo delle star – e di noi altri comuni mortali – si è ritrovato in un dramma degno dei più architettonici film di fantascienza. Scarlett e Adam ancora non lo sapevano, ma quella sarebbe stata una delle ultime scene in cui gli attori potevano affrontarsi con così tanta libertà fisica. La colonia di droplets nella bocca di Adam Driver 1. Peaky Blinders nell’episodio 6 della terza stagione Tommy Shelby e Alfie Solomons, interpretati da Cillian Murphy e Tom Hardy, sono probabilmente la rappresentazione più azzeccata, in una serie televisiva, dell’eroe negativo e il suo rivale in affari. Il loro rapporto di rispetto e odio è perfettamente narrato in una scrittura ricca e incalzante, degna delle più grandi opere cinematografiche. Ma oltre a brillare per regia e sceneggiatura, Peaky Blinders è il maggior portatore sano (boh) di saliva sul set.In questa scena da pelle d’oca si perde il conto dei droplets, ed è subito virus. Bene, cosa ci ha insegnato questa riflessione sugli sputi? Probabilmente niente. Oppure ci ha insegnato qualcosa di molto importante, a non dare nulla per scontato, a non sottovalutare l’importanza dei dettagli, perché sono proprio i dettagli i primi a sacrificarsi quando esplode una bomba come questa, che ci è scoppiata tra le mani senza preavviso e senza timer. Quindi amici, mi auguro di tornare presto agli abbracci e alle carezze, ma soprattutto auguro a tutti noi un mondo libero, dove finalmente potremo ricominciare a sputarsi in faccia. Share Tweet Share... Read more...QuaranThreevial Off: Lockdown 2.0. Un articolo di A. Di Raimondo25 Novembre 2020QuaranThreevial Off: Lockdown 2.0 La solitudine di chi rimane di Anna Di Raimondo Lockdown di Bladi Tra i film che mi fanno piangere come una fontana, c’è Air Bud, una storia d’amicizia tra il piccolo Josh, un giocatore di basket alle prime armi, e Bud, un cane che – incredibile ma vero – sa giocare a basket. Tutto molto tenero. Ma c’è un intoppo: Bud appartiene a Norman, un clown cattivo e particolarmente inquietante che vedendo le prodezze di Bud in tv, decide di riprenderselo per farci una marea di soldi. Il momento che mi fa versare litri di lacrime è quello in cui Josh decide di abbandonare Bud nel mezzo del nulla per evitare che finisca nelle grinfie del clown. Nella scena, Josh cerca in tutto modi di allontanare Bud: gli dà un budino per distrarlo (Bud è un eccezionale estimatore di budini), gli dice che non lo sopporta più, gli urla di andarsene, ma Bud rimane lì scodinzolante e con la lingua di fuori. Alla fine, l’unico modo è quello di fingere di voler giocare a basket. Così Josh gli lancia il pallone e, mentre il cane gli corre dietro, scappa via. Una scena straziante, ve lo garantisco. Per un motivo o per un altro, tutti i miei cinque coinquilini sono tornati dalle loro famiglie lasciandomi sola a Milano. Il giorno in cui una di loro se n’è andata mi ha ricordato moltissimo la scena di Air Bud. La conversazione è andata più o meno così: Io: «Quando torni?»Coinquilina: «Non lo so, devo ancora organizzarmi».Io: «Ma torni?»Coinquilina: «Certo che torno».Io: «Non è vero. Chiuderanno tutto e io rimarrò qua da sola».Coinquilina: «Ma smettila…»Io: «Anche a marzo dovevi stare via qualche giorno e non sei più potuta tornare. Resta!»Coinquilina: «Non posso! Devo farmi pesare dal dietologo».Io: «Ti peso io».Coinquilina: «Senti, ti ho lasciato uno yogurt e una ricottina in frigo!»Io: «Non mi compri con uno yogurt e una ricottina!»Coinquilina: «Ma scadono…»Io: «Non mi interessa!» Alla fine, mi sono addormentata verso le tre per un pisolino e quando mi sono svegliata c’era un biglietto sul tavolo che diceva: A presto! Promesso.P.S. Non buttare lo yogurt e la ricottina Ho così capito cosa ha provato Bud quando, tornando indietro con il pallone, non ha trovato nessuno. Giorno dopo giorno, ho osservato rassegnata i miei coinquilini andarsene. E adesso eccomi qui. A Milano, in smart working e senza amici. Un commento a caldo? Le prime 48 ore sono filate lisce come l’olio. Ho mangiato senza dover lavare subito i piatti, ho occupato il posto a tavola che più mi piaceva, ho messo la musica a tutto volume e ho guardato in tv quello che volevo, senza dovermi sorbire una partita di calcio o un documentario di tre ore su qualche omicidio ancora irrisolto. Poi ho iniziato a cedere. Dopo due giorni trascorsi a non fare nulla, domenica pomeriggio – sdraiata a letto sotto il plaid, con il computer sulla pancia e un pacco di triangolini di mais vuoto – ho iniziato a desiderare che fosse lunedì per poter lavorare e vedere, anche se attraverso un computer, i miei colleghi. Di fronte a quel desiderio, così lontano dalla scansafatiche che sono sempre stata, ho capito che le settimane successive sarebbero state molto dure. Quando a febbraio il virus è arrivato in Italia, si è iniziato anche a parlare della possibilità di chiudere tutto, ma era un’idea così lontana dalla realtà alla quale eravamo abituati che quando è successo non sapevamo che sentimenti provare. Adesso sappiamo cosa si prova. Il mio lockdown, però, è stato diverso. Sono rimasta chiusa in casa tre mesi con il ragazzo che mi piaceva e a cui, si è scoperto poi, piacevo pure io. È stata una convivenza forzata e difficile. Quando si litiga, quando si sente il bisogno di stare soli non ci sono molti posti dove andare se non la propria camera da letto. Ma quelle quattro mura non bastano quando sai che dall’altra parte della porta c’è la sua stupida e irritante faccia. Avete presente i primi mesi di una relazione? Quando tutto è perfetto ed entrambi sembrate usciti dalla copertina di un giornale di moda? Sempre ben vestiti, capelli in ordine, truccati e profumati? Ecco, in lockdown non esiste: c’è il pigiama stropicciato, le calze bucate, il viso pieno di brufoli, i peli che crescono, i rutti dopo cena, il mal di pancia per aver mangiato troppo, le ascelle che puzzano e nessuna voglia di fare la doccia. Non è esattamente una favola, ma ti ci abitui. È come saltare uno step e arrivare direttamente a quella fase della relazione dove non ci si vergogna più di niente. E un po’ ti senti fortunato nell’aver trovato qualcuno che ti infastidisce facendo finta di avere un puntatore laser solo perché hai un brufolo rosso e gigante sulla fronte, ma che ti abbraccia e ti consola quando ne hai bisogno. E io ne ho avuto di bisogno. Il 19 marzo, Festa del Papà, ho scoperto che mio padre aveva un tumore al quarto stadio ai polmoni con metastasi cerebrali. Con una videochiamata mamma ci ha dato la notizia. Io e mia sorella piangevamo ma papà rideva, dicendo di non fare sceneggiate: scherzava sui capelli che aveva sempre avuto in disordine e che ora avrebbe perso. Diceva che sarebbe andato tutto bene. Il dottore era positivo: papà era giovane, 58 anni appena compiuti, era forte e vigoroso e poteva sopportare la chemio e la radio. In un anno, diceva, si sarebbe ripreso. È morto il 28 luglio, dopo cinque mesi di una malattia che lo ha distrutto fisicamente e mentalmente. Non riusciva più a camminare da solo, non parlava o scherzava più. Era depresso perché aveva dovuto lasciare la sua casa, non riuscendo più a sopportare i quattro piani di scale necessari per raggiungerla. Ma era anche stanco e soprattutto preoccupato. “Vi lascio in mezzo alle pene”, ha detto a mia madre il giorno prima di andarsene, come se sentisse l’arrivo della fine. Io sono riuscita a tornare a casa il 27 giugno, solo dopo essermi accertata con test sierologici e quarantene di non essere un pericolo per mio padre. Siamo stati insieme un mese. In quel mese abbiamo mangiato tanti gelati gusto fragola e limone.Io, mia madre e mia sorella abbiamo parlato pomeriggi interi del nulla.L’ho visto ridere, con difficoltà, grazie ai racconti indecenti di suo fratello.È tornato a essere un figlio che necessita delle cure di sua madre.E poi è finito tutto. Con la sua scomparsa sono cambiate tante cose. Nel mio cuore, ad esempio, in quell’angolo riservato a mio padre, adesso c’è vuoto enorme. Chi ha vissuto un lutto dice che lo riempirò di ricordi, ma che il dolore non passerà mai. E non vedo neanche io come possa passare. Quasi tre mesi dopo, provo una rabbia che non so verso chi indirizzare, uno stupore continuo nel constatare che non c’è più e un immenso amore per mio padre, per l’uomo che è stato. Fantasioso, brillante, dispensatore di consigli, curioso e soprattutto un gran lavoratore, un marito e un padre meraviglioso. La scoperta di un sentimento combinata con la preoccupazione e l’ansia per mio padre non mi hanno fatto rendere conto nulla: non ho sentito il peso dello stare chiusa in casa perché ero troppo occupata nel fare o nel pensare ad altro. Come interessarsi a quello che succede intorno a te quando tuo padre dice che non ce la fa più? Come tenere a debita distanza un’amica che ti vuole abbracciare al funerale di tuo padre? Ma adesso ci sono solo io. Ora posso concentrare l’attenzione su una situazione della quale prendo veramente atto solo ora. Inizio anche io a guardare il telegiornale, a leggere i bollettini giornalieri, ad aspettare le conferenze del Presidente Conte. Mi informo su scenari futuri, sui vaccini, leggo i post di conoscenti negazionisti su Facebook e sono tentata di commentare. Sono di nuovo tornata a far parte del mondo, dopo una pausa di nove mesi in cui del mondo non me ne fregava proprio niente. Mentre scrivo sono passati cinque giorni dalla partenza dei miei coinquilini. La solitudine che provo è strana. Mi sento sola in modi diversi. Mi sento sola perché la casa è vuota.Mi sento sola perché lui, quello che mi prende in giro per i brufoli, è tornato a casa.Mi sento sola perché mio padre non c’è più.Mi sento sola, ma butto giù questi pensieri.Mi sento sola, ma mi alzo e cerco di cucinare degli hamburger vegetariani con discreto successo.Mi sento sola, ma pulisco casa.Mi sento sola, ma indosso qualcosa di decente e vado a fare un giro. Chiudo la porta di casa, ma torno indietro dopo cinque passi. Ho dimenticato la mascherina. Perché la solitudine di chi rimane non ha fine, ma il mondo deve continuare a girare. E io con esso. Share Tweet Share... Read more...Islanda: isola di fuoco e ghiaccio (pt. 3), un articolo di G. Levantini || THREEvial Pursuit20 Novembre 2020Islanda: isola di fuoco e ghiaccio Reykjavík e l’Ovest di Gabriele Levantini Reykjavík (Islanda 2016) Lasciata la bella Akureyri, la Capitale del Nord, proseguiamo l’esplorazione dei fiordi settentrionali e muoviamo verso ovest. Superiamo il vecchio porto commerciale di Hofsós, dal quale partivano per l’America gli emigranti islandesi all’inizio del secolo scorso, e poi la chiesa di torba di Grafarkirkia, la più antica d’Islanda. Ovviamente ricostruita. Giungiamo a Hólar, sito storico dove un tempo sorgeva un’antichissima cattedrale di cui purtroppo non resta molto. Al suo posto sorge un luogo di culto relativamente moderno, con delle belle decorazioni lignee. Un’interessante anomalia è che le chiese islandesi, quasi tutte di confessione luterana, presentino spesso delle decorazioni tipicamente cattoliche.: testimonianze sopravvissute all’iconoclastia della Riforma, diversamente da quanto avvenuto negli altri paesi protestanti. Proseguiamo attraverso il villaggio di Varmahlíð, in mezzo a un’area rurale di campi e serre, vicino al quale si è conservata l’antica fattoria di torba di Glaumbær, e la vecchia chiesa di torba di Viðimýrarkirkja. Ci rechiamo in seguito nel villaggio di Blönduós, dove ci fermiamo a mangiare. È un paese piuttosto anonimo al cui centro campeggia una fotogenica chiesa moderna. In un locale decorato con foto di foche pucciose dai grandi occhioni neri che giocano sugli scogli, troviamo nel menù “bistecca di foca”. Un po’ increduli rileggiamo: “grilluð selsteik – grilled seal”: ok, è proprio “bistecca di foca”. Sappiamo che la foca comune non corre alcun rischio di estinzione e che viene cacciata e consumata in vari paesi, sebbene sia un piatto un po’ inconsueto. Tuttavia, le foto sul muro ci mettono un po’ a disagio. Il vecchio tabù culturale per cui certi animali sono carini e vanno rispettati, mentre altri si meritano di finire in forno inevitabilmente è radicato anche in noi. Alla fine però la nostra curiosità ha la meglio e cediamo: la fredda razionalità trionfa sulle emozioni. Mentre ordiniamo, ci sembra che gli occhioni che ci osservano diventino più tristi. Ci sentiamo in colpa, ma il piatto è buono. Un forte gusto di selvaggina, complesso e deciso, ma gradevole. Vicino al paese troviamo Þingeyrakirkja, la prima chiesa in pietra d’Islanda. Da qui proseguiamo per la località di Hvammstangi, da dove cerchiamo di avvistare le foche. Purtroppo, forse a causa di quello che avevamo appena fatto, non si sono fatte vedere da noi. Ci aspetta a questo punto una lunga strada fino a Borgarnes, villaggio alle porte del Parco Nazionale di Snæfellsnes e finalmente un po’ di meritato riposo all’hotel Rjúkandi. Il sole sorge presto e va a dormire molto tardi, un po’ come noi. Ormai rimangono solo due giorni e cominciamo a sentire il tempo stringerci addosso: vorremmo restare di più, vedere di più, continuare ad attraversare questi paesaggi inviolati, ma purtroppo non è possibile. Chiesa con suonatore di alphorn (Islanda, 2016) Cominciamo la giornata da Staðarstaður, piccolo insediamento disperso nel niente, ed entriamo nella Riserva Naturale di Búðahraun. A Snæfellsbær nei pressi di Búðir, un borgo stretto tra il mare e i campi di lava, troviamo una chiesetta di legno nero davvero cinematografica. Il tutto è reso ancor più surreale da un tizio, forse il prete, che suona un grande alphorn nel prato davanti al luogo di culto. Poco dopo, nei pressi di Arnarstapi, ci imbattiamo in una colossale statua di pietre sovrapposte che raffigura Bárður Snæfellsás, leggendaria figura mezzo uomo e mezzo troll che avrebbe vissuto da queste parti. Ci facciamo una passeggiata sulla scogliera di basalto colonnare e poi proseguiamo verso Hellnar. Ogni tanto in mezzo ai prati compare qualche fattoria o qualche chiesetta, come la malmessa Hellnakjrkia. Oltrepassiamo Laugarbrekka, luogo dove nacque Guðríðr Þorbjarnardóttir, la più grande esploratrice vichinga e la prima donna europea a far nascere un figlio in America, nell’odierno Canada, che allora si chiamava Vinland. Visitiamo la bella spiaggia di Djúpalónssandur e l’adiacente cala di Dritvík composta da ciottoli lavici perfettamente sferici. Difficile immaginare che questi luoghi desolati furono un tempo, non troppo lontano, la base di una grande flotta peschereccia e di un villaggio di pescatori. Più avanti ci aspetta un’altra spiaggia di sabbia dorata attraversata da mille rigoli d’acqua: Skarðsvík. Passiamo l’insediamento rurale di Hellissandur, con una piccola chiesa bianca dal tetto rosso davanti alla quale hanno posto due grandi rocce molto scenografiche, poi il villaggio costiero di Rif dove incontriamo un altro giardino di ossa di balena, e il piccolo porto di Ólafsvík sul quale svetta una pretenziosa chiesa moderna. Da qua si comincia a vedere l’indistinguibile sagoma piramidale del monte Kirkjufell, uno dei monumenti naturali più fotografati d’Islanda. Ci dirigiamo alle sue pendici, dove si trova la cascata Kirkjufellsfoss, per scattare una foto di rito da bravi turisti. La bellezza del luogo è indiscutibile, ma c’è un po’ troppo affollamento, così non ci fermiamo molto e attraversiamo il villaggio di Grundarfjörður per andare alla scogliera di Gerðuberg, che con le sue ordinate colonne di basalto cinge il fianco occidentale della valle di Hnappadalur. La chiesa di torba di Grafarkirkia (Islanda, 2016) Ritorniamo sulla costa e ci imbattiamo in un’altra chiesa moderna altrettanto pretenziosa della precedente, che guarda dall’alto il minuscolo borgo di pescatori di Stykkishólmur. Al nostro arrivo troviamo la bassa marea, che ci offre lo spettacolo delle barche in secca su un improbabile prato di alghe. La nostra giornata volge ormai al termine. Sorpassiamo l’antico insediamento di Borg á Mýrum, che ci lascia in testimonianza una solitaria chiesetta di campagna, e siamo di nuovo a Borgarnes. Purtroppo, qui abbiamo la pessima idea di visitare il Museo della Colonizzazione, che è in realtà un percorso didattico per bambini. Comunque, impariamo un sacco di cose sulle saghe islandesi grazie a pupazzetti di legno e diorami, e alla caffetteria proviamo la mysa, siero di latte acido che piaceva ai vichinghi. Anche questa volta tratteniamo a stento l’istinto di rigettare. Decidiamo di fare una mezza follia e allungare la strada e andare a mangiare a Reykjavík. Alla fine – pensiamo – grazie alla galleria di Hvalfjörðu, è solo un’altra ora di viaggio. Arriviamo invece distrutti, e non riusciamo a goderci la città quanto vorremmo, però capiamo subito come sia una città piena di vita, con una movida che non ci saremmo aspettati e che ci godremo il giorno seguente. Premiamo comunque la nostra determinazione mangiando in un ristorante di livello, il Sjavargrillid, specializzato in cucina new nordic. Anche qui proviamo un piatto insolito: il marangone, un uccello marino simile al cormorano dal sapore deciso. Il nostro cameriere è molto felice di incontrarci perché, ci racconta, il suo italiano –imparato durante la sua lunga permanenza a Roma – è un po’ arrugginito. L’ultimo giorno siamo davvero tristi di dover abbandonare questo paese che ci ha rapito il cuore. Siamo determinati a non sprecare neanche un momento e visitiamo ancora alcune cose nell’area del Cerchio d’Oro, dalla quale siamo partiti quasi due settimana fa. Visitiamo il villaggio Reykholt, dove si trova anche il famoso laghetto termale Snorralaug, e proseguiamo per la piccola ma potente cascata di Barnafoss, che significa Cascata dei Bambini, a causa della storia popolare che racconta di due bambini caduti nel fiume. Poco più a valle visitiamo la cascata di Hraunfossar, generata da acque termali che escono dal sottosuolo gettandosi nel vertiginoso canyon del fiume Hvítá. Poco dopo arriviamo a Húsafell, dove percorriamo un sentiero storico che incrocia, tra le varie cose, un ovile in pietre a secco dove Snorri, antico poeta islandese, ha rinchiuso diciotto fantasmi. La cascata di Hraunfossar (Islanda, 2016) Il nostro viaggio continua con la visita di Surtshellir, grotta lavica sul cui fondo abbiamo trovato il ghiaccio, e infine il villaggio di Akranes alle porte della capitale. Qua, con nostro sommo sbigottimento, vediamo persone fare il bagno sulla spiaggia di Langisandur, contrassegnata dalla bandiera blu. Scopriamo poi che in prossimità della spiaggia, un piccolo corso d’acqua termale mitiga leggermente la temperatura del mare, che comunque difficilmente supera gli undici gradi. Il resto della giornata è dedicato all’esplorazione e alla scoperta della capitale Reykjavík, unica vera e propria città in Islanda. Dopo tanto vagare per lande desolate, non ci dispiace entrare in un centro abitato con strade a più corsie e alti palazzi in cemento, sebbene anche qui – come nel resto del paese – la maggior parte delle case siano di lamiera d’acciaio colorata. L’unico museo islandese degno di questo titolo, perlomeno per gli standard italiani, si trova qui: il Þjóðminjasafn Íslands, il Museo Nazionale d’Islanda. Visitiamo quindi i monumenti della capitale, a partire dalla splendida Hallgrímskirkja, l’iconica chiesa in cemento alta oltre settanta metri che domina il centro cittadino da ogni angolazione. Poi le vivaci strade Laugavegur, Austurstraeti, Lækjargata e Skólavörðustígur che brulicano di gente e di negozi. Vanno per la maggiore quelli di abbigliamento tecnico, con eccellenti marche locali quali 66° North o Ice Wear che purtroppo non possiamo permetterci, ma anche quelli che vendono lopapeysa, gli splendidi maglioni tradizionali di lana islandese, o ancora – da bravi nordici – quelli di design. Ciò che accomuna tutti questi negozi è la presenza di animali impagliati, pelli, pellicce e corna, sia in esposizione che in vendita. Evidentemente qui vanno ancora di moda. Ci sorprende il persistente odore d’erba che si respira in prossimità di molti locali frequentati. Non è legale, ma molti islandesi sono soliti passare week end di shopping nel vicino e tollerante Canada, e forse non acquistano solo vestiti. Strada centrale a Reykjavík (Islanda, 2016) La vecchia Reykjavik si sviluppa tra edifici pittoreschi e giardini intorno al laghetto Tjörnin sul quale si riflette il Ráðhús Reykjavíkur, il bel municipio moderno. Poco lontano si trova la vecchia cattedrale luterana Dómkirkjan e, a dimostrazione del cosmopolitismo della città, quella cattolica di Dómkirkjan Krists Konungs, la Cattedrale di Cristo Re, dal gusto vagamente inglese. Il lungomare e l’area del porto lasciano senza parole: l’ampia e fumosa baia è dominata da Sólfar, il Viaggiatore del Sole, una scultura in acciaio che rappresenta una nave vichinga stilizzata, e dalle moderne forme di vetro dell’Harpa Concert Hall. Ci rendiamo conto però che la sua bellezza non è data tanto da essi, quanto dall’atmosfera che qui si respira. La sensazione di relax che dà il sapere di trovarsi ai confini del mondo. Tra i palazzi moderni coperti di graffiti che si alternano agli edifici del vecchio porto, ci fermiamo a mangiare un pylsur, un hot dog di pecora al famosissimo chiosco Bæjarins Beztu Pylsur, pretenzioso nome che significa “Il miglior hot dog della città”. E pensare che ci avevano detto che Reykjavík non meritava una visita: niente di più falso. Però ci rendiamo conto che la bellezza di questa città non è dovuta ai suoi scorci e monumenti, quanto all’atmosfera che si respira qui. La rilassante sensazione di trovarsi lontano da tutto, ai confini del mondo. Ormai il viaggio è finito, domani prenderemo l’aereo che ci riporterà in Italia. Avremo solo il tempo di fermarci lungo la strada a vedere – e vedere soltanto – la Blaa lónið, cioè la Laguna Blu, il più famoso impianto termale d’Islanda che si trova vicinissimo all’aeroporto. Non vogliamo che domani arrivi, e questo sole che non vuol tramontare sembra capirci. Ci piace la sensazione di trovarci sospesi, in bilico su un’isola di fuoco e ghiaccio, a un passo dal Polo nord, con la terra che ribolle sotto i nostri piedi. In un luogo in cui l’uomo è sempre ospite, e non ancora padrone. Casa con il tipico tetto in erbaCase di torbaChiesa moderna a BlönduósGiardino con ossa di balenaStatua dell’Uomo-troll ad ArnarstapiIl luogo dove Snorri ha rinchiuso i 18 fantasmiIl Viaggiatore del Sole a ReykjavíkPelli e pellicceMonumento alla disobbedienza civile a ReykjavíkLa scogliera di GerðubergPesce steso ad essiccareSpiaggia di DjúpalónssandurSpiaggia di SkarðsvíkUn cartello invita i turisti a non mangiare la carne di balenaSpiaggia bandiera blu di LangisandurHallgrímskirkja a ReykjavíkIl monte KirkjufellStreet art nell’area del porto di ReykjavíkStrada con pecore islandesi All photos by Gabriele Levantini (Islanda, 2016) Share Tweet Share... Read more...Islanda: isola di fuoco e ghiaccio (pt. 2), un articolo di G. Levantini || THREEvial Pursuit18 Novembre 2020Islanda: isola di fuoco e ghiaccio Il grande Nord di Gabriele Levantini Sole di mezzanotte ad Akureyri (Islanda, 2016) Sono giorni che percorriamo centinaia di chilometri, approfittando di un sole che sembra non voler tramontare mai, ma ci alziamo comunque di buon’ora, mangiamo le solite aringhe, lo skyr e il pane nero. Beviamo un caffè lungo, anzi lunghissimo, e partiamo. La bellezza di ciò che ci circonda è un potente integratore vitaminico che corrobora le nostre forze: appena fuori dall’albergo ci sentiamo subito rigenerati. Non amo guidare, ma in questi paesaggi così maestosi e solitari è diverso. La guida qui ha qualcosa di romantico ed epico, è per me una specie di conquista del Far West. Non mi pesa affatto, anzi. Iniziamo dall’entroterra di Egilsstaðir, con le belle cascate gemelle di Hengifoss e Litlanesfoss. La prima salta giù da una parete di roccia a strati di diversi colori, che si alternano geometricamente come in una maglietta marinara. La seconda invece si tuffa da un trampolino di mille colonne di basalto, che sembrano una foresta pietrificata. Superiamo la piccolissima chiesa di torba di Geirsstadir, ricostruzione di un’originale medievale posta all’interno di un’area rurale dove si allevano pecore, e ci dirigiamo a nord. La prima sosta è la penisola di Borgarfjarðarhöfn, santuario naturalistico nei pressi del villaggio di Bakkagerði sul fiordo Borgarfjörður eystri dove le pulcinelle di mare nidificano. Questo uccello, chiamato anche puffin, è a rischio di estinzione in buona parte del suo antico areale, che si estendeva fino alle coste scozzesi e irlandesi, ma è invece relativamente comune in Islanda, tanto che in alcune regioni viene cacciato ed è servito abitualmente nei ristoranti di tutto il paese. La sua carne è tra più buone che abbia mai assaggiato. La caccia a questo animale si faceva tradizionalmente usando dei lunghi retini per catturare gli uccelli quando si lanciano dalle scogliere, ma al giorno d’oggi i fucili hanno sostituito le reti. Dopo un po’ di pazienza, riusciamo finalmente a vedere questi animali marini così buffi, col loro grande becco da pappagallo e il corpo da gabbiano, e – per quanto siano appetitosi – devo ammettere che osservarli è decisamente più emozionante che mangiarli. Poco lontano dal fiordo, visitiamo Álfaborg, una sorprendente formazione geologica di rocce nere e affilate, che sembra un set cinematografico di un film fantasy più che un luogo reale. È la famosa Città degli Elfi, capitale del Popolo Nascosto. In tutto il paese, e specialmente nel nord, la fede islandese nell’esistenza di entità misteriose che vivono tra le rocce e negli sconfinati paesaggi artici è testimoniata dalla presenza in molti giardini di piccole casine, messe lì come segno d’amicizia per queste creature gentili. Purtroppo nonostante i nostri sforzi, forse a causa della nostra poca fede, noi invece non siamo riusciti a scorgere neppure un elfo. Caratteristiche casette degli elfi davanti a un palazzo (Islanda, 2016) Ripartiamo facendo nuovamente rotta verso sud, per visitare una serie di fiordi e di incantevoli paesini marinari, dove pescherecci color arancio fluorescente sfidano un mare minaccioso nel quale si riflettono montagne impervie dalle cime bianche. Prima tappa Fáskrúðsfjörður (chiamata anche Buðir), con le indicazioni stradali in doppia lingua a memoria dei tempi – non molto lontani – nei quali era una colonia di marinai francesi, che dall’adiacente porto di Skrúður partivano alla ricerca di aringhe e merluzzi. Poi Eskifjörður e Neskaupstaður, dove ci fermiamo per una rigenerante passeggiata sulla scogliera e per visitare una grotta marina. Col mare sotto di noi, camminiamo su un terreno di torba intriso d’acqua, che si abbassa ad ogni nostro passo. Di tanto in tanto profonde spaccature sul suolo ci ricordano che di questa terra è bene non fidarsi troppo. Tuttavia, c’è una grande pace tra le verdi piante subartiche che fioriscono rigogliose nella breve e fredda estate islandese. Respiriamo a fondo l’umida brezza marina che porta in volo puffin e cormorani, consapevoli che stiamo vivendo un’esperienza unica. Scendiamo con attenzione alla grotta, lambita dalle onde. Dalla volta davanti all’ingresso scende una specie di rada cascatella, che dobbiamo oltrepassare per visitarne l’interno. Gli unici rumori che sentiamo sono i respiri della natura: l’acqua che cade, il mare si schianta con rabbia sui sassi neri davanti alla grotta coperti da alghe incredibilmente grandi, il canto degli uccelli marini. L’ultima tappa della giornata è il villaggio di Reyðarfjörður, sul cui lungomare si trova una mina oceanica inesplosa, testimonianza di come la follia della guerra si sia spinta fino ai confini del mondo. Rincasiamo infine a Egilsstaðir. È stata una giornata infinita, come il numero dei luoghi che vorremmo visitare. Collassiamo felici in albergo, nel crepuscolo quasi interminabile della notte ormai tarda. Dettifoss (Islanda, 2016) Il giorno seguente lasciamo definitivamente Egilsstaðir facendo rotta verso Dettifoss, la cascata più grande d’Europa, al cui cospetto ci sentiamo insignificanti. Non molto lontano si trova il canyon Ásbyrgi, che significa Rifugio degli Dei, il quale ha un’insolita struttura a ferro di cavallo. Questo non sorprendere, dal momento che è stato originato dal tocco di uno degli otto zoccoli di Sleipnir, il cavallo volante di Odino. All’interno di questo anfiteatro naturale troviamo una rara foresta di betulle e un lago verde che ricorda quelli delle nostre Alpi. Dopo aver visitato il luogo in cui gli dèi si rifugiarono una volta cacciati via dai cristiani, andiamo a cercare il luogo dove si manifestano tuttora ai loro moderni seguaci neopagani: Raufarhöfn, il punto più a nord dell’Islanda continentale. Questo gelido villaggio si trova a soli tre chilometri dal Circolo Polare Artico: più su di così c’è solo l’isola di Grímsey e poi ghiaccio e mare fino al Polo. Il villaggio è totalmente deserto e ha un aspetto desolato, il che contribuisce ad ammantarlo di un’aura poetica. C’è un piccolo cortile dove grandi vertebre di balena sono sparse a mo’ di seggiole; casette di legno e lamiera colorate e un albergo malmesso con una rete da basket all’esterno. Vista la temperatura, anche ora che è agosto, ci stupiamo di come qualcuno abbia avuto tanto coraggio da aprire un albergo qui. Sulla collina chiamata Melrakkaás, che significa Colle delle Volpi, è invece stato costruito l’Heimskautsgerðið o Artic Henge, una sorta di tempio (un henge per l’appunto) che dovrebbe interagire con l’energia delle luci nordiche nei vari periodi dell’anno. Facciamo una passeggiata sulla spiaggia poco fuori il villaggio, ma il vento che soffia implacabile dal Polo fino a qui non ci consente di resistere a lungo. Ripartiamo per Húsavík, delizioso vecchio borgo baleniero totalmente convertito al whale watching e all’ecosostenibilità, tanto da essere uno dei pochi luoghi in Islanda dove al ristorante non si trova carne di balena. Qua e là sono pubblicizzati menù vegetariani e addirittura vegan. Visitiamo il Museo della Balena, molto didattico. Proviamo ammirazione per il coraggio eroico degli antichi balenieri e senso di colpa per il comportamento di quelli moderni. Nei pressi del porto ci danno pure un volantino che spiega in inglese perché non avremmo dovuto mangiare carne di balena in Islanda. Giusto, ma anche questo un po’ di parte, visto che qui per fare bei soldi hanno bisogno che le balene si sentano tanto tranquille e sicure de entrare nella baia Skjálfandi. In ogni caso, oggi mangiamo degli ottimi pesce lupo e salmerino artico, pesci locali assai più “politicamente corretti” delle balene “sostenibili”. Ci allontaniamo un po’ dal mare per visitare le antiche case di torba di Grenjaðarstaður e attraversiamo ampie campagne dove corrono i cavalli islandesi, fino ad arrivare a Narfastaðir Guesthouse dove dormiremo. Prima del nostro arrivo il cielo, in un tramonto arancione come mai prima d’ora, ci regala il raro spettacolo di un doppio arcobaleno. Il vulcano spento Hverfjall (Islanda, 2016) Il giorno dopo lo dedichiamo all’area geotermica di Námafjall Hverir, e al lago Mývatn. Visitiamo il famoso sito di Grjótagjá, cavità lavica al cui interno una fonte termale forma un lago azzurrissimo, e poi attraversiamo un’ampia pianura fumante dove incrociamo fumarole, pozze calde, immensi impianti geotermici e doccia in mezzo al niente dalla quale esce acqua termale gratis. Facciamo un breve trekking fino alla cresta del vulcano spento Hverfjall e poi proseguiamo per Dimmuborgir, il cui nome significa Fortezza Oscura: un labirinto di formazioni laviche posto sulla sponda orientale del lago. Questo luogo è una specie di portale, una connessione tra il nostro mondo e gli inferi. Superfluo specificare che, sebbene sfuggano alla vista dei più, è densamente popolato di elfi e troll. Arriviamo infine al Lago Mývatn, che significa Lago dei Moscerini, a causa della fastidiosa presenza di questi animali, pressoché assenti nel resto del paese. Specchi d’acqua sono intervallati da pseudocrateri, particolarmente spettacolari a Skútustaðir. Sembrano il risultato di un pesante bombardamento a tappeto, ma sono in realtà il frutto del brusco raffreddamento di antiche colate laviche. Grazie al terreno vulcanico, le acque del lago sono estremamente ricche di nutrienti, perciò la vegetazione è piuttosto rigogliosa. L’intensa attività geotermica della zona ci consente di farci un bagnetto rilassante al Mývatn Nature Baths, uno degli stabilimenti termali più famosi d’Islanda. Interessante come qui sia obbligatorio fare una doccia integralmente nudi prima di poter accedere alle vasche, e come questo sia vissuto senza imbarazzo. Giriamo intorno al lago e nelle sue vicinanze incontriamo Goðafoss, la Cascata degli Dei, così chiamata da quando gli islandesi, appena convertitosi dal paganesimo al cristianesimo, decisero di buttare qui tutte le statue delle loro ex divinità. Goðafoss, la Cascata degli Dei (Islanda, 2016) Torniamo nuovamente verso nord e attraversiamo il villaggio di Reykjahlid ed il minuscolo e anonimo paesino di Laugar, prima di fare il nostro ingresso ad Akureyri, seconda area urbana del paese, con ben trentamila abitanti e capoluogo della regione Norðurland eystra. In Italia sarebbe un paese, qua è una metropoli. L’ingresso in città è costituito da un ponte dal quale si gode un panorama incredibile del fiordo Eyjafjörður, uno dei più lunghi d’Islanda. La vista del mare che si insinua tra alte catene montuose, alla cui base dorme questa città piena di luci, è talmente bella che torniamo indietro per poter attraversare due volte il ponte. L’atmosfera che si respira in centro è piacevole e vivace. Anche se la temperatura non si può definire mite, la gente mangia ai tavoli disseminati lungo le strade davanti ai locali, sotto i funghi riscaldanti e con i plaid addosso, ma all’aperto. Le stradine sono piene di negozi, immancabilmente addobbati con animali impagliati, che evidentemente trovano eleganti. Spesso questi oggetti sono anche in vendita, unitamente ai documenti necessari a esportarli legalmente fuori dal paese. Per la prima volta dal nostro arrivo, vediamo anche qua i segni della globalizzazione, che si manifesta prima in un ristorante indiano realizzato in una piccola chiesetta sconsacrata e poi in una simpatica ragazza italiana che lavora al chiosco degli hot dog e che ha fatto di questo paese così remoto la sua nuova casa. Dopo una gradevole passeggiata sul lungofiordo, andiamo a mangiare e questa volta proviamo l’uria, un uccello marino locale il cui gusto ricorda vagamente il nostro piccione. L’intera giornata successiva la spendiamo visitando questo grande fiordo: visitiamo i villaggi di Grenivík e Hauganes, che giacciono uno davanti all’altro sulle due sponde, e i resti del villaggio vichingo di Gásir, come al solito più da immaginare che da vedere. Ma il piatto forte del giorno è la visita all’isola di Hrísey, nel centro del fiordo. Doccia termale gratuita a Grjótagjá (Islanda, 2016) Partiamo dal minuscolo porto di Árskógssandur su un traghetto che sembra più un peschereccio dismesso che un’imbarcazione di linea e in breve tempo ci accorgiamo che il mare sotto di noi, pur essendo scuro, è anche inaspettatamente trasparente e lascia intravedere distese di lunghissime alghe verde-marrone e un’infinità di meduse eteree che si muovono lente come nuvole d’estate. Sull’isola vivono stabilmente pochissime persone, principalmente dedite al turismo, alla pesca e alla lavorazione del pescato, come suggerisce la stazione di essiccatura dell’hákarl – il tradizionale squalo fermentato – vicino al villaggio. Questo antico piatto nacque dalla necessità dei vichinghi di mangiare lo squalo groenlandese, fonte proteica abbondante a queste latitudini, ma purtroppo per loro non commestibile. L’animale, infatti, è privo di apparato urinario, cosa che fa sì che nelle sue carni sia accumulano tossine, tra le quali la trimetilammina-N-ossido, velenosa per l’uomo. In qualche modo però si accorsero che se lo squalo veniva fatto fermentare e marcire sottoterra e poi affumicato ed essiccato, diventava commestibile. Naturalmente non possiamo resistere al fascino di un piatto simile e decidiamo di provarlo anche noi: la carne bianca e gommosa non assomiglia a pesce, ma a qualcosa di sintetico. Ha l’odore di un secchio di piscio di cane lasciato al sole in agosto, mentre in bocca sembra di avere dell’ammoniaca. A un passo dal vomitare, decidiamo che un solo assaggio è sufficiente. D’altra parte, se anche il mitico Andrew Zimmern di Orrori da Gustare l’ha definito il cibo peggiore da lui provato, vorrà pur dire qualcosa. Tradizionalmente piccole porzioni di questo piatto devono accompagnarsi a generose dosi di brennivín, la potente acquavite islandese nota anche come Morte Nera (e pensare che per ottant’anni, fino al 1989, l’alcol è stato completamente proibito in questo paese!) Ne capiamo perfettamente il motivo. Ma l’hákarl non è l’unica attrattiva di quest’isola. Seguiamo il sentiero che dal porticciolo ci conduce sulla sommità della collina, dalla quale godiamo di un panorama unico. Una volta arrivati in vetta, dei cartelli ci avvertono che in questo luogo convergono i flussi di energia cosmica che attraversano il globo e che pertanto stare qui fa molto bene, e dona pace. Sul fatto che questo santuario naturale sia rilassante, mi sento di confermare, ma sulle sue presunte proprietà salutari temo che influisca negativamente il vento gelido che sferza la collina e che dopo un po’ ci costringe a scendere. Ritorniamo sulla terraferma e concludiamo la giornata con una sosta all’antica fattoria di torba di Laufás e godendoci il resto della serata ad Akureyri, che domani dovremo salutare. AkureyriCaratteristiche case islandesi in legno e lamieraSegnavia di pietreCentrale geotermicaDimmuborgir, la Fortezza OscuraForesta di betulle ad ÁsbyrgiGrjótagjáIl canyon ÁsbyrgiIl chiosco di hot dog ad Akureyri Il luogo della fontana di energia sull’isola di HríseyL’area geotermica di Námafjall HverirModerno arpione per balene al Museo di HúsavíkReparto gomitoli di lana in una stazione di servizioStrutture per essiccare il pesce a HríseyUno pseudocratere al lago MývatnHengifossPuffin a BorgarfjarðarhöfnLitlanesfossDoppio arcobalenoVecchie case ad Akureyri All photos by Gabriele Levantini (Islanda, 2016) Share Tweet Share... Read more...Islanda: isola di fuoco e ghiaccio (pt. 1), un articolo di G. Levantini || THREEvial Pursuit16 Novembre 2020Islanda: isola di fuoco e ghiaccio Il Cerchio d’Oro di Gabriele Levantini Quando ero piccolo sognavo di poter vedere tutto il mondo. Forse a causa dei racconti di vita di navigazione che mi faceva mio nonno, marittimo d lungo corso, o forse perché amavo leggere e guardare documentari in televisione. Tra i luoghi che più di altri mi hanno affascinato da sempre c’è l’Islanda. Ebbene, nel 2016 ho avuto la fortuna di poter visitare questo splendido paese in un viaggio di poco meno di due settimane, insieme ad Anna, la mia compagna di quei tempi. Il nostro fu un viaggio on the road di 4.213 km, lungo la mitica Þjóðvegur, la Circular Road che percorre l’intera isola artica. È una fredda e piovosa notte d’agosto quando, dopo un tremolante sorvolo del Mare del Nord e dell’Atlantico Settentrionale, atterriamo all’aeroporto di Keflavík. Il vento porta dal mare fini goccioline d’acqua gelida. Nonostante le nuvole, il cielo mostra un pallore simile a quello che assume da noi poco prima dell’alba: è buio, ma non un buio profondo come uno s’aspetterebbe a quell’ora. Questo è il nostro primo impatto con le luci e il meteo islandesi, che non smetteranno di stupirci per tutto il viaggio. Ritiriamo il fuoristrada che avevamo noleggiato e per un attimo ci sembra di aver sbagliato aereo e di essere finiti in America: stradine con villette a schiera in legno e giardini d’erba rasata senza recinzioni, con grandi pick-up parcheggiati. Riflettendoci bene però tutto torna: siamo più vicini al Canada che all’Europa e geograficamente ci troviamo sulla placca continentale americana. Non senza fatica, troviamo la strada e arriviamo finalmente al nostro albergo. In Islanda c’è un modo di dire: “se non ti piace il tempo, aspetta cinque minuti”. È vero: si passa dal piumino alla t-shirt nel giro di decine di minuti e dalla pioggia gelata al sole battente in uno schiocco di dita. Tundra (Islanda, 2016) La mattina seguente, infatti, il paesaggio ha assunto tutto un altro aspetto: il sole splende forte sul mare scuro in lontananza. I gabbiani volano in cielo lentamente e il vento è più gentile e meno freddo. Il nostro primo impatto con la vita in questa terra selvaggia e remota ha il sapore di una colazione a base di skyr, salmone e aringa. Difficile, ma se vogliamo, di una semplicità a suo modo poetica. Devo confessare che il mio istintivo rifiuto latino per questa alimentazione nordica finirà in pochissimi giorni. Anzi: al mio rientro in Italia, forse per nostalgia, proverò a lungo a cercare gli ingredienti giusti per riprodurre quei sapori. Purtroppo senza successo. Partiamo di buon’ora, verso sud-est, seguendo il più classico dei percorsi: percorreremo la Þjóðvegur in senso antiorario, cominciando dal cosiddetto Gullni hringurinn, il Cerchio d’Oro: l’area di più antico popolamento e di maggior richiamo turistico, nella parte meridionale dell’isola. L’itinerario della giornata si snoda tra la penisola di Reykjanes (regione del Suðurnes) e la regione di Suðurland. In breve tempo rimpiangiamo la cartellonistica stradale italiana che, sebbene inutilmente complessa e ridondante, è chiara e minimalista rispetto a quella islandese che ci costringe in più d’un occasione a fermarci per cercare di interpretare i cartelli. Nonostante questo, viaggiamo senza problemi godendoci i paesaggi grandiosi dove l’impatto antropico è minimo e la scarsità di altri esseri umani in giro. La nostra prima sosta è Hveragerði, paesino di poche anime noto come “Villaggio dei Fiori”, sito in mezzo a un’area geotermica. Potrebbe benissimo essere scambiato per un angolo di remota provincia agricola americana se non fosse per la terra scura che fumae e dentro la quale tradizionalmente viene preparato il hverabrauð, o lava bread, un pane nero molto aromatico. In quest’area la natura è come una chioccia benevola che riscalda col suo ventre le proprie creature: anche le serre dove nascono i pomodori islandesi, molto presenti in questa zona, sono riscaldate con il calore del suolo. Un’eccezione di abbondanza per un paese dall’inverno lungo e buio, in cui gelate e carestie erano le prime cause di morte fino a pochi decenni fa. Proseguiamo attraversando Selfoss, villaggio sulle turbolente rive del fiume Ölfusá, uno dei principali del paese. Ci fermiamo brevemente ad ammirare l’acqua scura che gorgheggia nelle anse del suo percorso, lambendo la chiesa del paese prima di ripartire per il mare. Piano cottura geotermico per preparare il hverabrauð (lava bread) ad Hveragerði (Islanda, 2016) Ripartiamo alla volta del Parco Nazionale di Þingvellir. Parcheggiamo in un ampio sterrato e, dopo un’area boscosa, troviamo una pianura attraversata da rigoli d’acqua. La attraversiamo giungendo a una salita che si insinua tra le rocce. Piano piano si delineano due pareti che formano una sorta di canyon, e che non sono altro che il punto di frattura tra la placca continentale americana e quella euroasiatica. In questo luogo magico, ricco di grotte, profonde spaccature che si aprono nel suolo all’improvviso e rocce acuminate che ti osservano dall’alto, si riuniva un tempo l’Alþingi, antico parlamento vichingo. La vista da quassù è mozzafiato, ma dobbiamo proseguire. Tornati in auto, attraversiamo un’ampia zona agricola e poi entriamo nella valle di Þjórsárdalur. Il terreno è coperto da spessi muschi e licheni e attraversato da fiumi che si dividevano in mille rigoli, col vulcano Hekla a incombere in lontananza. Proseguendo, incontriamo Skálholt, antichissima sede episcopale, tanto ricca di storia quanto povera di reperti originali, caratteristica che –scopriremo – accomuna un po’ tutti i siti storici d’Islanda. D’altra parte, non si viene in questo paese per l’arte e per la storia, ma per una natura tra le più pure e primordiali di tutto l’emisfero settentrionale. Più avanti sulla strada, ci fermiamo ad ammirare Gullfoss, il cui nome significa “Cascata d’Oro”. È uno dei più spettacolari monumenti naturali del Cerchio d’Oro per la sua dimensione e perché costituita da ben due salti. Successivamente visitiamo l’area geotermale di Haukadalur, con i mitici geysers di Geysir (da cui deriva il termine stesso di geyser) e Strokkur. Lo spettacolo di questi mostri ruggenti ci mostra la forza terribile che ribolle e fuma sotto i nostri piedi. In questa località ci fermiamo in un ristorante, intenzionati ad assaggiare un po’ di cucina locale. Nel menù non mancano piatti insoliti per noi, introvabili a casa, ma inutile dire che il più particolare di tutti è senza dubbio la carne di balena. Prima di partire ci eravamo documentati bene su questo argomento così controverso e avevamo scoperto che il problema è molto più complesso di come viene rappresentato. Diversamente dagli altri “paesi balenieri”, come si può leggere sul sito del governo, l’Islanda pesca solo due tipologie di balena, che non sono minacciate di estinzione – la balenottera comune (hvalur) e la balenottera minore (hrefna) – in quantità molto limitata e quindi, a parer loro, sostenibile. Questa attività risale al tempo dei Vichinghi e non è mai cessata: il paese, infatti, si è sempre rifiutato di firmare la moratoria internazionale, forte della sua storia millenaria, diversamente ad esempio dal Giappone. La loro idea si può riassumere più o meno così: “Che siano gli altri a fermare l’attività, quelli che sono arrivati dopo e l’hanno praticata in modo indiscriminato rendendola insostenibile, non noi che la eseguiamo con misura ed equilibrio in modo sostenibile da un millennio!” Il geyser Strokkur in eruzione (Islanda 2016) Non tutti, naturalmente, la pensano così e, nonostante la carne di balena sia facilmente reperibile nei supermercati e nei negozi, viene mangiata dagli islandesi sempre meno spesso. Esiste però una cosa capace di mettere d’accordo sia i sostenitori che detrattori di questa pratica: la profonda convinzione che si tratti di un argomento esclusivamente nazionale, nel quale gli stranieri non devono intromettersi per nessun motivo, indipendentemente da come la pensino. Ad ogni modo, decidiamo di fidarci del governo islandese e ordiniamo una bistecca di balena “sostenibile”. È al sangue e sembra manzo, ma con un leggero retrogusto di tonno: la trovo buonissima. La nostra giornata termina infine, dopo un buon tratto di strada, a Laugarvatn, paesino sulle rive di un lago nel quale sgorga una sorgente termale bollente. Dormiamo in un Edda hotel, un’altra stranezza di questo paese: una scuola che d’estate, quando gli studenti tornano ai loro villaggi, diventa albergo. La mattina seguente facciamo colazione nell’ampio refettorio insieme ad altri turisti provenienti da ogni parte del mondo. Ci colpisce l’esiguo numero di nostri connazionali, che forse preferiscono mete più confortevoli di questa. Ripartiamo di buon’ora fermandoci al primo distributore di carburante: non sono molti, perciò è bene approfittarne quando si incontrano. In Islanda non esiste più il lavoro di benzinaio perché le pompe di carburante sono esclusivamente automatiche, ma ognuna di loro ha un piccolo emporio-ristorante. Vendono immancabilmente zuppe calde squisite, hot dog di pecora, snack confezionati, articoli per il camping, libri e gomitoli di lana. Il loro inventario è un ottimo indicatore della vita sociale di questa solitaria e rilassata isola artica. In un supermercato acquistiamo anche il súr hvalur, tradizionale grasso di balena marinato nel latte acido, che conquista subito il titolo di cibo più cattivo mai provato. Per il momento almeno, perché il titolo sarà riassegnato prima che il viaggio finisca. Attraversiamo ampie aree dove non si incontrano i segni deleteri degli esseri umani, fermandoci ogni tanto per osservare da qualche punto panoramico. Passiamo il villaggio di Hella e l’insediamento di Keldur con le sue interessanti torfbæir, le case di torba e legno, col tetto coperto di erba. Questo materiale naturale, qui abbondante, era un eccellente isolante e consentiva di risparmiare prezioso legname. Infatti, l’Islanda è quasi priva di alberi fin dall’XI secolo, quando fu disboscata dai Vichinghi al fine di sfruttarne il legno. Ignoravano che a queste latitudini la ricrescita delle foreste sarebbe stata molto più lenta e difficile che in Norvegia. Negli ultimi anni il governo sta conducendo grandi sforzi per tentare di rimboschire il paese, e anche se oggi qualche rara foresta si trova, la strada per tornare alle coperture originali è ancora molto lunga. Gullfoss, la Cascata d’Oro (Islanda 2016) Scendiamo fino al porticciolo di Landeyjahöfn, dal quale abbiamo una bellissima vista sulle isole Vestmannaeyjar, dal quale iniziò la colonizzazione del paese. Davvero incredibile pensare che nel 1627 i corsari saraceni arrivarono fino qui, mettendo a ferro e fuoco queste isole. Ci rimettiamo in marcia, la prossima tappa è la cascata di Skógafoss: un immenso muro d’acqua che salta giù ruggendo da una montagna, avvolgendosi d’una fitta nebbia d’arcobaleni e di sottilissima pioggia. Questa volta il paesaggio cambia in fretta perché poco dopo troviamo l’estrema punta meridionale del ghiacciaio Sólheimajökull, dal quale spira un vento gelido e carico di nevischio. Proviamo ad avvicinarci a piedi, ma il meteo non è dei migliori perciò a un certo punto decidiamo di tornare indietro. Ci aspetta quella che sarà una delle più belle tappe di questo viaggio: Vík í Mýrdal, minuscolo villaggio con una bella chiesetta di legno che sulla sua sommità protegge le case e la spiaggia nera di Reynisfjara ai suoi piedi. Qui grandi faraglioni di roccia affilata sembrano guerrieri fantasy nel mare tempestoso. La spiaggia è circondata da un’alta scogliera di colonne basaltiche, che sfumano in un promontorio di arenaria. Una fitta vegetazione fiorita copre il suolo interrompendosi a un certo punto per far spazio a una sabbia fine e nerissima. I faraglioni sono sferzati da onde potenti, mentre un vento freddo mescola insieme i profumi dei fiori e quello del mare e sostiene il volo degli uccelli marini. Adesso ci aspetta un bel pezzo di strada desertica attraverso il Laufskalavarda, una distesa di detriti lavici che si alternano alla tundra. Lungo la strada ci fermiamo a vedere le Colonne di Kirkjugólf, nei pressi del villaggio di Kirkjubæjarklaustur, una formazione geologica che sembra il pavimento d’una chiesa. La campagna circostante è piena di formazioni rocciose, antichissimi tumuli e tradizionali segnavia: di fronte a un paesaggio del genere non stupisce affatto che metà degli islandesi creda negli Elfi. La sera ci fermiamo al Fosshotel Nupar, una costruzione in container nel bel mezzo della tundra. La pace e il silenzio dell’interminabile crepuscolo di mezzanotte, mentre siamo seduti sulla distesa di morbidi licheni davanti all’hotel completamente immersi nel nulla, è un’immagine che porterò sempre nel mio cuore. Il giorno seguente attraversiamo la vasta distesa dello Skeiðarársandur dove incontriamo gli imponenti resti di un grande ponte in acciaio distrutto dalla furia di un’inondazione nel 1996. Il deserto di sabbia e rocce (sandur) dove ci troviamo è il frutto della forza dei fiumi glaciali che nel corso dei secoli ogni primavera puntualmente sono scesi giù dai ghiacciai con cieca furia. È questa la regione più inospitale, pericolosa e disastrata del paese, dove la natura mostra la sua faccia cattiva: le alluvioni si susseguono e nell’ampio deserto umido sono talvolta presenti le sabbie mobili. La prima tappa della giornata è Svartifoss, una scenografica cascata che salta giù da un monte fatto di colonne di basalto, che sembrano canne d’organo di una immensa cattedrale. Per arrivare ad ammirarla dobbiamo attraversare un breve tratto di foresta, una piacevole anomalia nel paesaggio brullo. Ci rimettiamo in marcia, i ghiacciai ci osservano da lontano ormai da decine di chilometri, e ci dirigiamo verso la laguna glaciale di Fjallsárlón. È poco prima della più grande e nota laguna Jökulsárlon, che abbiamo deciso di scartare perché troppo frequentata. La Spiaggia dei Diamanti (Islanda 2016) Fermiamo l’auto nel parcheggio sterrato e ci rechiamo alla tenda che fa da “reception”, dove prenotiamo il giro del lago. Fuori è un freddo cane, ma dentro c’è un bel teporino e tè e caffè caldi in omaggio. Un ragazzo ci spiega i rischi di navigare in queste acque piene di piccoli iceberg e poi ci consegna una giacca termica pesantissima: servirà a farci galleggiare e a mantenerci vivi per un po’ se dovessimo cadere nelle acque gelide. Il tour in motoscafo è un’esperienza incredibile: ci sentiamo un po’ James Bond e un po’ McClure. Mostri di ghiaccio bianchi e azzurri galleggiano silenziosi sull’acqua torbida, gli passiamo vicino dirigendoci verso il fronte del ghiacciaio. Ed è qui che godiamo dello spettacolo solenne e terribile della bianca scogliera che brontola e scricchiola minacciosamente. Prima di tornare a riva, stacchiamo un pezzo di giaccio da succhiare: è l’acqua più pura mai assaggiata. Una volta sulla terraferma, ci spostiamo pochi chilometri a est per visitare la celebre Spiaggia dei Diamanti: una splendida distesa di sabbia nera dove il mare restituisce il ghiaccio che gli arriva dalle lagune glaciali. Dopo aver attraversato Höfn, cittadina portuale senza grandi attrazioni, ci dirigiamo verso l’interno, prima di cominciare l’esplorazione dei Fiordi Orientali, l’Austfirðir. Lungo la strada avvistiamo un piccolo branco di renne, comuni in questa regione, dove furono introdotte in passato. Il primo villaggio dei fiordi orientali che visitiamo è Djúpivogur,sulla frastagliata punta meridionale del fiordo Berufjörður. Vicino all’abitato si trova una laguna sula quale si sviluppa la bellissima spiaggia di Úlfseyjarsandur. Il secondo dove ci fermiamo è Seyðisfjörður, che è anche l’ultima sosta della giornata, e uno dei più bei paesini di tutta la regione. Infatti, qui si trova l’iconica chiesetta azzurra alla quale si arriva da un sentiero arcobaleno, e le casette di legno e lamiera affacciate sul mare sono spesso coperte da bei lavori di street art che non ti aspetteresti. Infine, stremati, arriviamo a Egilsstaðir, città industriale costruita negli anni ’40 sulle sponde del lago Lagarfljót, dove vive il mostro Lagarfljótsormur, variante locale di Nessie. In Islanda il folklore e le leggende sono argomenti serissimi e molto sentiti, e infatti il governo ha ritenuto di doversi pronunciare (positivamente) sull’esistenza del mostro. La cittadina non offre molto da vedere, ma è piuttosto viva per gli standard islandesi. Conta oltre duemila abitanti perciò, dopo giorni di scarsi contatti con gli altri esseri umani, ci sembra di essere giunti in una metropoli. C’è una festa popolare e, nonostante la grande stanchezza, ci uniamo volentieri ai locali che applaudono alle canzoni country in islandese. Area archeologica a SkálholtCampanelle all’ingresso del villaggio di DjúpivogurCarne di balena al supermercatoFesta a EgilsstaðirIl Fosshotel Nupar, struttura di container nella tundraIl luogo dove si riuniva l’Alþingi, il Parlamento vichingoPonte distrutto nel pericoloso Skeiðarársandur e in lontananza il fronte di un ghiacciaioLa cascata di SkógafossLa cascata di SvartifossLa laguna glaciale di FjallsárlónLa spiaggia di Úlfseyjarsandur, a DjúpivogurLa spiaggia nera di ReynisfjaraLaufskalavarda, distesa lavica coperta di licheniLe Colonne di KirkjugólfL’iconica chiesetta azzurra nel villaggio di SeyðisfjörðurPanorama del Parco Nazionale di ÞingvellirPecore islandesiRenne vicino a HöfnIl tremendo súr hvalurUna torfbæir (casa di torba) a Keldur All photos by Gabriele Levantini (Islanda, 2016) Share Tweet Share... Read more...Fishes Invasion || Intervista a Merioone, di G. Silvestrelli || THREEvial Pursuit11 Novembre 2020Fishes Invasion Branchie, sticker, pinne e poster. Intervista a Merioone di Giorgio Silvestrelli Fishes Invasion – Merioone (Roma, 2020) Nel mare magnum della street art, da diversi anni, è presente Merioone e il suo progetto artistico Fishes Invasion. Dopo una lunga ed estenuante battuta di pesca ha abboccato al nostro amo. Una volta liberato, non poteva fare altro che rispondere alle nostre domande. Cosa accadrebbe se il Mondo fosse totalmente invaso dai pesci? Una domanda curiosa, ce ne rendiamo conto, ma nelle strade di sempre più città di tutto il pianeta stanno comparendo stickers e posters, dove dei buffi pesci ci ammoniscono al grido di “Don’t Sleep!” Abbiamo quindi intercettato lo street artist responsabile di quella che lui stesso definisce Fishes Invasion e che risponde al nome di Merioone. Caduto nella nostra rete ecco quello che ci ha raccontato in questa intervista esclusiva. Giorgio Silvestrelli: Merio ciao, che piacere conoscerti! Vuoi presentarti e dirci cosa fai? Merioone: Ciao! Piacere mio! Sono Merio, Merio One o Merioone. Potete chiamarmi come preferite. Ho smesso di incollare figurine sugli album nel 2011, per poi iniziare nel 2015, per strada, con un pesce. GS: Iniziamo subito con le domande importanti: hai un acquario in casa o in studio? M: Sì, da ormai tre settimane ho un nuovo amico, un pesce rosso di nome Boris. Lui è diventato la nuova mascotte, e il nome è stato scelto dai miei follower di Instagram. Anche quando ero piccolo ho avuto dei pesciolini, ma purtroppo li ho uccisi tutti dandogli troppo da mangiare. Pensavo fossero come me… Ora, però, con Boris sto cercando di non commettere gli stessi errori. Fishes Invasion – Merioone (Berlino, 2020) GS: Mangi pesce? Qual è il tuo piatto preferito? M: Diciamo che non sono amante del pesce. Mangio solo crostacei e molluschi, soprattutto gamberi e cozze. Se devo scegliere cosa mangiare preferisco latte e cereali o supplì. GS: Ho voluto rompere il ghiaccio in questo modo perché, adesso, puoi spiegarci meglio cos’è Fishes Invasion. M: Fishes Invasion, tradotto in italiano, è un’invasione di pesci, nel mio caso, soprattutto sotto forma di adesivi o poster. Ti direi che ormai, è come una malattia, un qualcosa che fa parte di me, incurabile, che mi spinge ad andare in giro attaccando pesci. GS: Il pesce che realizzi ha un nome? Raccontaci la genesi di questo soggetto che ormai è diventato il tuo “partner in crime”. M: Il mio “partner in crime” ha il passaporto americano, nato a New York nel 2015. Beato lui, aggiungo! Non gli ho mai dato un nome, forse avrei dovuto farlo quando ho disegnato il primo. Ma in realtà, per me, non è un solo pesce, sono tanti pesci. Ogni adesivo, ogni poster, ogni applicazione dà vita a un pesce nuovo. È come se fossero tutti figli miei, alcuni li rivedrai, altri andranno a vivere in altre città del mondo, e non avrai più loro notizie. Mi piace pensarla così, e sarebbero troppi i nomi da non riuscire a ricordarli!Spesso sono le persone a dargli un nome: “il pesce incazzato”, “il pesce che balla”, ”il pesce con i labbroni”. Preferisco così, è divertente. GS: Quando ti sei avvicinato alla street art? M: Guarda, non so se io mi ci sia mai avvicinato realmente. Ho iniziato non conoscendo molto il “settore”, e il mondo degli sticker e poster. Ho sempre visto il mio modo di pensare e di portare avanti questo progetto più vicino al mondo dei graffiti che sono stati “il mio primo amore”. Ancora oggi mi fa più effetto trovarmi davanti una serranda, una vagone della metro, o qualsiasi altra cosa coperta di tag o throw up che un muro enorme dipinto su commissione, per intenderci.In ogni caso, inevitabilmente, quello che faccio fa parte di un ramo della street art, anche se non amo avere un’etichetta, quindi ti dirò che ho cominciato ad avvicinarmi, o meglio, a capire che questo faceva parte della street art, solo un anno dopo aver attaccato il mio primo sticker. Mentre con i graffiti ho iniziato più o meno a 13 anni. GS: La definizione di street art è abbastanza “liquida” e spesso viene interpretata da persona a persona in maniera molto differente. Quindi, per te, che cos’è la street art? M: Per me la street art è tutto quello che sta per strada, senza permessi, senza nulla. GS: Da dove prendi ispirazione per i tuoi lavori? M: L’ispirazione per me può venire da tutto. Qualsiasi cosa mi trovo davanti durante il giorno mi regala nuove idee. Alcune le elaboro subito, altre le immagazzino.Sicuramente viaggiare è al primo posto. Vedere nuovi luoghi, scoprire culture è la cosa migliore per cercare ispirazione. Non c’è mai stato un viaggio che non mi abbia dato indietro qualcosa. Questo è un momento un po’ complicato per farlo quindi entra in gioco quello di cui ti parlavo prima. Mi piace osservare di tutto, dallo sport alla moda. Fishes Invasion – Merioone (Hong Kong, 2018) GS: Ci sono degli artisti che hanno influenzato in maniera determinante il tuo percorso? M: Senza alcun dubbio Keith Haring! Più per il suo pensiero e per il modo di fare che per le sue opere. Lui da sempre, prima anche di iniziare a pensare che avrei fatto qualcosa per strada.Ci sono poi delle influenze che ho avuto durante questi cinque anni di “invasioni”. Mi piace rivedere altri sticker artist in ogni posto in cui vado. La loro attitudine mi stimola a fare ancora meglio. È come se fosse una competizione, ma nel senso positivo del termine. Ci tengo a nominare la città di Madrid, che reputo uno step importante per il mio percorso. Una metropoli che mi ha dato una visione diversa. Della serie: “posso volare”. Per “volare” intendo attaccare più in alto di quanto facessi prima di andare in Spagna. Ecco, questo è un luogo che consiglio a chiunque ami fare sticker e poster art. Se sei in compagnia delle persone giuste è sicuramente come andare a “scuola”. GS: Gli sticker che vediamo in molte parti del mondo li hai attaccati tu stesso oppure, come spesso succede per altri sticker artist, sono i tuoi fan e amici che lo fanno al posto tuo? M: È molto raro che io dia i miei adesivi a qualcuno per farmeli attaccare. Quando lo faccio è sicuramente dopo aver dato mille raccomandazioni. Ho una visione tutta mia su questo argomento. Non mi interessa avere due o tre adesivi in una città, sarebbe come non averne! Se devo essere presente, devo esserlo veramente. Rispetto chiunque per strada, e questa è una cosa a cui tengo particolarmente.Se facessi attaccare i miei sticker ad altri quasi sicuramente ci sarebbe il rischio che il mio adesivo copra un altro artista, un tag, uno stencil o qualsiasi altra cosa… Quindi preferisco fare da solo. Fishes Invasion – Merioone (Rio de Janiero, 2020) GS: La tua identità resta celata nel mistero. Perché? Quali sono i punti di forza e di debolezza nel non voler rivelare il proprio nome e cognome? M: In realtà non c’è un vero motivo, o meglio, è per il fatto che ciò che faccio è reputato illegale. Non ho iniziato pensando alla mia identità e a tutto il resto, l’ho fatto non pensando proprio. Ho incominciato tutto aprendo semplicemente un profilo Instagram con le mie foto. Queste domande poi me le sono fatte ma dopo.Quando sono per strada sono Merioone e, una volta finito, ritorno alla mia vera identità, tipo i supereroi. Con l’unica differenza che io non salvo nessuno. GS: Cosa pensi della street art legale (murales, festival, ecc.) e della sua parte illegale (poster, stencil, ecc.)? M: Ben venga la street art legale, e i rispettivi festival, se organizzati in un certo modo, e con la voglia di portare qualcosa di nuovo. Secondo me però le nottate, l’adrenalina e tutto quello che ti può dare l’azione “illegale” sono un’altra cosa. GS: Tu hai sempre lavorato in maniera illegale oppure no? M: Tranne pochi casi, sì. Non per una mia decisione “etica”. Sono aperto a tutto, o meglio, a tutto quello che mi piace e trovo interessante. GS: Dopo cinque anni di attività era il momento di festeggiare. Ci vuoi raccontare come lo hai fatto? Parlaci di Fishes Invasion – Fish Market Pop Up Store. M: Stiamo diventando vecchi… Cercherò di essere breve, anche se è un progetto che ha richiesto molto tempo e grandi sforzi, visto anche il difficile periodo in cui viviamo.Tutto parte dalla voglia di fare qualcosa a Roma, e da una delle tantissime telefonate che ho avuto con un mio grande amico, Davide Rossi Doria (artista e designer, ndr). L’idea originale è nata molto tempo prima. Questa, come tantissime altre, non sono mai state abbandonate ma semplicemente messe in stand by.Dopo averne vagliato le possibilità e la fattibilità abbiamo deciso quale idea ripescare. Dopo di che abbiamo iniziato a sfornare altre idee a raffica che bene si adattassero al concept. Credo che alla fine siamo riusciti a immaginare qualcosa di originale. Spesso non è facile lavorare su un progetto quando è troppo personale oppure non ci sei dentro a pieno. Devo ammettere che Davide è forse l’unica persona con cui riesco a collaborare. Credo che sia l’unico a cui direi: «Tieni, questo è il pesce. Fanne quello che vuoi». Penso che il rapporto che abbiamo sia stato fondamentale per portare a termine questo progetto nel migliore dei modi.L’obiettivo di Fish Market era quello di aprire un pop up store, ma con un’idea di fondo. La pescheria, visto il soggetto dei miei sticker, era il modo più giusto per poter “vendere il pesce”. Ho preso spunti girando in varie pescherie e sfruttando le mie ultime invasioni in città marinare come Genova e Catania. Abbiamo cercato di curare tutto nei minimi particolari, cercando di dare l’experience da vera pescheria, compreso l’odore di pesce all’interno dello store.Lo studio del concept prevedeva non sono l’allestimento del posto, ma anche i design delle t-shirt e degli altri gadget, partendo dal packaging fino al motivo che ci spingeva nel realizzare quell’oggetto.Alla fine sono molto soddisfatto della riuscita di Fish Market. Abbiamo raggiunto i 300 ingressi, e la cosa più importante è stata avere un contatto con la città e con persone che ti supportano da sempre. Colgo l’occasione per ringraziare tutti ancora una volta! GS: Sempre più spesso la street art entra nei luoghi istituzionalizzati (musei, gallerie, ecc…) tu che ne pensi al riguardo? M: Sono favorevole ma l’importante è che resti anche fuori da questi luoghi. Naturalmente qualcosa che non mi convince a riguardo c’è. Ma, basandosi sulla mia piccola esperienza personale, ti dico che con le gallerie con cui ho collaborato ho avuto solo esperienze positive. GS: Pur essendo una persona che ama viaggiare sembri molto legato alla tua città natale, Roma. Che rapporto hai con la Città Eterna? M: Roma è sempre Roma. Potrei stare un mese in giro per il Sud America, ma poi sentirei la necessità di tornare lì almeno per due settimane. Di Roma cambierei tante cose. Sicuramente è una città dove, almeno io, ogni tanto mi sento “soffocare”. È la città più bella del mondo sotto alcuni punti di vista, parlo sul serio, e sarebbe bello se lo fosse anche per molti altri motivi. Fishes Invasion – Merioone (New York, 2016) GS: Quale città tra quelle in cui ancora non sei stato ti piacerebbe visitare? E perché? M: Eh, La lista è ancora lunga. Forse ci vorrebbero tre vite per vedere tutte le città che ho nella mia testa. Sicuramente vorrei continuare a visitare l’Asia, soprattutto conoscere meglio il Giappone. Però credo che, appena sarà possibile, andrò in California e a Miami. Questi due luoghi sono un chiodo fisso da qualche anno e penso siano “tappe fondamentali”. GS: Che rapporto hai con i social network? Sempre più spesso la street art viaggia sulla rete. Tu cosa ne pensi? Che idea ti sei fatto? M: Amo i social network! Credo che chiunque, e ti parlo solo del mondo “artistico”, non usi i social ai giorni d’oggi, sbagli. Esistono varie modalità di utilizzo e, se si sceglie quella corretta, possono essere un mezzo potentissimo. Restando nel mondo della street art, non sopporto quelli che definisco “star da Instagram”. Diecimila, ventimila o cinquantamila follower, ma poi per strada il nulla. Sto parlando di street art legale e illegale. Credo che i social dovrebbero essere un plus e un supporto a quello che è la produzione di ogni artista. Io la vedo così. GS: Hai un sogno nel cassetto? M: Per ora, nel cassetto, ho solo gli adesivi. GS: C’è qualche cosa che vorresti raccontarci ma che nessuno ti ha mai chiesto? M: Un giorno mi piacerebbe parlare dei miei viaggi in giro per il mondo e delle mie esperienze personali. Senza essere considerato “fico” perché attacco pesci in giro. Vorrei che le persone capissero, attraverso i miei racconti, quanto viaggiare ti possa arricchire e regalare esperienze uniche. Credo che ne uscirebbe qualcosa d’interessante. GS: Hai un messaggio per i nostri lettori? M: Ci vediamo per strada!Grazie infinite Marioone. La redazione ricorda che nessun pesce o street artist è stato maltrattato nella realizzazione di questa intervista. Fishes Invasion – Merioone (Budapest, 2019) Fishes Invasion – Merioone (Catania, 2020)Fishes Invasion – Merioone (Dublino, 2019)Fishes Invasion – Merioone (Lima, 2019)Fishes Invasion – Merioone (Praga, 2019) All photos by Merione Share Tweet Share... Read more...L’infinito viaggiare, un articolo di R. Cipro || THREEvial Pursuit4 Novembre 2020L’infinito viaggiare di Rossella Cipro La livraria Lello di Porto, descritta ne L’infinito viaggiare di Claudio Magris Non vedevo l’ora. Finalmente posso tirar fuori la valigia e partire. Si fa per dire, intendiamoci. Esistono diversi modi per viaggiare e uno di questi è mettersi comodi, aprire un libro e iniziare a leggere. Si può contenere il mondo intero poggiandolo ordinatamente sugli scaffali di una biblioteca, museo del tempo e dello spazio. Basta scegliere un titolo per finire con Giona nel ventre della balena o a far compagnia al dottor Faustus. C’è qualcosa nel viaggiare che lega e attrae da tempo immemore i sogni e i desideri degli uomini. Dall’Iliade di Omero al Milione di Marco Polo, dalla Divina Commedia di Dante al Viaggio al Centro della Terra di Jules Verne, da I viaggi di Gulliver di Swiftai Viaggi in Portogallo di Saramago. Libri di storie, storie di viaggi, viaggi pieni di avventure, imprevisti e dure prove da affrontare; pieni di svolte, cambiamenti e ritorni. Un infinito viaggiare. È questo il titolo a cui volevo arrivare e sul quale mi voglio soffermare: L’infinito viaggiare di Claudio Magris. Soffermarsi, sostare, è parte dello spostarsi, ma non tutti gli spostamenti sono viaggiare. Etimologicamente parlando, la parola viaggiare (dal provenzale viatge, a sua volta dal latino viaticum, it. viatico, viaggio) non definiva una direzione geografica, mastava a designare l’insieme degli oggetti che ci si portava dietro quando si andava da qualche parte: cibo, vestiti e soldi. Ergo il viaggio, così come lo intendiamo oggi non può prescindere da un bagaglio, sia esso fisico o mentale e quindi composto di memorie, attimi, scoperte, sensazioni ed esperienze, ma anche di oggetti, luoghi, incontri con l’altro e, quando il viaggio avviene in un certo modo, con se stessi. La valigia è l’oggetto essenziale a chi per un motivo o per un altro sceglie di partire. Solo il viaggiatore può sapere il perché della sua decisione, del suo andare da un luogo all’altro, ma spesso egli lo conosce appena. È solo alla fine, dopo tanto errare, che la ragione di questo viaggio diventa chiara, lampante, adamantina. Per questo gli serve la valigia, perché durante il percorso egli non può evitare di raccogliere tracce, portarsi via oggetti, comporre un puzzle, il quale si delinea sempre meglio man mano che il viaggio vi aggiunge pezzi ogni volta diversi di luoghi e momenti distanti e distinti. L’attenta deduzione lo porta finalmente alla rivelazione, all’incontro con se stesso. Ma come? Non si era mai incontrato? Magari sì, ma non si era mai visto davvero. Spesso l’attenzione e la cura che riserviamo a noi stessi si limita alla superficie, alla parte che mettiamo a disposizione per gli altri, a una di quelle centomila sfumature della nostra persona che sentiamo convergere in nessuna e così si finisce per credere di non esistere se non attraverso gli occhi di chi ci osserva. Ritrovarsi è sempre una nuova scoperta, soprattutto perché il viaggiatore aveva dato per scontato che si sarebbe perso. Invece, è lì che si restituisce lo sguardo attraverso lo specchio sporco di quel vagone barcollante che lo riporta, infine, verso casa. Una fine che è sempre un nuovo inizio. Perdonerete questo preambolo poiché in fondo, come scrive Magris nella Prefazione al suo L’infinito viaggiare, “il viaggio – nel mondo e sulla carta – è di per sé un continuo preambolo, un preludio a qualcosa che deve sempre ancora venire e sta sempre ancora dietro l’angolo. La prefazione è una specie di valigia (…) e quest’ultima fa parte del viaggio”. Se uno ci pensa, viaggiare è un po’ come scrivere; è attraversare luoghi della memoria, prossima o lontana; è incontrare volti e gesti e oggetti. Scrivere di un viaggio è scrivere di un particolare momento nel tempo, in un particolare posto del mondo, di un posto che resta e di un momento che è fugace, che mentre viene vissuto è già passato. La scrittura di viaggio è allora scrittura del tempo, del ricordo, della rielaborazione di quelle memorie che si sono guadagnate un posto nell’archivio a lungo termine della nostra rete di connessioni sinaptiche. Ma allo stesso tempo viaggiare è riscrivere le proprie convinzioni, ridipingere una parete, aggiungere alla propria vita un quadro, un libro, una storia, una lingua che è una cultura. Viaggiare crea immagini e ricordi, visioni e vividi scorci di paesaggi lontani, istantanee vissute e sviluppate sotto forma di storia, romanzo, racconto. La scrittura fissa l’accaduto e lo conserva. “Questo libro”, scrive Magris sempre nella Prefazione, “è fatto di pagine legate al momento in cui è avvenuto il viaggio, in cui si è attraversata una frontiera o uno Stato che magari non esistono più”. Pagine fresche di sensazioni e rilassata immediatezza. Il viaggio e la scrittura camminano fianco a fianco, l’uno pausa dell’altra, si contengono e si sostengono, riuscendo a creare in chi legge la sensazione di essere trasportati senza peso in quel luogo e in quel momento. Questi viaggi, vissuti e scritti fra il 1981 e il 2002, sono percorsi dell’anima, sentieri intricati di vite e racconti, esperienze e resoconti. Basta saltare in groppa al fedele Ronzinante e lasciarsi guidare sui passi di Don Chisciotte attraverso la Mancha, per poi risalire fino a Londra e scendere verso l’Istria, o puntare ad Est per immergersi nella Mitteleuropa, da Berlino ai sorbi di Lusazia passando ancora per il nord con una sosta al Cimitero nella foresta di Stoccolma. E da lì di nuovo verso oriente, dalla Cina al Vietnam e poi giù fino alla meta: il Grande Sud, la selvaggia, lontana e misteriosa Australia. Un viaggio che è fatto di attimi, musica, museo di possibilità. Il Cimitero nella foresta a Stoccolma, uno dei luoghi visitati da Magris ne L’infinito viaggiare Arriva un momento lungo il percorso in cui bisogna afferrare saldamente le briglie, tenere le redini e districarsi tra i futuri abortiti della storia – come li chiama Ernestina Pellegrini – quei futuri possibili che però non si sono realizzati. “Cecoslovacco o Ceco-slovacco?” ci si chiedeva negli anni ’90. Oggi sappiamo com’è andata, che si è optato per la scissione, ma ci sono variabili che avrebbero potuto cambiare il corso di quella vicenda e la sua soluzione. È di queste variabili che Magris fa tesoro perché sono queste che aiutano a leggere e comprendere un dato momento nella Storia, magari un momento di stallo, d’indecisione, di svolta, progresso o inversione. Ma non si può comprendere un certo evento storico se non attraverso gli occhi di un personaggio che ne ha fatto parte o del luogo in cui quella storia ha avuto origine. Quindi ecco che Magris ci presenta la croce di “Ludwig, l’infelice e impossibile sovrano di Baviera”, annegato in circostanze misteriose il 13 Giugno 1886 nel lago di Stanberg, vicino Monaco, insieme al suo medico, dottor Bernhard von Gudden; ci accompagna quindi nella stanza di Schönberg, rifugio del musicista in fuga dal nazismo, luogo armonioso come l’uomo che ci visse; ci invita a passeggiare tra l’equilibrio di natura e morte del Cimitero nella foresta dove la morte è uguaglianza, è superamento di ogni smarrimento. Ronzinante vacilla ma il viaggiatore non demorde, pensa però che la povera cavalcatura abbia bisogno di una pausa e quale luogo migliore di Jyväskylä, nel cuore dei laghi finlandesi, per fermarsi? Ma qui insieme alla libertà aleggia l’inquietudine, perché siamo nel 1990 e la storia della Finlandia arde ancora come un tizzone che fatica a esaurirsi, alimentato di qua dall’interesse europeo e di là dal richiamo sovietico. Non è questo il luogo per una lezione di storia della Finlandia, in cui entrerebbero in ballo troppe altre storie: dalla prima alla seconda guerra mondiale, e ancora indietro, troppo indietro, fino alla guerra russo-svedese del 1741 (e io vi consiglio di farvela raccontare da Alessandro Barbero che di storia militare ne sa sicuramente più di me). Ripartiamo e arriviamo a Nesset, sulla costa ovest della Norvegia, dopo aver ascoltato le storie dei giocattoli di Hoffman. Cambiamo rotta e siamo in Iran, avanziamo verso est: la grande Cina, il Vietnam e, infine, la meta. Il penitenziario di Port Arthur, Tasmania, descritto ne L’infinito viaggiare di Magris Ci lasciamo qui, sulle rive di Port Arthur, in Tasmania. No, non adesso. Siamo nel 1998, è di Giugno, l’oceano è bellissimo. In realtà Magris ci saluta a Hobart Town, la capitale della Tasmania, ma io voglio congedarmi da qui, da questo luogo che conserva memorie atroci, paradiso in terra testimone di morte e sofferenza. Il penitenziario di Port Arthur è ancora qui, testimone appunto di deportazioni forzate, di condanne crudeli, di torture, suicidi e morti d’innocenti. Qualsiasi reato, per quanto lieve, aveva una sola pena. “L’isola dei morti”, qui accanto, accoglie tutti quegli sfortunati “romanzi condensati di vite incredibili, turpi, violente” ma che hanno saputo resistere a situazioni che noi non possiamo neanche lontanamente immaginare. Perché qui? Perché su quest’altura di Port Arthur l’oceano s’infrange potente e da qui corre senza barriere fino all’Antartide. Non c’è assolutamente nulla in mezzo. La fine del mondo che conosciamo, l’inizio di un nuovo viaggio per il quale Ronzinante è ormai troppo stanco, meglio lasciarlo riposare. Share Tweet Share... Read more...Il Giardino delle parole, un articolo di C. Francioni || THREEvial Pursuit28 Ottobre 2020Il Giardino delle parole Non so più camminareUn racconto ispirato da Makoto Shinkai di Chiara Francioni Yukari e Takao sotto il gazebo nel parco di Shinjuku Gyoen (Il Giardino delle Parole, 2013) Le strade di Tokyo brulicano di passanti protetti da ombrelli lucidi e grondanti. Il cielo è per lo più grigio ma, di tanto in tanto, sbucano timidi raggi di sole facendo risplendere le pozzanghere. È giugno ed è appena iniziata la stagione delle piogge o, come la chiamiamo in Giappone, tsuyu. Il nome è curioso, ma non senza ragione, infatti le piogge si abbattono sul paese fino a luglio, dando il benvenuto all’estate e accompagnando la fase di maturazione delle prugne (anche se in realtà si tratta di una variante di albicocche). L’aria è umida, ma non fa freddo e non è raro imbattersi in fugaci arcobaleni e bambole teru teru bōzu appese alla grondaia da qualche bambino speranzoso, nel vano tentativo di scacciare il maltempo. Ci sono giorni, come oggi, in cui l’acqua cade ininterrottamente, inzuppa le scarpe, leviga le strade e scivola silenziosa tra i pensieri degli abitanti di questa città. Lo ammetto, non è il periodo dell’anno più indicato per trascorrere il tempo all’aperto oziando nei parchi puliti e curati della capitale. Eppure sono seduta qui, su una panchina del giardino di Shinjuku Gyoen riparata da questo enorme gazebo all’ombra di un pino imponente, e mi guardo intorno, cercando di capire che effetto abbia tutta questa pioggia su di me. A pochi metri si estende un laghetto che cattura nel suo riflesso i colori del mondo. Le fronde dei sempreverdi, appesantite dall’acqua piovana, ne accarezzano la superficie, mentre cerchi concentrici si formano allo stesso ritmo con cui cadono le gocce dal cielo. Tsuyu, o pioggia di prugne (Il Giardino delle Parole, 2013) Una volta amavo i giorni di pioggia, al punto da dimenticarmi l’ombrello ovunque andassi: a casa, a scuola, sui mezzi. L’idea di bagnarmi non mi preoccupava, perché avevo la convinzione che per quanta acqua potesse scivolarmi addosso, non avrei mai mostrato più di quello che tutti potevano già vedere. Erano gli anni in cui camminavo a testa alta, sorretta dalla forza dei sogni. Fin da ragazza non ho desiderato altro che diventare insegnante. Mi sembrava la professione giusta per chi, come me, amava la letteratura e la poesia. Il desiderio di trasmettere ai giovani il senso di appagamento che provavo nel perdermi tra parole forgiate dal sacro fuoco dell’arte era un impulso irresistibile. Per questo sono venuta fino a Tokyo, per questo ho studiato senza distrazioni. Quando ho cominciato la carriera di docente i ciliegi erano in fiore e il cortile dell’istituto, dove insegno tuttora, sembrava ai miei occhi ancora inesperti un passaggio fatato verso il regno della realizzazione. La brezza primaverile accarezzava i petali sgargianti e scompigliava gentilmente i miei capelli: mi sentivo leggera e carica di aspettative. Quel giorno decisi di cominciare la lezione, la mia prima lezione, leggendo i versi di un tanka a me molto caro fin dai tempi in cui io stessa ero una liceale e studiavo sullo libro di testo che i miei studenti avevano, adesso, appoggiato sui loro banchi. “Rombi di tuonoecheggiano tra le nuvolechissà, forse pioverà.Tu resterai con me?” Quella volta ho volutamente omesso l’epilogo del componimento, perché volevo che ognuno dei miei studenti avesse un’impressione personale della poesia e sviluppasse un’idea propria di quella che poteva esserne la conclusione. Tuttavia, nessuno di loro prese l’iniziativa, nessuno alzò la mano, nessuno dimostrò interesse per quelle parole che mi avevano, anni prima, trasformato in una adolescente sognante. Loro, i miei studenti, rimasero immobili e in silenzio. È alquanto strano starsene seduta qui senza sentire il cinguettio degli uccelli. Nei giorni di sole, il loro canto è incessante. Anche quando Hiroshi, che aveva sempre vissuti a Tokyo, mi portò al parco per la prima volta, quella melodia era lì a fare da sottofondo alle nostre effusioni impacciate. “Shinjuku Gyoen è un luogo magico” aveva detto lui, probabilmente per fare colpo, “qui la natura si riprende i suoi spazi e si trova la pace”. Però aveva ragione e suppongo sia questo il motivo per cui oggi sono venuta qui, anche se piove e gli uccelli se ne stanno zitti. Per cercare la pace. Non saprei dire quando ho iniziato ad avere paura. Semplicemente è successo. Quando ho realizzato quello che mi stava accadendo, ormai il processo era già cominciato da tempo: ogni nuovo giorno era peggio di quello precedente e la tendenza sembrava irreversibile. Avevo smesso di dimenticare l’ombrello perché la pioggia era diventata mia nemica: poteva smascherarmi, lavare via il trucco e mettere a nudo le mie ansie. Anche il rapporto con Hiroshi ne risentì: non ci siamo lasciati male, abbiamo semplicemente preso atto che non c’era più un futuro per noi. Tanto che siamo rimasti, se così si può dire, amici. Il Giardino delle Parole di Makoto Shinkai A dire il vero, visto che in questa metropoli non conosco molte persone e siamo entrambi docenti nello stesso liceo, continuo a rivolgermi a lui quando ne ho bisogno, quando mi serve che qualcuno mi sproni, anche se finora non lo avevo ammesso neanche a me stessa. E stranamente a lui va bene. Dovrei chiedermi perché, ma non so se mi interessa davvero conoscere la risposta. Sono certa che avrà già provato a chiamarmi con l’intenzione di sgridarmi perché alla fine, anche oggi, non sono andata a lavoro e avrà dovuto fare i conti con la segreteria del mio cellulare. Non troverà nessuno nemmeno a casa visto che, a differenza dei giorni precedenti, invece di restarmene a letto in compagnia di vestiti non piegati da settimane, sono venuta qui al parco, portando con me un paio di birre e qualche barretta di cioccolata per non restare a stomaco vuoto. La verità, ma la sappiamo solo io e il filo dei miei pensieri, è che quando mi sono svegliata, ho pensato che se mi fossi vestita di tutto punto e fossi uscita di casa, forse sarei davvero riuscita ad arrivare al liceo, a fingere che non mi costasse alcuna fatica entrare e salutare i colleghi e gli studenti. La solita ingenua! Così, adesso mi ritrovo qui, da sola, su questa panchina con indosso il tailleur e ai piedi un paio di tacchi. Mi sento stupida. Chissà cosa penserebbero i miei studenti se potessero vedermi? Probabilmente mi compatirebbero. Del resto non è che abbiano una buona idea della sottoscritta: ai loro occhi sono solo una poco di buono e una fallita. Ora che ci rifletto, mentre bevo il primo sorso di alcol della mattina, sarebbe facile dire che tutto è cominciato in quel momento, quando Ichisake, del terzo anno, ha detto in classe di avere una cotta per me. Il gruppo delle ragazze si è molto risentito e le voci che hanno messo in giro sul mio conto sono terribili. Sarebbe facile, appunto, dare la colpa al cinismo degli adolescenti, ma niente in questa vita è facile e di certo non è affatto facile trovare il bandolo della matassa infeltrita della mia decadenza. Quando i corridoi si sono riempiti di pettegolezzi amari, ero già corrotta. Non ho saputo reagire e ho lasciato che gli eventi mi sopraffacessero. È stata colpa della mia debolezza che attendeva, nascosta nell’ombra, da anni, forse da sempre. E così, giorno dopo giorno, le mie gambe si sono fatte più pesanti, i piedi più incerti, i muscoli più rigidi e la testa più vuota, finché mi sono scordata come si fa a camminare e sono rimasta bloccata, immobile, paralizzata in una stasi di timori e di confusione che non ho più alcuna voglia di combattere. Non sono venuta a Shinjuku Gyoen per cercare la pace, dopo tutto. Sono venuta qui per nascondermi. La pioggia non accenna a smettere, resterò seduta su questa panchina finché non cesserà, poi, forse qualcosa accadrà. Tu resterai con me? Yukari, protagonista de Il Giardino delle Parole Il Giardino delle Parole (Kotonoha no niwa) è un mediometraggio animato del 2013, prodotto da CoMix Wave Films e diretto da Makoto Shinkai, cineasta noto non solo in Giappone, ma anche in occidente, soprattutto grazie al successo mondiale ottenuto con Kimi No Wa (Your name). Lo stile di Shinkai è caratterizzato da un forte iperrealismo grafico che regala allo spettatore scorci carichi di dettagli e paesaggi mozzafiato, sormontati da cieli infiniti e variopinti. Sebbene l’elemento fantastico sia una costante nelle sue pellicole, ne Il Giardino delle Parole, Shinkai ci propone, al contrario, una storia tanto realistica quanto intima, fatta di speranze, timori ed epifanie. Questa storia vede protagonista, da un lato, Takao, uno studente al primo anno di liceo, maturo e determinato, il quale sogna di diventare un calzolaio per disegnare e creare scarpe che possano aiutare gli altri a camminare meglio e, dall’altro, Yukari, giovane docente di letteratura classica che si trova, invece, ad aver perso l’abilità di avanzare, arrancando sempre più nel baratro vischioso delle sue angosce. I due si incontrano per caso in un giorno di pioggia, sotto a un gazebo nel parco di Shinjuku Gyoen (un gazebo che esiste realmente, io ci sono stata, n.d.r.), dove Yukari si è rifugiata per sottrarsi alla minaccia della propria realtà e dove Takao si è recato per disegnare, indisturbato, sul proprio taccuino. Le vite di Yukari e Takao, grazie a questo fortuito incontro, finiranno con l’intrecciarsi per il breve, ma intenso, periodo di tempo che sarà loro necessario a capire cosa fare delle rispettive esistenze. Un film poetico e toccante, che si consuma nel tempo di un lungo sospiro. Pioggia di prugne Si tratta di bambole di stoffa o carta bianca che ricordano, nella forma, dei piccoli fantasmi e sono tradizionalmente considerati talismani per allontanare la pioggia. Sono sicura che ricorderete di averle viste in qualche anime, se non altro da bambini. In Giappone l’anno scolastico inizia ad aprile quando i numerosi ciliegi di Tokyo sono ancora coperti di sakura, i celebri fiori rosa che sono ormai diventati uno dei simboli del paese. Breve componimento in versi Share Tweet Share... Read more...Festa mobile: une génération perdue, un articolo di R. Cannarsa || THREEvial Pursuit21 Ottobre 2020Festa mobile: une génération perdue Del vivere in prima persona di Rocco Cannarsa Festa mobile è Parigi, una Parigi degli anni venti che si intreccia con la vita e col cuore smarrito di un giovane Hemingway e sua moglie Hadley. Non è solo questo: come spiega nell’introduzione Patrick Hemingway, secondo figlio di Ernest, la festa mobile è un modo di essere, è una parte di noi, una condizione che ci si porta dentro. Il libro è stato pubblicato postumo nel 1964. È un lavoro frutto di manoscritti precedenti integrati e scelti dalla quarta moglie Mary Walsh. Racconti, note di vita, ricordi costruiscono una storia che fa precipitare il lettore nella pienezza della vita cittadina. Mostri sacri come Hemingway stesso, Scott Fitzgerald, Ford Madox Ford, Ezra Pound, Gertrude Stein, sembrano non essere soltanto frutto del proprio talento ma dell’ambiente culturale parigino: quello dei caffè, quello di apertura, di interesse, di attenzione al confronto come attitudine, prerogativa dello stesso lavoro. Vediamo un circolo vivo e coeso, che dà origine a un continuo dialogo di crescita che contribuisce alla formazione degli artisti stessi. Leggere Festa mobile sotto questo unico punto di vista non è abbastanza. Lo si ridurrebbe alle peripezie di poveri artisti da strapazzo, si finirebbe banalizzandolo col ‘mainstream bohémien’ e tutto il resto. Il mio è quindi un invito alla (ri)lettura di questo libro approcciandocisi dimenticando, non senza difficoltà, che “possa essere” una biografia. “Ti ho visto, bellezza, e adesso tu mi appartieni chiunque sia che stai aspettando e anche non dovessi vederti più, pensavo. Tu mi appartieni e tutta Parigi mi appartiene e io appartengo a questo quaderno e a questa matita. Poi ripresi a scrivere e finii nel pieno della storia che si scriveva da sola e non alzai più gli occhi e neanche tenni più conto del tempo né pensai a dov’ero né ordinai altro rum St James. Ero stanco del rum St James anche senza pensarci. Poi finii il racconto ed ero molto stanco. Rilessi l’ultimo paragrafo e poi alzai gli occhi e cercai la ragazza e lei se n’era andata. Spero se ne sia andata con un uomo perbene, pensai. Ma mi sentivo triste. Chiusi la storia nel mio quaderno e lo misi nella tasca interna della giacca e chiesi al cameriere una dozzina di portugaises e una mezza caraffa del loro bianco secco. Quando finivo un racconto mi ritrovavo sempre vuoto e sia triste che felice, come se avessi fatto l’amore, ed ero sicuro che fosse un racconto molto buono anche se avrei saputo davvero quanto buono soltanto quando l’avessi riletto il giorno dopo”.Ernest Hemingway – ‘Un bel Café in Place St-Michel’, Festa Mobile. L’opera è buona quando supera in tutto e per tutto l’autore, nel senso di renderlo secondario, persino irrilevante. Banalizzando: una poesia è pur sempre una poesia a prescindere dall’autore e a prescindere dall’essere letta. Non va negato, però, che sia l’autore il motore dell’opera d’arte, l’artefice, appunto. Kant parla di “produzione mediante libertà”, perché l’atto del pensare-realizzare un’opera è fondamentalmente libero, per quanto a volte si parli di necessità dell’opera d’arte di esistere per sé stessa o, concetto cui allude lo stesso Hemingway (“finii nel pieno della storia che si scriveva da sola e non alzai più gli occhi e neanche tenni più conto del tempo né pensai a dov’ero né ordinai altro rum St James“), dell’inghiottire l’autore nel proprio flusso e al contrario relegarlo a mezzo per la propria realizzazione. Inoltre, un’opera non è neanche riducibile all’intenzione dell’autore perché la si renderebbe semplice strumento comunicativo, tagliandone fuori la componente immaginativo-interpretativa del fruitore, figurarsi l’utilità che avrebbe affiancarla alla biografia. La necessità di ricondurre avvenimenti narrati in prima persona alla vita privata dell’autore, è il segno che la storia non è abbastanza forte da aver taciuto questa naturale curiosità nella mente del lettore, non concedendogli di godere appieno dell’opera in quanto tale. Quel desiderio di alcuni lettori (e critici) di ricondurre romanzi, temi o scelte narrative a momenti biografici dell’autore è, per quanto mi riguarda, un tentativo di comprensione del processo creativo, per nulla rilevante ai fini dello “sviscerare” l’opera e comprenderla appieno. “Quando cominci a scrivere storie in prima persona, se le storie sono rese così reali che la gente ci crede, la gente che le legge quasi sempre pensa che le storie siano davvero successe a te. Questo è naturale perché quando le stavi inventando dovevi farle succedere alla persona che le stava raccontando. Se lo fai in modo sufficientemente efficace, accade che la persona che sta leggendo finisce col credere che le cose siano successe anche a lei. Se riesci a farlo stai cominciando a ottenere quello a cui miravi, cioè fare qualcosa che diventerà parte dell’esperienza del lettore e parte dei suoi ricordi”.Ernest Hemingway – ‘Dello scrivere in prima persona, Festa Mobile. Questa mezza pagina di Ernest Hemingway tratta da Dello scrivere in prima persona, uno degli scritti di Festa mobile, è sempre stata per me in tal senso illuminante. Si prendono di petto, con una inaudita semplicità, i temi di cui sopra e i loro possibili sviluppi, ad esempio quanto la scrittura possa essere verista. Nei dialoghi, nel modo di parlare. Un caro amico cerca instancabilmente di convincermi che lo scrivere sia mediare la realtà con la finzione (e viceversa). Io non sono mai riuscito ad accettarlo, pensando che la scrittura, quella vera, funzioni quanto più si avvicini alla realtà. Una scrittura onesta, come direbbe Hemingway, magari anche banale come la realtà stessa. L’esempio con cui il mio amico giustifica la tesi è che se qualcuno volesse cimentarsi a riportare nell’estremo dettaglio gli sketch di vita della propria giornata su carta, si noterebbe quanto essi siano inadatti alla scrittura. O meglio, quanto la vita da sola non basti alla scrittura. Semplicemente non funziona. La realtà potrebbe sembrare mal scritta. Difatti lo stesso Hemingway (“se le storie sono rese così reali che la gente ci crede“) non parla di una realtà magistralmente descritta ma di plasmare, imprimere una storia di realtà. Questa tesi però aiuta più facilmente a spiegare perché l’autore di narrativa in prima persona “non può ragionevolmente aver fatto tutto quello che il narratore ha fatto e, forse, niente del tutto”. Festa Mobile diventa per me una piccola guida per scrittori, una panoramica di ciò che è il mestiere di scrivere. Un lavoro che non si può limitare alle ore di ufficio, perché la scrittura è vita. E se scrivi in modo “sufficientemente efficace,” – frutto di un metodo, impegno, non solo frutto di virtù, talento, ma di sudore leopardiano – “accade che la persona che sta leggendo finisce col credere che le cose siano successe anche a lei”. La possibilità quindi di trovare l’universalità nella particolarità, la storia, i pensieri di una molteplicità di individui specchiati in un’individuale visione del mondo. Interiore perché truccata, narrabile, resa fiction. Se riesci a farlo stai cominciando a ottenere quello a cui miravi, cioè fare qualcosa che diventerà parte dell’esperienza del lettore e parte dei suoi ricordi. La stranezza che coglie l’attenzione e la familiarità che assottiglia il limite con il diverso, l’altro da sé. Per scrivere bene dunque devi vivere, ascoltare, guardare. Non si smette mai di lavorare. Per non pensare al lavoro devi leggere (la lettura però va a influenzare il lavoro, lo stile) o fare l’amore, ma poi tutto torna uguale, e il racconto non può scriversi da solo o non avrai niente da scrivere il giorno dopo. Questo è uno dei consigli di Festa Mobile, che insegna come essere un artista sia una “falsa primavera”, perché dietro a ogni felicità c’è sempre un abisso incolmabile, frutto dei propri splendori e le proprie miserie al contempo. Questo concetto sembra portare consapevolmente e senza inquietudine alla soglia di ciò che mi piace definire ‘autolesionismo mentale’: una sofferenza ineludibile perché fa parte della propria visione della realtà. Mi viene in mente il nuovo e molto discusso (troppo negativamente, a mio avviso) album di Francesco Bianconi, che nel brano L’abisso dice “guardo il mondo senza gli occhi che vorrei”. Il riferimento è a un dramma personale che cambia il modo di vedere. Uno sguardo innaturale che è patologia di quella sensibilità “artistica” degli animi malinconici – su cui mi sento quanto il più possibile di insistere ogni volta che ne ho occasione – che trovano nella creazione artistica una via di fuga o banalmente di sfogo dai loro traumi. Perché è il proprio abisso la spinta alla produzione. Penso al neonato Eccitare l’abisso di Roberto Masi, indagine dell’umano vuoto/profondità attraverso l’arte indagine che, come scrivere, costa dolore, ma doverosa per essere padroni di sé. Un esempio di questo amore-odio verso la propria vita/visione del mondo è la povertà che incornicia l’esistenza di Hemingway negli anni del racconto. Una povertà non solo evitabile in più occasioni ma quasi ricercata, come se servisse a mantenere viva quell’ansia di cadere nel proprio baratro, alimentando il proprio dramma in modo che diventi la propria ragion d’essere. “Noi mangiavamo bene e a poco prezzo e bevevamo bene e a poco prezzo e insieme dormivamo bene e al caldo e ci amavamo”. Hemingway si dice “molto povero e molto felice”. “Tutti i quadri erano più intensi e più chiari e più belli se eri a pancia vuota, con una fame da lupo”. Uno stile di vita che rimanda alla sofferenza di un santo o di un martire, capace di portare alla follia e alla malinconia di cui parla Walter Benjamin ne L’origine del dramma barocco tedesco. Una sofferenza (in)naturale per l’inadeguatezza verso la propria sensibilità e la propria visione del mondo, di cui non si è che vittime. Uno stile di vita che ti fa morire nell’immortalità, che ti fa sentire padrone del mondo intero, potendolo fissare su carta. Ma ti rende schiavo, di un quaderno e di una matita. La bohème, la bohèmeOn était jeunesOn était fousLa bohème, la bohèmeÇa ne veut plus rien dire du tout-Charles Aznavour Share Tweet Share... Read more...Arte & Capitalismo, un articolo di S. Cegalin || THREEvial Pursuit14 Ottobre 2020Arte & Capitalismo Abissi nell’estetica mercificata di Silvia Cegalin Le basi del capitalismo artistico. Come l’arte si sia trasformata in prodotto Nel saggio La parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia del 1876 Friedrich Engels descrive l’evoluzione dell’essere umano dalla scimmia, ricalcando per più volte l’idea che siano stati il lavoro e la coscienza le condizioni fondamentali che hanno permesso lo sviluppo della vita umana. Non è un caso, dunque, se la scena più significativa del film The Square del 2017 del regista Ruben Östlund, incentrato sulle strategie “commerciali” presenti nel mondo dell’arte contemporanea, riguardi un uomo, un famoso artista, che durante una cena di gala organizzata dall’élite della classe culturale decide, attraverso un atto volutamente delirante, di staccare la propria figura da uno sfondo sbiadito dall’ipocrisia e di impersonare una scimmia, aggirandosi tra commensali che imbarazzati e impauriti non si capacitano di ciò che sta succedendo. La figura/metafora dell’artista primate ci riporta a dover riflettere su quanto l’umano abbia gradualmente perso una relazione genuina con gli “oggetti” con cui interagisce, tra cui anche l’arte, costruendo strati su strati che lo allontanano dalla radice delle cose. Attraverso questa scena inoltre il regista inietta un po’ di pazzia in un ambiente artistico che, specialmente al di fuori della finzione cinematografica, appare addormentato nelle proprie grazie e abitato da personalità che hanno perso la fame creatrice, innalzando a loro unico dio le perverse logiche del sistema. Logiche che, ormai non serve più ripeterlo, hanno come unici scopi la produzione, la vendita e la visibilità. Associare l’arte a qualcosa di puro e distaccato dai fenomeni del reale dev’essere considerato ingenuo, se non alquanto inverosimile. Con la modernità, periodo che porta a numerose trasformazioni sia in campo industriale che culturale, l’opera d’arte – facendo eco a Walter Benjamin – smarrisce la propria aurea e da oggetto esclusivo, vivo, avente un valore intrinseco e soprattutto irripetibile, gradualmente si trasforma fino a diventare un prodotto commerciale che succube dei ritmi febbricitanti e dell’invenzione di nuove macchine smarrisce la relazione con il sacro, l’astratto e la bellezza. L’opera nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è il primo passo che avvia il campo dell’arte a comportarsi come il settore industriale. Le creazioni entrano quindi nel circuito della serialità e della simulazione diventando pezzi di un sistema in cui uno può essere sostituito all’altro. Una moltitudine, un ammasso di oggetti che tramite un’esposizione indiscriminata annientano il loro status artistico per assumere le forme della merce e del feticcio, all’interno di un apparato culturale che non si accontenta più della straordinarietà del singolo, che pretende una sua costante ripetizione e riproduzione. Questo ragionamento vale non soltanto per la fotografia e il cinema che – come sottolineava d’altronde lo stesso Benjamin – erano le arti che incarnavano maggiormente gli ideali industriali, ma possono riferirsi anche ad altri settori artistici (come le arti figurative o la letteratura ad esempio) in cui gli artisti si ritrovano ad essere soggetti alle imposizioni di produzione e vendita dettati dal capitalismo culturale. Non si è più artisti ma si fa gli artisti. L’idea di creare perché sospinti da un’esigenza interiore, dall’ispirazione o, citando Antonin Artaud, per fuggire dall’inferno: con l’entrata del capitalismo nell’arte ciò non può più esistere. L’alienazione tipica della classe lavoratrice infetta anche gli artisti e il perché, lo spiega bene Karl Marx in Teorie sul plusvalore (1863): il capitalismo essendosi allargato ad ogni aspetto della vita, sia essa sociale o economica, ripropone gli stessi meccanismi; se ne deduce che l’artista, proprio come l’operaio, per guadagnare dovrà produrre molte opere, opere cui unico scopo sarà la vendita e la loro pubblicità, e non più l’ideazione di creazioni originali scaturite da un impulso spontaneo. Ora, sempre seguendo il pensiero marxista, un altro punto appare essenziale in questo discorso: ossia come l’idea utilitaristica nell’arte assuma un significato diverso da quello presente in ambito industriale, perché l’arte non è considerata un bisogno primario, inoltre è difficile tradurla in termini materialistici. Detiene tuttavia il potere nel plasmare l’immaginario, i gusti e l’estetica, oltre che generare idee. Fattori che, specialmente con l’incedere della modernità, entrano a pieno titolo negli elementi utili per far esplodere un’economia che si identifica nel profitto e nel consumismo. Ecco pertanto, che il capitalismo nella sua versione più aggressiva sfrutterà l’arte per manipolare la cultura, la sensibilità estetica e il senso del bello in base alle proprie esigenze. L’artista, di conseguenza, si troverà a vivere un conflitto interno in cui dovrà scegliere se creare seguendo le proprie idee e l’istinto, rischiando però di non essere capito da un pubblico e da una classe dirigente che è ammaestrata per apprezzare altro, oppure se abbandonarsi al canto di sirene che deviandolo dal proprio sentimento, lo indurranno a inchinarsi di fronte ai tentacoli del mostro capitalista e a essere così rapito da esso. E il potere, come ben sappiamo, ha capacità di deformare la natura delle cose. Non solo infatti ha condotto l’artista e l’arte a rivestire funzioni diverse da quelle che possedevano in origine, storpiandone quasi il loro senso intrinseco, ma ha anche mutato sé stesso e le sue forme di manifestazione, disegnando un nuovo tipo di capitalismo che si adattasse ai cambiamenti sociali in atto. Interessante fenomeno che è stato analizzato recentemente da Gilles Lipovetski e Jean Serroy in L’estetizzazione del mondo. Vivere nell’era del capitalismo artistico, in cui i due autori affrontando il concetto di “capitalismo cognitivo”, spiegano come – nella contemporaneità – la prima merce da mettere in risalto non sia tanto il manufatto quanto noi stessi, le nostre conoscenze, le nostre potenzialità e le nostre idee. È l’immateriale, per usare un termine caro ad André Gorz, a essere al centro delle strategie capitaliste, perché è in corso la sfida di rendere monetizzabile e commerciabile ciò che appartiene alla sfera dell’intelletto, in modo da stabilire un’economia che non escluda nessun aspetto della società, compresa la conoscenza e ovviamente la creatività. Se ne deduce che gli artisti in questa fase dovrebbero concepirsi come “capitale umano” e dunque imprenditori di loro stessi, in grado di trasformarsi in base alle opportunità offerte dal momento. Anche con l’analisi critica di Lipovetski e Serroy, quindi, si ritorna all’idea di un’artista che prima di essere deve mostrarsi e mostrare. Un capitalismo artistico che, stando agli studi di Luc Boltanski ed Ève Chiapello raccolti nel libro Il nuovo spirito del capitalismo (testo che anticipa di circa dieci anni L’estetizzazione del mondo), in nome dello spirito libertario e della necessità di una maggiore autonomia espressiva diffusisi negli anni 60’, è riuscito a convertire, anzi a distruggere, la propulsione creativa che in quel periodo era sbocciata, ridefinendola secondo i canoni del libero mercato, reimpostando un assetto alternativo al binomio lavoratore/merce, sfruttato/sfruttatore. Ma – e qui sta la sua “forza demoniaca” – il capitalismo è riuscito a penetrare nel mondo dell’arte camuffandosi esso stesso dà valore artistico, iniziando a dominarlo secondo le politiche d’impresa. Politiche che si sono espanse anche al funzionamento delle attività artistiche, che oggi più che mai, incorporano il suffisso “iper” che nel consumismo, nella proliferazione e nella flessibilità si esplica nella maniera più emblematica. L’estetica si è adattata a questa babele di produzioni, e il surplus di esibizioni cosiddette artistiche e l’inflazione di eventi/manifestazioni culturali ne sono un esempio. Che cosa valga veramente, che cosa meriti la nostra attenzione è difficile da stabilire perché, per riprendere il concetto di arte espansa di Mario Perniola, in tale abuso di futilità e insulsaggini l’arte autentica è stata oscurata da un imbarbarimento del pensiero estetico. È inevitabile quindi che alla massificazione dell’oggettualità artistica segua la graduale sparizione dell’arte ed è in linea con il pensiero di Jean Baudrillard, che nell’omonima La sparizione dell’arte, dichiara come il feticismo commerciale e il culto sfrenato verso le cose abbiano condotto alla svalutazione delle creazioni artistiche, diminuendo la consapevolezza su noi stessi e il mondo che l’arte spesso stimolava. È urgente di conseguenza, ribadisce il filosofo, che l’arte e gli artisti resuscitino il proprio ruolo, contrastando il nauseante circuito di mercificazione delle idee. L’arte è una questione di classe sociale. Se non si può asserire che l’arte sia sganciata dalla sfera economica, è perciò importante considerare l’artista come un lavoratore. Per quanto tale affermazione appaia banale, in merito anche alle riflessioni svolte precedentemente, è comunque risaputo che ancora ad oggi persistono numerose contraddizioni per descrivere il ruolo dell’artista all’interno di una società dominata da un capitalismo che, personalmente, definirei multiforme. Il resuscitatore del marxismo Theodor Adorno, non a caso, con la formulazione del concetto di “industria culturale” intendeva proprio sottolineare il legame condizionante che intercorreva tra le varie componenti sociali-economiche e l’arte. È però evidente che nonostante i molti dibattiti e la vasta letteratura inerente il capitalismo artistico e la trasformazione dell’opera d’arte in merce, rimane spesso secondaria una questione a parer mio di estrema importanza, ossia il ruolo che la classe sociale di appartenenza ha nella formazione e nell’affermazione degli artisti. Molti, forse, troveranno obsoleto l’uso del termine “classe”, in alternativa possiamo parlare di livello del reddito, grado di istruzione o di possibilità economiche, il discorso comunque non cambia, perché stando a una ricerca condotta nel 2015 dalla Goldsmiths University e dalla Arts Association Create, è emerso che l’80% delle persone che lavorano e fanno arte nel Regno Unito provengono dalla classe medio alta. Ora, un dato di questo tipo dovrebbe suscitare vergogna e stimolare gli imprenditori culturali a creare sistemi di finanziamento e sostentamento in grado di rimarginare questa ferita che vede i meno abbienti esclusi. Al contrario, come d’altronde è riportato nell’articolo Can Only Rich Kids Afford to Work in the Art World? del 2017 a firma di Anna Louie Sussman in Artsy, affiora la problematica che mentre negli altri campi industriali si sta investendo per formare una forza-lavoro eterogenea, in quanto la varietà dei soggetti coinvolti porterebbe a prestazioni migliori, il settore dell’arte si estrania da ciò, rimanendo ancorato a pratiche economiche basate in larga parte sulle donazioni, sul collezionismo e sulla promozione tramite i social media, nonché su prestazioni di lavoro che spesso sono retribuite malvolentieri. Un altro aspetto preoccupante che concerne la formazione degli artisti, è il fatto che si acquisisce lo status di artista dopo aver superato “varie prove”. Per arrivare a esporre o a pubblicare le proprie opere nella famosa galleria, biennale o con un editore conosciuto, è indispensabile “entrare nel giro giusto” (e pure in questo caso si presuppone la provenienza da un ambiente borghese e zone geografiche evolute e non isolate), o un curriculum che elenchi considerevoli esperienze. Esperienze che richiederanno l’investimento di tempo e denaro che, ovviamente, non tutti sono in grado di sostenere. Penso ad esempio alla partecipazione di seminari, corsi di specializzazione, stage e workshop che non sempre vengono finanziati dall’ente organizzatore, ma che spesso sono a carico del partecipante, e talvolta si svolgono all’estero o lontano dalla propria città. Questa mia riflessione non si basa su un’ottica pessimistica, ma reale. Non vuole affermare che chi proviene da un ambiente agiato non possa essere un bravo artista, e che chi è più povero non ce la possa fare. Ma perpetuare l’idea romantica che il figlio/a di un operaio o di un impiegato, abbia pari opportunità di un figlio/a di un medico, di un avvocato o di un imprenditore, vuol dire negare l’esistenza stessa del capitalismo che ha fatto del denaro la sua arma vincente. La regola è molto chiara: se hai soldi puoi – se non hai soldi non puoi. Senza contare il fatto che chi domina le scene artistiche e intellettuali produce visioni e idee capaci di influenzare il modo di pensare nonché la cultura stessa, perciò ci troviamo a essere schiavi – o sovrani – non solo della nostra condizione economica, ma anche di un capitale di pensiero modellato da altri e in cui si rischia di non riconoscersi e sentirsi esclusi. Lo studio Social Class, Taste and Inequalities in the Creative Industries a cura di Dave O’Brien, Orian Brook e Mark Taylor, pubblicato nel 2018 in collaborazione con l’Università di Edimburgo e Sheffield, ha inoltre svelato che a essere determinante per diventare artisti, oltre la propria provenienza sociale, sono anche il genere, la nazionalità, la religione e la lingua della persona. Con una semplice frase quindi si potrebbe dire: tutti possono fare arte, ma non tutti possono diventare artisti. Share Tweet Share... Read more...Klub Taiga, un articolo di T. C. Efres || THREEvial Pursuit7 Ottobre 2020Klub Taiga (Dear Darkness) di Thea C. Efres Io non voglio scrivereNon voglio lasciare niente di significante al mondoNon voglio lasciare la forma della parola scrittaVoglio negarmi e rompere con la storia che non ho scelto di me… (Klub Taiga) Innanzitutto, credo di dover dare una breve spiegazione del motivo che mi porta su queste pagine telematiche a essere ospite di Three Faces. Io non scrivo molto, non ho mai pubblicato niente – almeno di rilevante – e se sento il dovere di farlo in questa situazione particolare, lo faccio solo per un profondo senso di amicizia che mi lega al direttore Andrea Biagioni, poiché ciò è avvenuto su sua esplicita richiesta. Prima di iniziare a scrivere questo articolo, imponendomi rigorosamente di aspettare che calassero le tenebre, un interrogativo mi ha creato un notevole turbamento – che poi è lo stesso turbamento che mi coglie ogni volta di fronte all’atto della scrittura: avrei potuto dire tutta la verità? Mi è stato assicurato dal diretto interessato che non me lo avrebbe negato e quindi eccomi qui, a costringervi in una lettura che mi auguro non vi risulti pesante e soprattutto, artefatta. Vi dirò quindi che ho incontrato Andrea circa dieci giorni fa poco dopo la mezzanotte all’uscita dal Teatro Fabbricone dove, evidentemente, entrambi avevamo appena assistito allo spettacolo Klub Taiga di Industria Indipendente per Contemporanea 2020. In verità, non ci vedevamo da almeno dieci anni. Ci siamo lasciati cogliere da una lontana nostalgia e abbiamo pensato fosse l’occasione giusta per qualche ricordo di fronte a un buon whiskey, Jameson, Gold Special Reserve, tripla distillazione. Ovviamente, ci siamo chiesti che avevamo fatto in questa decade, quali speranze avevamo realizzato e quali deluso e infine è venuto spontaneo domandarsi che diavolo ci facessimo lì. Domanda a cui è stato meno semplice rispondere di quanto possiate immaginare. Abbiamo risolto l’imbarazzo limitandoci a parlare di Klub Taiga. Lui era lì per lavoro, io per passione. Già questo segna la distanza tra le strade che abbiamo deciso di percorrere. Scoprimmo inoltre, e con un certo stupore, che avevamo assistito praticamente ai medesimi spettacoli del Contemporanea Festival di quest’anno. Sei spettacoli e non ci eravamo mai veduti. Ne ridemmo e poi iniziammo a discutere su ciò che avevamo visto in quei giorni: due pollici su di entrambi per La Reprise di Milo Rau; pollice su per la realizzazione ma riserva sulla coesione della rappresentazione per The Mountain di Agrupación Señor Serrano; apprezzamenti sulla scenografia e sull’interpretazione per Varietà di Greta Francolini; rimandato Un/Dress di Masako Matsushita perché, ci dicemmo tutti e due quasi all’unisono, “mi aspettavo qualcosa di più pittorico”, ma decidemmo infine che le performance mal fatte sono ben altre e quella era semplicemente una “bella fase di evoluzione artistica, come accade per i bruchi”. Chiudemmo la rassegna sulle grosse aspettative per Memento Mori di Sergio Blanco il giorno successivo: non rimanemmo delusi. E Klub Taiga? «Mai vista una roba del genere. Delle folli, delle incoscienti. Straordinario, geniale. Anche se non sono ancora sicuro di sapere cosa ho visto davvero. L’unica certezza è che in Contemporanea c’è sempre qualcosa che riesce a lasciarmi a bocca aperta. Quest’anno è Klub Taiga». Fremeva, ma il suo tono sembrava turbato. Ne discutemmo ancora a lungo e alla fine mi disse: «Dovresti scriverlo tu il pezzo su Contemporanea. E dovresti scriverlo su questa performance». Gli dissi quello che ho detto a voi e cioè che io scrivo poco, principalmente per me, e che non amo pubblicare. «E sbagli, te l’ho sempre detto. Sei una delle migliori penne che conosca, anche se capisco perché non vuoi pubblicare. Ma non è questo il caso. Questo articolo lo devi fare tu, lo devi fare per me. Tu lo racconterai di certo meglio di quanto mai potrei fare io. E poi io non posso». Gli chiesi perché. «Perché è come si sente dire in Klub Taiga. Io non voglio più scrivere». Avrei voluto insistere e capire il perché di quella frase, di quell’imposizione, ma sapevo per esperienza che non ne avrei tratto niente quella sera e che non era una buotade del momento. Glielo leggevo negli occhi che ben conoscevo, lo spleen. E non mi sentii di dirgli di no. Ora immagino vogliate sapere che cos’è il Klub Taiga, ma io questo non posso dirvelo, non ho quella verità. Posso darvi la mia di verità, quello che a me è (ap)parso. Ebbene, Klub Taiga è la fine, o meglio lo stadio finale della decadenza. Klub Taiga è un non luogo o, se preferite, il luogo dell’eterno non-ritorno, uno spazio indefinito che travolge il lato più primordiale dell’animo con immagini frammentate di ombre e luci, mentre nelle vene pulsa un rave electro-industrial mediorientaleggiante che sembra volerti esplodere in petto. La musica è stordente, le luci asfissianti, le ombre sempre pronte ad accoglierti in un vortice sul cui fondo puoi scorgere il centro esatto di quel buco nero a cui siamo ineluttabilmente destinati, e che sembra risucchiare ogni cosa intorno con un’ultima, intollerabile implosione di raggi e suoni. È il momento esatto in cui comprendi come deve essersi sentito David Bowman oltrepassato Giove, attraverso l’infinito. Solo. Le persone intorno a te non esistono più e se a volte le percepisci, quasi ti arrecano insofferenza. Quelle sul palco invece non sono persone, sono fantasmi, proiezioni di movimenti e solo a tratti voci per parole che non sembrano avere più nessun senso. Discorsi da ubriachi, discorsi “tossici” e forse per questo così puntuali, ma in fondo nient’altro che bei versi in cui il tutto e il niente si amalgamano nuovamente nella loro essenza embrionale, che è l’insignificanza intesa – per assurdo – nel suo significato più profondo: l’assenza di segno. Photo by Martina Leo “There was a word inside a stone I tried to pry it clear Mallet and chisel, pick and gad Until the stone was dropping blood But still I could not hear The word the stone had said.I threw it down beside the road Among a thousand stones And as I turned away it cried The word aloud within my ear And the marrow of my bones Heard, and repliedO let there be no signs! Let all the evil we have done be done and minds lie still as sunlit meadows lie”. Ora comprendo cosa può aver fatto scattare Klub Taiga dentro una persona che sente di aver perso la sua unica forma di espressione. Industria Indipendente ha messo a nudo l’attuale inutilità della parola, è riuscita a ridurla in tutto tranne che nella quantità. E infatti verso la fine le parole si accavallano come fossero pronunciate da centinaia di voci. In realtà si uniscono, ingrossano come un fiume in piena, perché è una sola la voce che le contiene, e poi ti travolgono. Non posso far a meno di pensare, mentre guardo, che in fondo quello non è altro che il nostro mondo; è questa società in cui sentiamo il dovere di essere sempre, comunque e ad ogni costo al centro dell’attenzione ma senza agire mai, perché agire significherebbe rischiare di fallire e il fallimento non può essere contemplato. Di conseguenza non ci resta che riversare raffiche di parole vuote sugli altri, solo per imporci, per sentirci dire che siamo bravi, che siamo intelligenti, e quindi solo per allontanare la nostra inettitudine, la nostra insignificanza. E allora è comprensibile che arrivi il punto in cui qualcuno dice basta. Basta parole, basta segni, basta voci. Mi ha stancato il vostro blaterare inconsistente. Ho bisogno di altro, io ho bisogno di contemplare. Io voglio danzare sull’orlo di questo buco nero, voglio lasciare andare ogni inibizione e lasciarmi esplodere di luce, prima di farmi inghiottire come il suono, la voce e l’ombra nel freddo e inospitale buio del nostro non-luogo. Io voglio il silenzio, perché è forse il silenzio l’unica via per riuscire a dare nuovamente un senso ai segni, qualunque sia la loro forma. In conclusione, vi avevo promesso che avrei cercato di non risultare pesante e non credo di aver centrato l’obbiettivo. Che il provare a orientarmi nell’ineffabilità di Klub Taiga vi abbia però trasmesso qualcosa, perlomeno la curiosità, questo sì, me lo auguro. E mi auguro che dopo la Biennale e Contemporanea, vi siano altre date, che anche voi abbiate la possibilità di vedere cosa può partorire il folle, ordinato caos di Industria Indipendente, perché c’è bisogno di stimoli e di menti come loro. KLUB TAIGA(Dear Darkness) di Industria Indipendentecon Annamaria Ajmone, Erika Z. Galli, Steve Pepe, Martina Ruggeri, Federica Santoro, Yva&The Toy George e con Luca Brinchiimmagini / visioni / segni Dario Carratta, Timo Performativo, Floating Beauty costumi TEIN clothingproduzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale con il sostegno di Angelo Mai Share Tweet Share... Read more...Agosto: guida in città, un articolo di C. Durden || THREEvial Pursuit30 Settembre 2020Agosto: guida in città di Corto Durden Agosto, guida in città È un bel po’ che non scrivo, e infatti avverto la ruggine, nella mente e nelle dita. Ho automatizzato altri movimenti sulla tastiera, altre scorciatoie, parole chiave da immettere in tabelle piene di dati e numeri e statistiche. Preferisco tradurre i miei pensieri su un file word piuttosto che informazioni asettiche su fogli di calcolo, ma mi sembra di avere sempre meno tempo per farlo. Riuscire a coniugare il lavoro e i propri interessi e al tempo stesso resistere alla sempre più opprimente afa di agosto, poi… beh, siamo quasi nella dimensione dell’utopia. Per andare al lavoro adesso uso la macchina. L’automobile. In pratica ho 29 anni, ho preso la patente a febbraio ma ho iniziato a guidare dalla metà di luglio di quest’anno. Ho acquistato un’utilitaria usata insieme alla mia compagna, e sto imparando a portarla davvero solo adesso. Ho attaccato il foglio con la “P” sul lunotto, in bella vista, come uno scudo contro le ire di chi mi sta dietro: “Qui c’è la P, amico… sono protetto, lasciami guidare in santa pace e in sacrosanta insicurezza”. Non sempre funziona, a volte probabilmente sortisce l’effetto opposto, ma alla P per principianti do comunque un 6.5 su 10 per la sua efficacia. Guida in città alla sera Guidare la mattina è più piacevole rispetto al tardo pomeriggio, il traffico scorre meglio, ci sono meno veicoli e anche il sole è meno violento. Alle 8 è un pugile che sta facendo stretching, ma alle 18 è ancora in piena trance agonistica e pronto a demolire tutto quel che si trova sotto prima della fine dell’incontro. Fa caldissimo ad agosto in città. E non c’è aria condizionata che tenga, quando sei ancora un pilota alle prime armi e sei fermo alla rotonda aspettando il momento giusto per inserirti con una coda di macchine dietro la tua, e un tizio sempre pronto a sbranarti in primo piano nello specchietto retrovisore; oppure quando devi parcheggiare in una situazione complicata, magari con qualcuno che ti osserva e ti giudica silenziosamente. In quei momenti io inizio a grondare sudore, e si gronda che è una bellezza. Qualche giorno fa ero su una strada a scorrimento e sono arrivato a un bivio. Avrei dovuto girare a sinistra ma me ne sono accorto tardi e, trovandomi ancora nelle corsie di destra, non ho potuto far altro che proseguire nella direzione sbagliata. Mentre realizzavo l’errore ho rallentato – gradualmente – cercando di capire come fare per tornare sul percorso giusto. Ho rallentato ma non ero fermo, l’auto continuava ad andare a un ritmo tutto sommato accettabile – o perlomeno era accettabile secondo me, e mi duole dirvelo ma l’unica opinione che leggerete in merito è la mia. Il tizio alla guida dell’auto dietro ha invece ritenuto necessario farmi sentire il suo clacson – alla P per principianti do in questo caso l’insufficienza. Ad ogni modo il tipo mi ha fatto innervosire, perché non avevo fatto nulla di pericoloso e volendo poteva anche sorpassarmi sfruttando l’altra corsia. Ho alzato una mano come a dire “calma”, e l’ho guardato dallo specchietto centrale. Una classica faccia di culo, più o meno della mia età. Avete presente, no? Dalla t-shirt spunta il collo e attaccate al collo ci sono due chiappe. Ecco, è più o meno questo ciò che ho visto nel retrovisore. Comunque quest’anno pare che il traffico sia calato nelle due settimane centrali di agosto – neanche così tanto rispetto al passato perché in piena crisi da Covid la gente ci ha pensato un po’ su, giusto un po’, prima di prendersi le ferie – prima di tornare a inflazionare le strade nell’ultima. Verso lo scadere di agosto hanno iniziato a riformarsi le stesse code chilometriche che avevo potuto apprezzare a luglio: momenti mistici di claustrofobia motorizzata in cui vorrei potermi fermare e far librare un drone, per riprendere dall’alto le strade straripanti di scatole d’alluminio che gettano CO2 su CO2 nell’aria – tu chiamala se vuoi “aria”. È il 2020 e non si vede una macchina elettrica nemmeno a pagare (magari ce n’è qualcuna a metano, ma non avrei idea di come riconoscerla). Nemmeno io ho una macchina elettrica, o a metano. La mia utilitaria inquina. Ma io sono come la Cina, ho preso la patente molto tardi, rivendico il mio diritto di sporcare l’aria e compromettere l’ambiente come hanno fatto tutti prima di me… non è vero, non rivendico un bel niente, e spero di potermi presto permettere un mezzo meno inquinante. Anzi, mi piacerebbe ancor più trovarmi casa vicino al lavoro, o un lavoro vicino casa, ed evitare così le code-il casino-il malumore connaturati alla vita nel traffico. Guidando mi sono reso conto di una cosa, e cioè che l’ambiente della strada e degli automobilisti è come quello delle sezioni commenti su Facebook, o Twitter, o qualsiasi social vi venga in mente insomma. Ognuno si sente libero di inveire sugli altri autisti e di esprimersi a sproposito quando è al sicuro nel proprio abitacolo, proprio come avviene nella dimensione online dove ci sentiamo protetti per via della distanza, dello schermo che ci separa dai nostri interlocutori. Suoniamo, imprechiamo, ci mandiamo affanculo, siamo sempre pronti a litigare da un finestrino all’altro, senza curarci delle conseguenze né dei fattori che magari hanno influito sugli errori dell’altro o dell’altra. Lo stile comunicativo che vige sulla strada e permea le interazioni tra autisti è aggressivo e sboccato, un linguaggio che viene universalmente percepito come normale nelle situazioni di guida. Che poi, la maggior parte delle incazzature e delle imprecazioni sono dovute alla guida lenta di chi ci precede. Certo, l’utilizzo del clacson può esser legittimo o necessario, ma molte volte è la lentezza a innescare gli autisti portandoli a suonarlo con tutta la nevrosi di cui dispongono. Come se dovessimo procedere per forza a ritmo spedito, come se l’unico modo di percorrere una strada fosse sempre il più velocemente possibile. Ma chi l’ha detto che dobbiamo andare perennemente di fretta, o col peperoncino in culo, come dicevano grandi sagge e saggi d’altri tempi e d’altri luoghi? “Un tempo le strade assecondavano il paesaggio, l’importante era il viaggio e non la meta. Oggi le strade tagliano il paesaggio senza pensarci due volte, l’importante non è più il viaggio ma arrivare a destinazione”. Parecchi anni fa ho sentito questa frase o una cosa simile in un film, vorrei tanto potervi dire quale film ma purtroppo non riesco a ricordarlo né a rintracciarlo su Google. Fatto sta che quella frase mi colpì molto quando la sentii, e oggi mi torna in mente perché rispecchia appieno le mie impressioni sul nostro modo di vivere l’auto e la guida. Guidare potrebbe anche essere piacevole se fossimo tutti liberi di farlo a nostro modo e coi nostri ritmi – rispettando le regole, chiaro, non me la sto mica prendendo col codice stradale anche se questo discorso m’è sempre sembrato molto convincente –, senza qualcuno che ci corre costantemente dietro, ma il più delle volte non lo è. Nulla di cui stupirsi, in fondo. Che viviamo in una società ossessionata dalla velocità d’esecuzione lo sapevo già, lo sanno tutti, si nota in ogni cosa – da come lavoriamo a come passiamo il tempo libero a come guidiamo a come consumiamo qualsiasi cosa che possa esser consumata. Nessuno si gode il viaggio, nessuno sembra nemmeno interessato al fatto che possa esserci un viaggio da godersi. Ciò che conta è bruciare i tempi, tutti i giorni e ogni giorno di più. So che molte delle cose scritte qui sopra sono banali, che mi sono parse degne di nota solamente perché sono ancora agli albori della mia carriera automobilistica e devo imparare tante cose – fregarmene degli altri, essere più attento a interpretare i segnali, padroneggiare la vettura. Magari imparerò a guidare bene a velocità sostenute e inizierò anch’io a lamentarmi della lentezza degli altri. Magari suonerò il clacson e imprecherò contro i neopatentati che non accelerano abbastanza, e lo farò in parte perché andrò di fretta, e in parte perché sarò stato influenzato dal linguaggio dominante nell’ambiente strada. Per ora, guidare è per me un’esperienza prevalentemente ansiogena che mi fa sentire a disagio… anche se non mancano i momenti in cui riesco a godermi il viaggio, per l’appunto. Momenti in cui tutto accade alla velocità e alla temperatura giusta, le manovre e i cambi di corsia filano via lisci, non ho paura di fare cagate e, come per magia, non ne faccio. Qualche sera fa ero di ritorno dal lavoro e mi accingevo a percorrere un sottopassaggio nella corsia centrale di una strada molto trafficata, mi sentivo tranquillo al volante nonostante le tante auto intorno a me e mi piacevano i brani che la radio stava passando. Tra un pezzo e l’altro, nell’oscurità del sottopassaggio, una voce profonda ha recitato queste parole: “Tutti gli scrittori devono fare pratica ogni giorno, allenandosi a scrivere per almeno un’ora. Non importa quali siano gli ostacoli, se vuoi inseguire la tua passione devi essere pronto a fare dei sacrifici” o comunque una cosa del genere. Per un attimo mi hanno aperto la mente, perché le ho sentite come dirette a me in un periodo in cui faccio davvero fatica a trovare spazi, nelle mie giornate, da dedicare alle mie passioni o alle mie ambizioni. Mentre riflettevo e uscivo dal sottopassaggio è partito un altro brano, ho beccato due verdi di fila e la macchina andava e io insieme a lei, verso la mia lei, e verso i miei pensieri. Share Tweet Share... Read more...“Popolo se m’ascolti”: l’Eccidio del Padule, un articolo di G. Bindi || THREEvial Pursuit23 Settembre 2020“Popolo se m’ascolti”: l’Eccidio del Padule Il tramandare emotivo di una strage taciuta di Gianluca Bindi Celebrazioni per il 76.o anniversario dell’eccidio del Padule ad Anchione Popolo se m’ascolti ti spiego la tragediaDel 23 d’agosto, l’orribile commediaE a raccontarla mi proveròMa ’un so se in fondo ci arriverò(Incipit di un canto popolare sull’eccidio) Esattamente un mese fa, il 22 e 23 agosto 2020, si sono tenute le commemorazioni per il 76.mo anniversario dell’eccidio nazifascista del Padule di Fucecchio, in cui persero la vita 175 civili. Le celebrazioni hanno avuto luogo in tutti i comuni lambiti da quella scia di sangue: Fucecchio, Monsummano Terme, Cerreto Guidi, Larciano e Ponte Buggianese. Fino ad allora avevo letto e riletto i resoconti di quell’evento in decine di libri: le parole scorrevano ogni volta come un elenco macabro-meccanico di fatti, azioni, luoghi e vite spezzate; che fossero testimonianze dirette, o dossier alleati, o ricostruzioni storiche, rimanevano sempre e solo carta con del mero inchiostro. Ecco, invece, cosa hanno significato per me quei due giorni e gli incontri che ne sono conseguiti. La domenica mi siedo su una panca libera, in chiesa. La frazione di Cintolese è stata la più colpita dalla strage con più di 80 morti. Davanti a me ci sono due signore anziane che parlano fra di loro e che vengono salutate, a turno, dai presenti e dalle istituzioni cittadine. Sono Tosca e Vittoria, sopravvissute alla strage; vite che hanno provato a ricostruire le proprie famiglie e, insieme ad esse, una parvenza di normalità. Normalità che, nonostante tutto, non sono mai più riuscite a vivere.«Ci penso più adesso che da giovane» dice Vittoria. Dice che la cosa che le è rimasta più impressa, al di là del dolore, sono i mosconi. C’erano mosconi ovunque quel giorno: sui corpi menomati, sul sangue mescolato al fango; li sentiva così forte e in maniera così insistente che anche oggi non può sopportarli. Ho il privilegio di incontrare Tosca qualche giorno dopo, a casa sua. La mattina della strage era una bambina di sei anni, a cui i tedeschi avevano sequestrato e saccheggiato la casa. Sfollò in padule come tutta la sua famiglia e tante altre persone: «Eravamo una trentina fra tutti». Quando videro arrivare i tedeschi sua madre la nascose in una buca. I nonni andarono incontro alle truppe, pensando ingenuamente che avrebbero risparmiato degli innocenti. Tosca li ha visti bruciare vivi poco dopo e racconta quanto siano stati interminabili quei momenti: «Speravo che morissero subito ma ci hanno messo veramente tanto…». Vide sua madre e suo fratello di 18 mesi mitragliati, mentre lei riuscì a salvarsi rimanendo immobile, non facendo il minimo rumore. La trovarono svariate ore dopo, nella solita posizione, salva ma con la vita irrimediabilmente compromessa. Quando racconta, la sua fronte si corruga in un’espressione inerme, quasi infantile. Per lei, nonostante gli anni, la vita si è fermata in quell’attimo: «Da quel giorno sono vuota. Non mi è più riuscito provare felicità, neanche nei momenti più belli. È come se da lì in poi avessi sempre vissuto una vita a metà». Tosca Lepori, sopravvissuta all’eccidio del Padule di Monsummano Terme Dopo la messa, la carovana piena di vessilli, fasce tricolori e cariche si trascina per qualche centinaio di metri, nel caldo d’agosto che si fa più intenso allo scoccare di metà mattinata. Entriamo nel cimitero di Cintolese per posare una corona d’alloro. Prima di arrivare al monumento funebre vedo Vittoria che calpesta con disprezzo una tomba posta orizzontalmente sul terreno. Si gira verso di me, ha urgenza di spiegare: «Lo sai perché sono passata sopra a quello lì? Lui era la spia…» Mi si gela il sangue, sono disorientato, non riesco a dire niente. Quella dei collaborazionisti è una ferita che rimarrà sempre aperta, anche se purtroppo celata ancora da una spessa coltre di omertà istituzionale. Tutti sapevano, all’epoca, i nomi di chi portò i tedeschi in padule, aiutandoli poi attivamente nel massacro. Nonostante fossero incappucciati per non farsi riconoscere, nei paesi ci si conosceva talmente bene che bastava la voce, un’espressione in dialetto, un certo tipo di camminata. Anche Tosca dice la sua sulla questione: «Io gli do sempre un calcio quando ci vado, perché era un grande fascista. Fu quello forse che ci ha fatto ammazzare. E ci ha portato via pure tutte le bestie. Il mi’ nonno aveva rimpiattato i bovi, li aveva portati laggiù in padule nella Nievole, tra un canneto. Passò questo sudicio e lo vide. Quando tornò a casa disse: “È inutile che vada a governarli, è passato Egisto e mi ha visto”. Infatti il giorno dopo non c’erano più». A Ponte Buggianese fu riconosciuto il barbiere del paese insieme ai reparti della Wehrmacht durante la strage; una testimone fece il suo nome ma poi si tirò indietro. Mi racconta di questo episodio Remo, che abitava in padule durante la guerra: «Ettore Quiriconi (una vittima della strage, nda) non fu ucciso subito, ma ferito. Quest’uomo iniziò a urlare e a chiamare aiuto, e sua moglie Evelina sentì e venne qua al Coccio (zona del padule vicino ad Anchione, nda). Quando arrivò, incontrò questo gruppo di tedeschi, ci fu uno che disse: “Lei no, lei non l’ammazzate”, in tedesco queste parole non si dicono. E sembra che questa donna abbia detto anche i nomi…» «Tipo Achille?» gli faccio io. «Esatto Achille, ne hai sentito parlare eh?» Sempre a Ponte Buggianese, il farmacista non uscì di casa per qualche anno per paura di vendette nei suoi confronti. Questo non gli impedì, una volta morto, di farsi seppellire al cimitero del paese con una lastra di marmo nero, tanto per ricordare a tutti che lui, di rimorsi per la sua militanza, non ne aveva mai avuti. Celebrazioni ad Anchione, uno dei paesi coinvolti nell’eccidio del Padule Il giro in macchina con Remo continua, facendomi ripercorrere esattamente la rotta di sangue tenuta dalla Wehrmacht e raccontandomi aneddoti su ogni vittima del padule presso Ponte Buggianese. Lui è stato fortunato, dice, la sua casa è stata risparmiata dall’eccidio: «A destra del Canale Maestro non ammazzarono nessuno, a sinistra invece fecero fuori tutti. Ho provato a chiedermi il perché tante volte ma non sono riuscito a trovare una risposta». In generale, le risposte di oggi sulla strage scarseggiano. E ciò deriva quasi interamente dal silenzio di ieri. Certo, la totale impunità garantita dallo stato agli ex fascisti, non ha certamente aiutato. Ma tra queste risposte nebulose, una delle principali, secondo me, fa riferimento a un interrogativo che riguarda il dopo: Perché nessuno ha parlato? Furono gli adulti, proprio i superstiti, che si opposero a rivelare ufficialmente i nomi, sia alle commissioni d’inchiesta alleate sia, soprattutto, ai figli. Una motivazione è sicuramente il fatto che non volevano altro spargimento di sangue, come effettivamente ci fu in altre parti della penisola nel Dopoguerra. Il secondo, secondo Remo, è da ricercare nello shock del massacro subito da un’intera comunità: «La gente è stata talmente sfregiata qui dall’invasione tedesca che dopo stavano tutti zitti. Chi aveva subito i torti stava zitto» dice sfogandosi. «La nonna della mi’ moglie, che le ammazzarono due figlioli e due nipoti, quando uno si avvicinava e diceva: “Povera Gigia. Ti hanno ammazzato…”, lei rispondeva subito: “Zitta, queste cose qui non si rammentano!”. La gente era così traumatizzata, che non reagiva come si reagirebbe normalmente. In paese nessuno ni fece mica nulla! Achille continuò a vivere come se niente fosse. Dapprima, i primi giorni stava un po’ guardingo… ma poi aprì un negozio e la gente andava in negozio da lui. Io a raccontare queste cose… mi fanno male! Mi fanno male perché non ho mai sentito nel Dopoguerra una persona che dicesse “Ma porca M*****a se ne incontro uno lo scoio!”». La terza, infine, è la paura di ritorsioni. Tosca dice che le famiglie dei fascisti di Monsummano continuarono a prosperare nel Dopoguerra, indisturbati. Così tanto che nessuno si azzardò a fare nomi: «Silenzio assoluto. Erano tutti terrorizzati per paura di ritorsioni alla propria famiglia. Loro (nda i fascisti) non avevano mica pietà». Il paragone del dopo è impietoso e sempre presente: da una parte le vittime che fra il dolore e una vita di fatiche e di stenti riuscivano a malapena a campare facendo studiare i propri figli; dall’altra i carnefici protetti dallo Stato e da una giustizia che ha arrancato per mezzo secolo: «Lo Stato non ha mai fatto niente» ribadisce Tosca. «Non credo neanche quando dicono ‘armadio della vergogna’: ma come in 50 anni un armadietto così, in quell’ambiente, che non lo avesse mai notato nessuno, anche per spolverarlo… ci hanno preso proprio per il culo, da diritto e da rovescio. Non so se tu hai visto Le Iene (nda il servizio sul criminale di guerra nazista del padule, che consiglio vivamente di vedere). Quel disgraziato assassino lì (nda Johann Riss), si è fatto una famiglia, ha campato bene, senza problemi, aveva una villa tu vedessi… mille e una notte. A nessuno hanno fatto niente. Hanno cominciato a parlarne un po’ quando non erano più punibili. Il governo è stato proprio un assassino nei nostri confronti, tutti quelli che ci sono stati, dal primo all’ultimo, perché nessuno ha fatto nulla per condannare questi. Lo sapevano chi erano eh». Sempre Anchione, celebrazioni istituzionali dell’eccidio del Padule Ritornando per un attimo agli interrogativi sospesi: alla fine, sono stati scoperti i motivi della strage? L’unica banda partigiana del Padule di Fucecchio era la “Silvano Fedi” e contava trenta componenti scarsi, perlopiù impegnati in attacchi di risposta a soprusi dei tedeschi (furti di bestiame, estorsioni, stupri tentati e/o riusciti), che si limitavano ad attività di sabotaggio o di furti di armi e documenti. Pochissimi furono i conflitti armati. Ma il mandante dell’ordine, il capitano Crasemann, a cui il feldmaresciallo Kesselring aveva dato carta bianca, era di diverso parere: secondo lui, infatti, nel Padule di Fucecchio c’era un nucleo di 2-300 partigiani “con armi automatiche, carabine, pistole, con russi e disertori tedeschi” come si evince dal rapporto giornaliero della 14.a armata tedesca del 25 agosto 1944. Il problema, a detta dello storico Lutz Klinkhammer (intervistato da Marco Folin nel documentario Eccehomini – Ricordo di una strage) è nella data: considerando che la strage è stata fatta il 23, l’appunto sa tanto di giustificazione a posteriori utile a pararsi le spalle a fronte di future inchieste giudiziarie. In realtà il rastrellamento di sfollati, donne, vecchi e bambini quella mattina non era altro che un’operazione di pulizia delle retrovie che avrebbe permesso un miglior sganciamento dell’esercito a nord, sulla Linea Gotica. Un freddo calcolo militare che non si preoccupò nemmeno di contadini innocenti che erano lì soltanto perché aspettavano che la guerra finisse. Anche se, ovviamente, sono stati utilizzati come capro espiatorio i partigiani, essi non erano sicuramente l’obiettivo dell’operazione, visto che nessuno andò a scovarli per ingaggiare una battaglia a viso aperto con loro (eppure c’erano eccome i finti disertori tedeschi che si unirono ai gruppi partigiani per poi sparire nel nulla prima della strage). In generale, e quindi anche nel Padule di Fucecchio, la logica delle stragi di civili delle truppe tedesche in Italia non aveva altro obiettivo che fiaccare la coscienza con la paura. Sangue versato così inspiegabilmente da bloccare anche la volontà di reagire e urlare al mondo i colpevoli. Cosa che a quanto pare ha funzionato perfettamente. Celebrazioni a Stabbia, altro paese coinvolto nell’eccidio del Padule La cerimonia si è spostata intanto a Stabbia, dove ha preso la parola Antonio, un superstite che ha perso il padre nella strage: «Mi riaffaccio all’accorato appello, da laico, di quello che ha detto monsignor Migliavacca: “Dov’era l’uomo? DOV’È L’UOMO?”». Si riferisce alla lettura di un brano del Vangelo da parte del vescovo di San Miniato. E in più, a supporto di ciò che ho scritto, spiega: «Per anni e anni partecipando a queste ricordanze non ho mai cercato di conoscere qualcuno colpito dalla strage. Allora negli anni Cinquanta, in giorni come questo sulla piazza del paese (…), tutto finiva molto presto: una corona, pochi abbracci, qualche lacrima e niente di più. Poi un vuoto di settant’anni…» Solo negli ultimi anni Antonio ha voluto conoscere gli altri superstiti. Dice che con loro si è innamorato della parola ‘giustizia’ e, anche se vita umana e denaro non sono per niente sullo stesso piano, racconta degli ultimi sviluppi della richiesta di risarcimento alla Germania. Risarcimenti che tutt’oggi non sono ancora pervenuti alle vittime. «Tutto quello che mi hanno dato sono quelle medaglie lì» mi dice Tosca indicando una cornice sul muro. «Ma io che sono rimasta con 700 euro di pensione, che vuoi che me ne faccia di quei così?» L’anno scorso, non potendo permettersi un avvocato per sollecitare la Germania a pagare, Tosca e una delegazione di altri superstiti andarono a Firenze, dove il governatore Rossi aveva promesso di riceverli e mettere in atto gli avvocati del tribunale regionale. Ma non è andata bene: «Alla fine lui non si fece trovare, ci ricevette una sua vice e ci disse che ci avrebbe fatto sapere. È passato un anno e non ci hanno ancora risposto. Eppure quest’anno alle celebrazioni è venuto a fare i suoi discorsi…» L a sfilata dell’ormai ex governatore Enrico Rossi alle celebrazione dell’eccidio del Padule, presso il cippo del Piaggione con il sindaco Tesi Se non altro la riapertura dei casi giudiziari sulle stragi nazifasciste dell’ultimo decennio ha avuto un pregio: non tanto l’andare a scovare carnefici novantenni che intanto avevano avuto modo di rifarsi una vita praticamente indisturbati, non tanto il combattere contro il pericoloso revisionismo storico della Resistenza degli ultimi anni e – provoco – nemmeno per avere giustizia; secondo me il pregio principale è di non aver relegato i vari Antonio, Vittoria, Tosca e Remo nel proprio silenzio. Perché la forza di poter finalmente parlare di questa strage, condividendo il peso dei ricordi con le generazioni successive, anche se dolorosamente, ha iniziato a curare le ferite emotive di una comunità che l’inspiegabile aveva costretto al silenzio. Magari di questo passo quelle lapidi di gente insulsa, traditrice e assassina verranno tolte dai cimiteri, una volta che non sarà più tabù fare certi nomi. Adesso mi sento diverso. Grazie alle celebrazioni e all’incontro coi superstiti sento di aver raggiunto un maggior grado di comprensione di ciò che è accaduto 76 anni fa. Ma l’ennesima domanda a questo punto incombe: come sarà possibile fra dieci, venti, trent’anni fare lo stesso tipo di esperienza quando i custodi dell’orribile commedia non ci saranno più? Le istituzioni presenti agli eventi hanno parlato giustamente di trasmissione della memoria ai giovani ma, a dirla francamente, sembrano parole alquanto vuote se non corrisposte dai fatti. Perché il pericolo per la memoria, rispetto agli anni che passano, non è la distanza cronologica ma la mancanza di percezione emotiva dell’accaduto, di connessione profonda fra testimoni e posteri. E ciò la storiografia può farlo ma non completamente e, comunque, fino a un certo punto. Rimarrà la base da cui partire, certo, ma per coinvolgere più persone c’è bisogno di immedesimazione. E chi può supplire a questo bisogno meglio dell’arte? Già durante le celebrazioni di quest’anno lo spettacolo teatrale L’Eccidio messo in scena all’Arena Puccini di Fucecchio dal Teatrino dei fondi ha fornito un bell’esempio. Grazie alla magnifica prova dei tre attori e del live sketching proiettato sulla parete del palco, gli spettatori si sono potuti immergere in maniera vivida in quel 23 agosto 1944. Questa è la strada da seguire. Proprio adesso che chi ha provato a raccontare è riuscito ad arrivare in fondo, noi popolo non possiamo permetterci di non ascoltare e non portare avanti il ricordo. Le istituzioni in prima fila a Stabbia alle celebrazioni dell’eccidio del Padule 23 Agosto 2020, 76 anni dopo, il pubblico ascolta le testimonianze dei sopravvissuti all’eccidio del Padule All photos by Comitato Onoranze ai Martiri del Padule Di Fucecchio e Comune di Cerreto Guidi Share Tweet Share... Read more...Boris siamo noi, un articolo di G. Landini || THREEvial Pursuit16 Settembre 2020Boris siamo noi di Guido Landini A più di dieci anni dalla sua uscita, Boris si evolve, conquista gli spettatori su Netflix, mostra le sue molteplici facce divertenti e non. Mentre si paventa la possibilità di un quarto ritorno, raccogliamo da questa serie tante, troppe cose che ci appartengono: televisione, politica, cinismo, televisione che manda in onda la televisione. Tanto di noi insomma. La qualità ci ha rotto il cazzo. Si potrebbe scrivere un pezzo su Boris impostandolo come una critica alla televisione italiana. Ma sarebbe parziale e non temerario come Boris, perché Boris è una critica alla televisione punto e basta. Migliaia di prodotti sempre uguali, massificati e tendenti alla spazzatura; perché è quello che il pubblico vuole, ed è quello che la televisione vomita, in una sorta di nodo gordiano che è impossibile sciogliere. Tuttavia, un simile atteggiamento psicoanalitico, o fenomenologico o addirittura sociologico, puzzerebbe un po’ di già sentito. Spostando un po’ l’inquadratura invece, il taglio potrebbe essere questo: Boris è un inno alla bassa risoluzione. Perché il brutto trionfa sul bello? Perché la bellezza è soggettiva, il brutto invece sembra essere ecumenico; il brutto è concreto e deittico, genera tentazione e repulsione, il bello chiama in causa teorie, estasi, critici e cherubini e cheppalle; e poi costa di più. Ma non è finita qui. La schifezza, la merda, finisce per piacere, è legata ad una tonalità affettiva: la riconosciamo, puntandogli il dito addosso come fa uno dei meme con Di Caprio, e ci riconosciamo. Siamo noi. Nel gusto per il trash facciamo squadra, manteniamo viva una punta conservatrice che sentiamo necessaria. Perché insomma, siamo tutti d’accordo che questa roba fa schifo, ma è roba con cui siamo cresciuti, e dunque qualche valore ce l’avrà! Si potrebbe immaginare un personaggio schifoso alla De Maistre (quindi anche il dr. Cane potrebbe andare benissimo) con un bicchiere di whiskey in mano, preso a sussurrare ad uno dei suoi apprendisti schifosi: “Dateceli dai cinque ai dieci anni in prima serata, e saranno nostri per tutta la vita”. Quando manca una protezione politica… Un pezzo su Boris potrebbe prendere la piega della satira politica. Gli occhi del cuore, la fiction televisiva che sta al centro della serie, è un necrologio politico: ripudio della meritocrazia, raccomandazione come pratica endemica, sfruttamento e precarietà del lavoro, razzismo e sessismo, e chi più ne ha più ne metta. “L’Italia del futuro è così, un Paese allegro mentre fuori c’è la morte”, suggerisce uno degli sceneggiatori di Boris – uno di quelli finti. Come si costruisce il consenso? Mandando in onda Gli occhi del cuore. La fiction trash più amata dagli italiani è una bilancia politica che pesa infinitamente di più di qualsiasi attività istituzionale. E le scene e le situazioni irreali rappresentate sono strategiche, perché – si stenta a crederci – propongono modelli di comportamento: bisogna esser pronti a dire le parolacce senza senso, a far sparire gli omosessuali quando la Lega prende voti, e mai – tabù assoluto- menzionare un lutto infantile. Allora qui scendiamo nel torbido. Scrivere questo pezzo su Boris significherebbe ripercorrere l’ascesa del berlusconismo; o ancora meglio, la discesa televisivamente annunciata di una mentalità che ha fatto tabula rasa di ogni tipo di aspirazione valoriale. Boris non fa altro che raccontare i primi frutti depositati da questa mentalità. Tutto su questo set è doppio. Io sono triplo. Queste le parole di esordio per il backstage di Stanis La Rochelle (Enzo Facchetti nella vita “reale”). Una serie, Boris, incentrata sulla produzione di una serie fittizia, Gli occhi del cuore: è come se la televisione si rovesciasse su se stessa per guardarsi dentro le budella. Un altro possibile pezzo su Boris potrebbe quindi essere giocato sulla forma di un esperimento meta-narrativo. Potrebbe ambire a restituire l’impianto sterile, onanistico e auto-referenziale che ha assunto la televisione con gli anni. Perché non sembra davvero possibile riprodurre o immaginare un mondo al di fuori di una cornice mediale; pochissime in Boris sono le scene riguardanti la vita privata dei personaggi: non c’è vita al di là del set. Il mondo è il set: un luogo raccolto, costruito e senza sorprese. Non resta che riprodurre un gioco di incastri, specchi e di cornici, mentre la realtà viene tenuta sotto tiro da una pistola mediatica, e a debita distanza, perché la distanza è fondamentale in un ambiente del genere. Essere diretti e autentici diventa un controsenso (vogliamo vedere vederci), come lo è amare, perché l’esperienza dell’amore rende incoerente il personaggio creato. Amarsi diventa il diktat. Bisogna raschiare il fondo della menzogna per cavare fuori qualche verità: il cortometraggio della Formica Rossa girato da Ferretti (Francesco Pannofino) in parallelo agli Occhi del Cuore apre uno squarcio improvviso di profondità, potenza e bellezza, e il frastuono sembra zittirsi. Ma di che bellezza si tratta? È la coda del pavone, il fascino e la tristezza di trovate ipocrite che si aprono a ventaglio. Boris come una telenovela barocca. Ma fattela ‘na risata! I possibili articoli Boris elencati sopra sono davvero troppo musoni e tradiscono il genere di Boris: la commedia. Nella commedia si ride. E in Boris si piange dal ridere, chi scrive non ha mai riso così tanto guardando una serie tv. Infatti, si piange anche per il ridere: per l’ironia che è dovunque e copre tutto come un rumore bianco che sale dalla gola. Si ride per il coraggio che hanno avuto certe persone a riprodurre e mandare in onda certa monnezza. Si ride perché è vero, e perché non rimane altro da fare: le emozioni umane o sono finte, o sono basite, o sono comprabili, o sono effetti collaterali. L’ironia è la benzina della televisione. L’ironia tradizionalmente sorge in contrasto tra ciò che si vede e ciò che si sente, e quella forma di ironia televisiva funziona tramite immagini e suoni in contrasto tra loro: ciò che viene mostrato smentisce ciò che viene detto. Cogliendo l’ironia di uno spot, riconoscendo l’imbroglio, lo spettatore dimostra un’astuta superiorità e crede di trascendere la categoria stessa di cui fa parte, così come apprezzando la freddezza e il cinismo di certi programmi conferma di non essere coinvolto con quanto sta vedendo, e di sapere il fatto suo. Ma questo “svelamento” è guidato quanto il percorso della cavia in un labirinto allestito per un esperimento: l’ironia geneticamente modificata che propone la televisione viene spogliata della sua componente rivelatrice e anti-ipocrita più pericolosa. Quello che rimane è una critica radicale, distruttiva e senza contenuti, un’ironia tirannica perché sempre capace di dire “non sto dicendo sul serio”. Cinismo che allena ad atrofizzare la speranza. Boris come Bojack Horseman con un pesce rosso e senza cavalli. Boris come Infinite Jest con i nomi dei tennisti e i personaggi grotteschi. Boris che intrattiene come gli epigrammi di Marziale: quelli cattivi, sporchi e taglienti. Un’altra televisione è possibile? Chi scrive confessa di appartenere a coloro che hanno visto Boris per la prima volta su Netflix, in tempi recenti e pandemici. Boris parla al futuro, perché Gli occhi del cuore riserverà sempre qualche puntata da girare in un domani, sempre che in quel domani attori e registi non vengano sostituiti da robot (che poi a quel punto, ci si domanda cosa cambierebbe davvero: magari proprio i robot sarebbero capaci di fare un lavoro migliore). Al che questo suggerisce un pezzo aggiuntivo. Forse un’altra televisione oggi è davvero possibile, ma non nei termini che immaginavano Ferretti & Co. È possibile nel carnaio delle piattaforme di streaming, nell’armageddon dei contenuti on demand, dove la novità bruciante e l’aspettativa che ci creano attorno sono come reti calate per catturare ogni nostro briciolo d’attenzione; dove si rimane paralizzati non perché danno sempre la “solita fiction”, ma perché l’offerta è troppo ampia e bisogna scegliere. Si deve scegliere. Boris come la televisione è un contenitore di immagini, spunti e schifezze; codifica un processo, e una carrellata veloce di temi e una smarmellata di idee non basteranno a definirlo. In fondo, a volerla stringere, Boris sceneggia la storia di uno spreco. Boris parla di noi: noi italiani, essere umani. Noi spettatori. In fondo, cosa lega Lost a Un medico in famiglia? Non tanto il fatto che entrambi si vedano attraverso uno schermo; ma che sono oggetto di scelte, le scelte che noi facciamo, a cui ci dedichiamo e che ci definiscono: la libertà ridotta ai tasti digitati sul telecomando e sulla tastiera. Parla di quel tempo dedicato all’intrattenimento e che tiene in piedi l’intero baraccone: un tempo ritenuto vuoto, ma che è cruciale e brulicante di possibilità. Bibliografia Adorno T. W, How to Look at Television, in “The Quarterly of Film Radio and Television”, vol. 8, no. 3, 1954, pp. 213–235. Benjamin W., Il Dramma Barocco Tedesco, Einaudi, 1999. Dal Lago A., Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre epopee, Manifestolibri, Roma, 2010. Flusser V., La Cultura Dei Media, Mondadori, 2004. Luhmann N., La realtà dei mass media, Franco Angeli, 2000. Mantellini M., Bassa Risoluzione, Einaudi, 2018. Menduni E., I Linguaggi Della Radio e Della Televisione: Teorie, Tecniche, Formati, Laterza, 2010. Wallace D. F, E Unibus Pluram: Television and U.S. Fiction, in “A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again: Essays and Argument”, Abacus, 1998. Wallace D. F, Infinite Jest, Einaudi, 2016. Share Tweet Share... Read more...Gaming e fughe dalla realtà, un articolo di D. Petrelli || THREEvial Pursuit29 Luglio 2020Gaming e fughe dalla realtà di Dario Petrelli I videogames stanno conquistando la realtà (e non siamo in grado di parlarne nel modo giusto) Ero tutto preso a esplorare il terrazzo di quell’edificio alla ricerca di munizioni, quando un drone militare inviato da chissà dove ha iniziato ad accecarmi e confondermi con dei fasci di luce artificiale. Mi trovavo in una cittadina arsa dal sole e abbandonata, dalle costruzioni in cemento ormai fatiscenti – ero atterrato lì da circa due minuti e non avevo ancora incontrato nessuno, ma l’arrivo di quel drone significava che qualcuno in effetti c’era. E mi stava attaccando. *musichetta carica di suspense in sottofondo* Per sfuggire a quei raggi luminosi che mi impedivano di controllare l’area circostante mi sono precipitato per le scale, portandomi al chiuso dove non potevano seguirmi. Accovacciato in un angolo del desolato appartamento sottostante aspettavo che il nemico provasse a raggiungermi dai piani inferiori, fucile spianato e pronto a far fuoco non appena l’avessi visto far capolino. Ma quello non si decideva e così ho allungato lo sguardo verso le grandi finestre dell’appartamento, da cui potevo sorvegliare le strade della zona. Ormai mancava poco allo spegnimento di quel maledetto rompiballe meccanico. All’improvviso quella che pareva una sagoma umana all’interno di un edificio simile al mio, a una trentina di metri di distanza, ha catturato la mia attenzione. Sarà trascorso un secondo, non di più, mentre cercavo di capire se fosse davvero una persona o se si trattava di una colonna o che so io. Al termine di quel secondo ero morto. La sagoma aveva aperto il fuoco centrandomi attraverso finestre e appartamenti, lì nel mio caro angolino in cui mi ero sentito tanto al sicuro. Dopo meno di tre minuti venivo così eliminato dalla Battle Royale di Call of Duty Mobile, uno dei multiplayer online più giocati di questi tempi su smartphone, e mi incazzavo come una iena: per aver perso così in fretta, contro un avversario che non mi aveva dato nemmeno il tempo di capire come difendermi. Sconfitte come questa mi fanno rosicare parecchio, e se poi devo smettere di giocare possono volerci diversi minuti per tornare davvero alla realtà: devo prima levarmi il gioco dalla testa. In quei momenti la mia ragazza mi guarda e scuote il capo, un po’ divertita e un po’ in segno di rimprovero. In realtà gioca anche lei e molto spesso giochiamo assieme, ma lei sa accettare molto meglio di me le sconfitte. Il ché dice qualcosa sul mio essere un rosicone, probabilmente, ma anche sulla presa che prodotti simili possono avere sui giocatori. Una fase di gioco in Call of Duty Battle Royale Ho scaricato CoDMobile a fine marzo, in pieno lockdown, convinto dagli inviti e dalle recensioni dei vari amici che ci giocavano già da tempo o avevano preso a farlo in quei giorni – anche ragazzi e ragazze insospettabili, che non avevano mai maneggiato uno sparatutto prima e oggi affrontano battaglie virtuali con una sicurezza da veterani. Per me, che pensavo di conoscere già abbastanza bene il mondo degli FPS (First-Person Shooter) avendoli giocati sia su consolle tradizionali che nella loro declinazione smart, è stata invece un’occasione per scoprire il genere della Battle Royale. Avete presente le Battle Royale, no? Si tratta della modalità multigiocatore resa celebre da Fortnite (sebbene esistesse da prima di Fortnite) e ormai riproposta in varie salse da una moltitudine di titoli sparatutto di successo. In parole povere funziona così: vi paracadutate da un qualche velivolo su un vasto territorio dimenticato da Dio insieme ad altre decine di giocatori, raccogliete armi e kit medici, cercate di uccidere tutti gli altri partecipanti e di non farvi uccidere a vostra volta. Vince l’unico (o l’unica squadra) che rimane in vita. Fine. Ovviamente poi ogni titolo arricchisce questa modalità attraverso la caratterizzazione della mappa e dei suoi scenari (città fantasma, porti, foreste, ecc.), la possibilità di trovare armi sempre diverse ognuna con le proprie caratteristiche, veicoli da guidare per viaggiare più velocemente, e così via. Tutto molto accattivante, e anche funzionale allo scopo di differenziare l’offerta di un prodotto da quella molto simile di un competitor (preferisci lo stile cartoonish di Fortnite o quello più realistico di PUBG? Il set di abilità speciali presente in Apex Legends o quello di CoD?). Ma la sostanza, il cuore dell’esperienza di gioco, resta invariata: quando partecipi a una Battle Royale sei solo contro tutti su una landa di terra abbandonata, costretto a sparare verso qualunque cosa si muova per sopravvivere; se il tuo avatar viene ucciso sei fuori, non rientri in partita da un qualche savepoint (a meno che non giochi nella modalità a squadre, dove di solito hai qualche chance di essere riportato in vita). Una sorta di simulatore, se vogliamo, per provare il brivido di una lotta senza regole per la sopravvivenza. Quello del last-man-standing è un genere che ha iniziato a spopolare tra i videogames dopo il successo di opere come Hunger Games, e la sua evoluzione (di cui non approfondisco la storia per non plagiare spudoratamente la pagina di Wikipedia ad essa dedicata, piena di dettagli interessanti e a cui vi rimando) ha portato all’affermazione di un prodotto a modo suo unico, per i livelli di eccitazione e coinvolgimento che può generare nel giocatore. Un coinvolgimento tale da attirare l’attenzione dei media mainstream, sempre pronti a raccontarne le derive più inquietanti e le testimonianze dei tanti genitori in ambasce per la salute psicofisica dei loro figli che non riescono a smettere di giocarvi. Anche se non avete mai avuto a che fare con le Battle Royale, infatti, è altamente probabile che vi sia capitato di leggere da qualche parte sul web di ragazzini che continuano a giocare a Fortnite nonostante l’arrivo di un tornado – o, più banalmente, nonostante debbano andare in bagno. Magari saprete pure che non sono solo i più giovani a subire le conseguenze negative di questa fascinazione, dato che nel Regno Unito lo stesso gioco pare sia stato menzionato in centinaia di casi di divorzio. Ne avrete dedotto che è il solito discorso polarizzante sui videogiochi che fanno male e creano dipendenza, il solito dibattito inconcludente e superficiale che non porta da nessuna parte. E in effetti il più delle volte l’approccio è proprio quello, sebbene vi siano elementi che dovrebbero indurci a riflettere sulla direzione intrapresa da certi attori non solo nel mondo del gaming, ma in quello delle piattaforme digitali in generale. L’irresistibile variabilità della ricompensa Ogni tanto nelle Battle Royale si vince anche. Il finale di partita è forse la fase più ansiogena: sei lì con la tensione a mille perché diamine, non vorrai perdere proprio adesso che è rimasto un solo avversario – un solo sopravvissuto, come te, all’ennesimo massacro virtuale. Di solito, subito dopo un duello particolarmente tirato riesco a sentire per qualche secondo il mio cuore che batte forte. Manco fossi appena scampato a una reale situazione di pericolo. La vittoria è probabilmente il momento che più di tutti rivela la portata addictive delle Battle Royale: il rilascio della famigerata dopamina, che secondo molti sarebbe alla base dell’insorgenza di varie dipendenze patologiche, ti gratifica nell’istante in cui capisci di aver avuto la meglio su altri 99 giocatori. Ma sono diversi gli aspetti di questa modalità di gioco che hanno l’effetto di tenere il player incollato allo schermo. Ci sono gli immancabili “intermittent variable rewards”, ad esempio, ossia quel meccanismo già ampiamente sfruttato da social media, app e casinò di tutto il mondo, che consiste nel dare all’utente la possibilità (ma non la certezza) di ricevere un premio in seguito a una precisa e semplice azione (il refresh della pagina nella speranza di una nuova notifica, come la leva di una slot machine); la prospettiva di una ricompensa dall’entità variabile ci spingerebbe infatti a compiere quell’azione ripetutamente, come spiegato da Tristan Harris in un famoso articolo per Medium di qualche anno fa. Loot Box in Fortnite Tale meccanismo trova già da tempo espressione nei videogames attraverso le “loot boxes”, forzieri dal contenuto casuale che il giocatore può ottenere come premio per i suoi progressi o acquistandoli con soldi veri (il ché è un po’ un problema dato che se stai spendendo soldi non per un oggetto ma per la speranza di riceverlo, beh, c’è qualcosa che non va). Ad ogni modo, nel caso delle Battle Royale potremmo dire che il ruolo delle ricompense variabili va oltre le loot boxes e arriva al punto di condizionare le meccaniche di gioco: anche mentre inizi una partita, stai tirando la leva di una slot machine. Quando atterri in un qualsiasi punto della mappa di gioco, infatti, non hai idea di quali e quante armi troverai nei dintorni, perché l’allocazione delle risorse è casuale e viene resettata ad ogni match; né sai con certezza quanti avversari sono scesi nella tua stessa area. Non c’è un modo per esser sicuri di riuscire a formare un equipaggiamento competitivo in tempo utile per non soccombere, ti tocca scommettere: potresti raccogliere tu per primo le armi migliori assicurandoti un vantaggio sui rivali, come potresti perdere in poco tempo sotto una pioggia di colpi. Secondo alcuni, la componente di randomness – che potremmo definire come l’insieme degli elementi casuali all’interno della Battle Royale – è stata decisiva per il successo di Fortnite: il fatto che certe dinamiche della partita risultino incontrollabili sortirebbe l’effetto di incoraggiare i giocatori alle prime armi (anche il player più scarso o inesperto, con un po’ di fortuna, può arrivare fino alle fasi finali o addirittura vincere) e allo stesso tempo stimolerebbe i veterani a cercare di migliorarsi costantemente, trovando strategie sempre più efficaci per tentare di dominare il caos. Quando si gioca da mobile o tablet, inoltre, non mancano quegli espedienti classici delle app free-to-play come le ricompense per l’accesso giornaliero, gli eventi settimanali e l’invio di notifiche durante la giornata per ricordare all’utente che se non torna a giocare al più presto si perderà un sacco di cose fantastiche. Insomma, a ben guardare il design di questi videogames, è difficile non concordare con chi accusa le loro case di sviluppo di voler creare assuefazione nei giocatori. Questi giochi sono progettati per tenere l’utente connesso il maggior tempo possibile, in modo da aumentare le probabilità che spenda soldi in acquisti interni al gioco. Se la maggior parte delle Battle Royale più famose sono fruibili gratuitamente, infatti, tutte quante offrono al giocatore la possibilità di comprare oggetti per personalizzare il proprio personaggio virtuale. Nonostante si tratti quasi sempre di accessori estetici (costumi, esultanze, balletti…) che non aggiungono nulla a livello di prestazioni durante la partita, il volume di microtransazioni effettuate ogni giorno in operazioni di questo tipo genera profitti annui per miliardi di dollari. Ma ha senso puntare il dito contro questi prodotti – arrivando poi in molti casi a prendersela col mondo del gaming tout court – perché colpevoli di lucrare sulla dipendenza dei loro utenti, quando tutte le grandi piattaforme dell’ecosistema digitale sfruttano le stesse tecniche già da anni? Tecniche mutuate spesso proprio dalla sfera del gaming, in quel processo che prende il nome – per l’appunto – di “gamification”: scaliamo livelli se rilasciamo tante recensioni su Google Maps o Trip Advisor; otteniamo dei premi se siamo costanti nel connetterci a questa o quella app; veniamo gratificati dai like (la cui quantità è variabile) se postiamo contenuti che intrattengono gli altri utenti sui social network… diciamo pure che le compagnie del web devono molto al design dei videogiochi, preso a modello per lo sviluppo di incentivi sempre più efficaci a rimanere collegati. E se il problema di prodotti come le Battle Royale è legato al loro carattere violento e ipercompetitivo e all’influenza diseducativa che avrebbe sulle fasce di giocatori più giovani, cosa dire allora dell’impatto di social media e piattaforme streaming con tutto il narcisismo, l’odio, le fake news e i complottismi che si portano dietro? Scavare più a fondo Quando l’OMS, un anno fa, ha inserito la dipendenza dai videogiochi (“gaming disorder”) nella sua ICD – International Classification of Diseases, una lista che funge da standard di riferimento per la diagnosi di malattie e problemi di salute in tutto il mondo – molti psicologi ed esperti al di fuori dell’Organizzazione l’hanno criticata apertamente. Tra i motivi, il fatto che gli stessi criteri utilizzati dall’OMS per valutare la dipendenza dei gamers (ad esempio l’occupare troppo tempo coi videogiochi finendo per trascurare relazioni sociali, scuola, lavoro, ecc; oppure, giocare molto nonostante il verificarsi di conseguenze negative) potrebbero essere impiegati per indagare anche altre attività digitali, finendo probabilmente per rilevare sintomi e comportamenti compulsivi molto simili. Si tratta di un fenomeno ampio, insomma, che andrebbe inquadrato nel modo giusto. Ponendosi le domande giuste. Come scriveva Marc Lewis, neuroscienziato ed esperto in materia di dipendenze patologiche, qualche tempo fa sul Guardian nel commentare la presa di posizione dell’OMS: “Le etichette psichiatriche che identificano dei problemi psicologici, distinguendo tra di essi, possono essere utili per spingerci a prestare attenzione. Ma per identificare una dipendenza, abbiamo bisogno di scavare più a fondo – di chiederci cos’è che manca alle persone e che le spinge a dedicarsi a qualcosa in maniera compulsiva. E questo è molto più complicato.” Già, cos’è che manca, e che ci rende irrequieti? Forse gli obiettivi e le missioni che perseguiamo nelle nostre vite online sono più eccitanti di quelle che dobbiamo svolgere nella realtà di tutti i giorni. O forse il problema è che la realtà di tutti i giorni sta diventando sempre più ostile e frenetica: pandemie, guerre, crisi economiche, crisi ambientali, crisi democratiche… è una crisi continua là fuori, e star dietro a tutto quello che succede è dannatamente difficile. Ciò che le grandi aziende del digitale ci offrono, allora, è la possibilità di aggirare disagio e insicurezze, rifugiandoci in contesti fittizi che divengono sempre di più i nostri luoghi di riferimento. Sono le comfort zone della nostra epoca: il bingewatching su Netflix o YouTube, il racconto filtrato e sempre scintillante delle vite nostre e degli altri su Instagram… e i videogiochi, ovviamente. Il settore del gaming è forse quello che ha saputo rispondere meglio di tutti al desiderio di evasione del nostro tempo, e lo dimostrano i numeri riguardanti la grande crescita di gamers avvenuta negli ultimi anni; numeri che hanno subito un’impennata clamorosa, come e più di tutte le altre attività digitali, durante il periodo di lockdown (a riprova del fatto che più la realtà si fa ostile, più ci avvaliamo di questo medium). Ma aldilà delle statistiche, per capire la centralità che i videogames stanno assumendo nelle nostre vite basta osservarne la crescente capacità – di solito associata ai social media – di fagocitare categorie appartenenti alla sfera dell’intrattenimento: nel mondo di Fortnite si esibiscono le vere rap-star del momento in concerti spettacolari e interattivi, in quello di Animal Crossing vanno in onda talk show che ospitano gli avatar di veri attori di Hollywood. Eventi a cui si può assistere o partecipare attraverso i propri personaggi virtuali, in compagnia di amiche o amici o anche persone conosciute online – la socialità, del resto, è uno degli incentivi più efficaci in assoluto. Il concerto del rapper Travis Scott su Fortnite Le Battle Royale altro non sono, quindi, che una delle derive più adrenaliniche e totalizzanti del videogioco come strumento di fuga dalla realtà. Quando ci giochi, non hai tempo né spazio per pensare ai problemi del quotidiano, tutto teso come sei a tentare di pararti le chiappe per arrivare fino alla fine. Il loro design addictive rappresenta forse delle criticità che rendono questi prodotti potenzialmente dannosi per chi non riesce a staccarsene (giovane o non giovane che sia)? Può darsi, per quanto nel campo della ricerca medica e scientifica siano lontani dal trovare un vero consenso attorno alla questione. Riflettere su questi aspetti in ogni caso è importante, ma il modo in cui lo stiamo facendo rappresenta almeno due problematiche. La prima: se fissiamo lo sguardo solo sulle Battle Royale, o sul gaming, perdiamo di vista il fatto che è l’intero sistema economico digitale a essere governato da grandi compagnie i cui profitti sono indissolubilmente legati alla capacità di drenare il tempo e l’attenzione degli utenti, attraverso ogni sorta di incentivo e tipologia di contenuti. La seconda ha invece a che fare col nostro modo di rapportarci alle forme di dipendenza, inquadrandole come una patologia che colpisce chi non sa controllarsi o come la naturale conseguenza di prodotti pericolosi che danno assuefazione. Prospettive che adottiamo per semplificare (“la droga è brutta e chi la assume è debole”), ma che ci impediscono di cogliere l’ampiezza di certi fenomeni sociali e le motivazioni profonde alla loro base. Il trasferimento di porzioni sempre più grandi delle nostre vite dall’offline all’online, alla ricerca di gratificazione e semplicità, è qualcosa che riguarda la società tutta. Si tratta di un processo in essere già da anni e destinato a rafforzarsi nel tempo. È di per sé sbagliato, pericoloso o controproducente? Non necessariamente. Sta accadendo in fretta, senza che si riesca a comprenderlo appieno e a sviluppare una piena consapevolezza riguardo cause ed effetti? Pare proprio di sì. Nell’attesa che si formi un dibattito in grado di superare la solita dicotomia tra “apocalittici e integrati” del contesto tecnologico in cui ormai viviamo – e sempre di più vivremo – penso proprio che mi farò un’altra partita a CoD Mobile. Una sola, prometto. Tranne se perdo subito. Share Tweet Share... Read more...Turbocapitalismo e cinema, un articolo di S. Cegalin || THREEvial Pursuit22 Luglio 2020Turbocapitalismo e cinema Come i film hanno raccontato la minaccia neoliberista di Silvia Cegalin Le vittime del Turbocapitalismo in Sorry we missed you di Ken Loach È come una scena che si ripete: stanze anguste dalla mobilia scarna, posture stanche e visi segnati dal passaggio di un tempo che è stato carente di felicità e vaga impronta di sorrisi che ora appaiono come una manifestazione di speranze mancate. Gli occhi guardano dritti verso un futuro che nessuno dei protagonisti di questi quadri è in grado di prevedere, anche se inconsciamente ognuno sa come andrà a finire la loro storia; tentare di cambiare la propria sorte è comunque un atto dovuto: un ultimo guizzo prima dell’atto finale. Questi scenari degradati si ripetono sebbene distanti geograficamente tra di loro, perché la causa dello svilupparsi e del diffondersi di questo malcontento sociale privo di confini è generato da una malattia che corre talmente veloce da riuscire a spingere i suoi tentacoli ovunque… sto parlando del Turbocapitalismo. Come fa notare la parola stessa, adoperata per la prima volta dal controverso economista Edward Luttwark nel 1998 in Turbo-capitalism: Winners and Losers in the Global Economy, il turbocapitalismo è una forma accelerata del capitalismo in quanto influenzato dai progressi tecnologici e da scelte politiche ed economiche che hanno portato a una disumanizzazione, oltre che alla considerazione del lavoro come merce usa e getta. Se già il Capitalismo (si veda il mio precedente articolo Capitalismo: il mostro che divora il tempo libero) era quindi descritto come un mostro subdolo che condiziona i ritmi e i desideri degli individui, il turbocapitalismo non fa altro che esasperare tale saturazione negli umani, i quali si trovano a essere rispettivamente protagonisti o pedine del sistema in base alla propria disponibilità economica e quindi alla loro posizione sociale. In questo senso, una lettura interessante del turbocapitalismo è giunta dal Cinema. Se ritorniamo al quadro descritto all’inizio infatti non possiamo fare a meno di notare la sua affinità con le scene iniziali di Parasite di Bong Joon-ho e di Sorry we missed you di Ken Loach. Entrambi i film presentano un nucleo famigliare composto da padre, madre, figlio maggiore e figlia minore, che succubi di un’esistenza segnata da scarse possibilità di crescita, sia personale che professionale, cercano con ogni mezzo di migliorare la propria condizione. Sorry we missed you è il canto stanco, ma non per questo arreso, di una famiglia della working class inglese, la quale, afflitta da un’economia schiacciante che li porta a dover rinunciare al “sogno borghese” di avere una casa di proprietà, prova a dare una svolta alla propria situazione attraverso l’idea del marito Ricky di mettersi in proprio e fare il corriere freelance per conto di una grande azienda di consegne. Ricky è fattorino, Abby (la moglie) è una carer1, simboli di una gig economy in cui si è spesso umiliati e sfruttati. Chi svolge questi lavori, sembra ripetere come un mantra il turbocapitalismo, può essere trattato come uno schiavo perché il fattore fondamentale è produrre, produrre e vendere ad ogni costo anche a scapito della salute fisica e psichica: il bene dell’azienda viene prima di te. Noam Chomsky in Le dieci leggi del potere. Requiem per il sogno americano del 2008, spiega come sia proprio il Neoliberismo a provocare un divario ancora più forte tra le classi sociali, e un imbarbarimento delle condizioni e dei contratti lavorativi che hanno lo scopo di agevolare soltanto i potenti. Io, Daniel Blake di Ken Loach, altra vittima del Turbocapitalismo È il mercato, prosegue Chomsky, a prevalere e comandare qualsiasi altro aspetto della vita, e l’egemonia spostandosi dai governi statalizzati alle imprese private conduce non solo a una perdita di valori e alla distruzione della solidarietà, ma allo svilupparsi di guerre commerciali che fanno, letteralmente, dimenticare l’individuo e il suo valore in quanto essere umano; si pensi a questo proposito al film sempre firmato da Loach, Io, Daniel Blake, in cui un 59enne malato e impossibilitato a lavorare si trova a ad aver bisogno dell’aiuto dello Stato. L’uomo per ottenere i sussidi si trova coinvolto in un meccanismo a dir poco kafkiano che lo condurranno all’amara consapevolezza di quanto il sistema welfare e lo Stato siano sempre più distanti dal far vivere dignitosamente tutti i cittadini. «Mi chiamo Daniel Blake, sono un uomo e non un cane; come tale esigo i miei diritti, esigo di essere trattato con rispetto. Io, Daniel Blake, sono un cittadino. Niente di più e niente di meno». Se i film di Locke dipingono personaggi che non pretendono molto altro se non quelle piccole stabilità che permettono, banalmente, un tetto sopra la testa, del cibo e una buona istruzione per i figli; i desideri in Parasite cambiano prepotentemente, facendo ambire ai protagonisti una vita replicata sul modello borghese anche se i mezzi usati per arrivare a conquistare la cosiddetta posizione, rivelano l’ingegno e l’astuzia che solo le classi popolari sono in grado di mettere in atto nel momento del bisogno e della fame, e un’etica che non dimentica i propri “simili”. Ma perché si arriva a desiderare di più di ciò che si può avere? O meglio: perché i desideri sembrano ad oggi omologati, e gli uomini e le donne adottano comportamenti mimetici verso i modelli che propone il mercato? Riprendendo il pensiero di Heidegger, che fa da anticipatore a ciò che accadrà in modo ancora più radicale con il turbocapitalismo, ciò è spiegabile con la graduale sdivinizzazione in favore di una misticizzazione materialistica che ha invaso ogni settore. Di conseguenza, l’essere umano si trova a fare i conti con un mercato che è stato divinizzato e che vincola i suoi desideri e le sue aspettative, mentre di pari passo si verifica una svalutazione dei valori e dell’importanza della spiritualità, perché a essere considerati onnipotenti ora sono i prodotti commerciali. Se tale “teologia economica” diventa un’utopia frustrante per le classi lavoratrici, per la classe borghese essa si trasforma in mantra concreto e tangibile, e gli effetti di ciò sono ben riscontrabili nel film La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino. La vuota “teologia economica” borghese ne La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino. Sullo sfondo di un’antica Roma che però ha perso tutto il fascino felliniano, il protagonista Jep, esponente della Roma bene, incarna il classico intellettuale ricco annoiato che invece di utilizzare le proprie risorse per migliorare una situazione culturale2 alla prossimità della decadenza, preferisce abbandonarsi ai rituali delle feste inutili che hanno nell’apparire e nel consumismo il fulcro della loro esistenza. E questo scenario romano da un’autentica bellezza sfumata in qualche modo fa da eco non solo alla sdivinizzazione precedentemente citata, ma anche a una perdita di memoria storica/sociale e all’affermarsi di una prepotenza persuasiva commerciale che sono tra i principi individuabili nel turbocapitalismo. “Disarticolare e annullare la memoria è una delle condizioni fondamentali dell’affermazione planetaria del liberismo mercantile globale”3. Il sociologo Göran Therborn non a caso asserisce che sono gli effetti economici del liberismo a determinare il modo di vivere (e direi anche di pensare) delle persone, ma ciò che è interessante rilevare a fronte di questo è che nel cinema le classi alto borghesi sono spesso rappresentate come fallite dal punto di vista emotivo. Si pensi ad esempio a Happy End di Michael Haneke o alla Trilogia barbarica di Denys Arcand. Entrambi i registi descrivono esistenze che seppur caratterizzate da surplus materiale rimangono intimamente insoddisfatte, infelici, tanto da assumere comportamenti apatici nei confronti della vita: in questi film la morte indotta o anticipata sembra essere l’unica via d’uscita per dimenticare scelte superficiali o sbagliate. Turbocapitalismo “borghese” in Happy End di Michael Haneke Se il modello turbocapitalista quindi da una parte sprona la classe popolare a lavorare fino all’esaurimento per guadagnare posizioni che nella realtà mai raggiungeranno se non attraverso violenti compromessi, dall’altra conduce la borghesia a trovare nel lavoro uno sfogo, un rifuggire da sé stessi, raggiungendo sì il successo ma a scapito della propria sensibilità. Il trionfo del capitalismo non solo si manifesta tramite la manipolazione delle scelte individuali e uniformando gli stili di vita, ma a causa di un’economia neoliberista giunge a soddisfare soltanto la categoria dei grandi dirigenti, dei magnati e dei signori dell’alta finanza. Letture cinematografiche come, ad esempio, The wolf of the Wall Street di Martin Scorsese, The big short di Adam Mckay o Margin call di J. C. Chandor, raccontano, sebbene con riferimenti e punti di vista diversi, gli scenari di Wall Street e i danni provocati da scelte economiche aggressive incentrate sul binomio sfruttato/sfruttatore, perché mentre il primo si impoverisce rischiando il tracollo finanziario, il secondo, a scapito del consumatore, ingrandisce il proprio impero. Seguendo tale modello gli esseri umani rischiano di essere schiacciati dal potere sempre più crescente della merce e del denaro: “Quando il mercato è abbandonato alla sua auto-normatività, esso conosce soltanto la dignità della cosa e non della persona, non doveri di fratellanza e di pietà, non relazioni umane originarie di cui le comunità personali siano potatrici”4. Il Turbocapitalismo che regna in The wolf of the Wall Street di Martin Scorsese In linea con il pensiero sopracitato di Max Weber, sono anche economisti come Joseph Stiglitz e Paul Krugman (entrambi Premi Nobel per l’Economia) che ribadiscono come il neoliberismo supporti le grandi banche spostando i rischi connessi alla scelta di un mercato irrazionale non verso l’istituzione bancaria stessa, ma verso i propri clienti, facendoli precipitare rovinosamente. Non a caso la bancarotta del 2008 è stata pagata dai contribuenti e dai beneficiari, mentre alle banche sono giunte garanzie statali; inoltre questo tipo di economia ha innalzato il livello di corruzione all’interno delle organizzazioni finanziarie. E tali dinamiche parassitarie premiano personaggi come Jonathan Butler di Scorsese, incarnazione perfetta di una frenesia consumistica assorbita da principi machiavellici in cui l’unica regola è superarsi ad ogni costo. Se da una parte questo lupo sfrenato sfrutta qualsiasi situazione creata ad hoc dal capitalismo per arricchirsi, i protagonisti di The big short invece cavalcano, prevedendola anticipatamente, l’onda di una crisi finanziaria generata dalla speculazione del settore immobiliare e in entrambi i casi si assiste all’aumento del capitale come privilegio di pochi “eletti”. Si deduce che chi muove le redini dell’economia ne esce vincente perché attraverso i suoi tentacoli direziona le scelte e gestisce i risparmi di chi, nella scala sociale si posiziona a un livello inferiore, godendo inoltre di privilegi e standard di vita devoti a un uso sfrenato delle proprie disponibilità che, di conseguenza, fanno aumentare la sensazione di non avere mai abbastanza e bisogni (illusori) che non vengono mai soddisfatti abbastanza. D’altra parte i film analizzati svelano un malessere e un’insoddisfazione che partendo dalla classe operaia si espande fino alla borghesia, raggiungendo anche chi, teoricamente, vive una condizione adagiata dal punto di vista materiale. La perdita di valore economico pare quindi essere associata a una crisi dei valori sociali e morali, perché l’essere umano viene considerato in base a quanto può spendere e produrre, riducendo le sue qualità e capacità a semplici accessori. Gli occhi guardano dritti verso un futuro che nessuno dei protagonisti di questi quadri è in grado di prevedere, anche se inconsciamente ognuno sa come andrà a finire la loro storia; tentare di cambiare la propria sorte è comunque un atto dovuto: un ultimo guizzo prima dell’atto finale. Note 1. Per carer si intendono assistenti di anziani o disabili mentali e fisici che agiscono o in strutture private (come case di cura od ospedali) o direttamente nelle abitazioni dei pazienti. È un lavoro pagato dignitosamente ma che obbliga le lavoratrici a turni esasperanti e incerti, e a viaggi autofinanziati tra un cliente e un altro. Sono molto affezionata a questa figura in quanto ho svolto questo lavoro per un anno a Londra, e Locke lo illustra in modo onesto e veritiero: perché nonostante le fatiche, spesso con i propri pazienti si instauravano legami di affetto e amicizia che mi portava (proprio come Abby) a dedicarmi a loro oltre il tempo stabilito dalle agenzie, perché come ripetevo spesso “non sto lavorando con dei vestiti ma con delle persone”. 2. Un capitalismo che non ha soltanto inglobato le aree produttive, ma anche i campi artistici e il settore della cultura. In merito si pensi al film del 2017 The Square a firma di Ruben Östlund, ma per sviluppare questo tema dovrete aspettare il mio prossimo articolo. 3. E. Mazzi, La memoria, unico antidoto al liberismo selvaggio (1997 agosto 15), L’Unità. Anno LXXIV, n. 193. 4. M. Weber, Economia e società, vol. II, Edizioni di Comunità, Milano 1980, cit. p. 314 Share Tweet Share... Read more...Italian Lockdown – The Forbidden Photographs, un reportage di M. Castelli || THREEvial Pursuit15 Luglio 2020Italian Lockdown – The Forbidden Photographs di Marco Castelli 2020. Il coronavirus si diffonde a livello globale. L’Italia è il primo paese europeo a entrare in lockdown. È proibito a chiunque di uscire, se non per ragioni di necessità. Forse per la prima volta, ci si trova davanti a un momento storico in cui la documentazione visiva risulta intrinsecamente ed esplicitamente compromessa, collocandosi sulla linea d’ombra dei divieti contestualmente imposti. Cosa determina la legittimità della figura del fotografo, al di là di una partita IVA? Può l’occhio narrativo, in senso autoriale, riappropriarsi del diritto a un’analisi consapevole, senza dover ricorrere a letture e interpretazioni o, come sopra, a un riconoscimento legale quale il libero professionismo? In definitiva, cos’è che sancisce il discrimine tra il dovere di raccontare e la possibilità di farlo? Queste e altre riflessioni, oltre al bisogno incontenibile di documentare una fase storica – a detta di molti – senza precedenti, danno origine alla serie “Italian Lockdown – The Forbidden Photographs”. LE FOTOGRAFIE SONO STATE REALIZZATE NEL PIENO RISPETTO DEI DPCM VIGENTI. Share Tweet Share... Read more...La memoria breve dei social, un articolo di A. Rumé e C. Brunori || THREEvial Pursuit8 Luglio 2020La memoria breve dei social di Andrea Rumé e Claudia Brunori Cari lettori, il THREEvial Pursuit di questa settimana sarà un po’ diverso dal solito. Per questo abbiamo ritenuto di introdurlo e di introdurre coloro che lo hanno realizzato con queste parole. Parole innanzitutto di ringraziamento. Sì, perché Claudia e Andrea sono direttamente o indirettamente per noi delle vecchie e care amicizie ormai. Entrambi infatti fanno parte del Clowncare M’illumino d’immenso. Il progetto è attivo principalmente presso i reparti di Psichiatria, Emodialisi e Pediatria dell’ospedale di Santa Maria Annunziata di Ponte a Niccheri (FI). Da anni però l’associazione opera anche in territori devastati da calamità naturali, guerre o condizioni di estrema povertà quali Bielorussia, il Saharawi o la Palestina. Proprio Andrea raccontò ai nostri Simone Piccinni e Niccolò D’Innocenti del loro straordinario lavoro nella Striscia di Gaza sullo Streetbook Magazine #9. Da allora ci sono state altre occasioni per collaborare, per mettere in luce la realtà di certe terre, di chi le abita e di chiunque in un modo o nell’altro tenti di allungare una mano verso queste popolazioni per aiutarle a sopportare gli orrori, sempre a braccetto l’un l’altra, della guerra e della povertà. E in fondo, è di nuovo questo ciò che Claudia e Andrea hanno cercato di fare con le parole che leggerete di seguito. Un lettera “a cuore aperto” indirizzata a ognuno di noi per ricordarci quanto sia facile dimenticare. Dimenticare coloro che fino a pochi giorni fa chiamavamo “eroi”, dimenticare le sofferenze causate dalla prevaricazione delle guerre e dalle conseguenze dei disastri ambientali sui popoli una volta che l’eco mediatica su quegli avvenimenti si affievolisce e così il loro effetto sul nostro animo. Quindi, grazie a Claudia e Andre. Grazie per ricordarci che le parole sono importanti, i gesti smuovono le coscienze ma sono le azioni, quelle che durano nel tempo, ad essere giganti. *** Nella nostra realtà siamo bombardati continuamente di informazioni, notizie, valutazioni razionali sugli eventi mondiali che accadono e che suscitano in noi delle reazioni e delle emozioni, un po’ perché anche i mass media hanno il potere di enfatizzarle o sminuirle all’occorrenza con una facilità e una velocità che a volte destabilizza. Ecco perché è importante fermarsi a riflettere, ad ascoltarci, a capire che quei sentimenti sono i nostri e sono la più grande verità che possediamo… aldilà di quello che vediamo e viviamo. Sentirsi come allora: le vicende del Covid-19, i terremoti nelle Marche e in Abruzzo, brucia l’Australia, il clima uccide il nostro pianeta, gli attacchi terroristici… la guerra!!! Oggi chi sono? “Je suis …” oppure #andràtuttobene? Sono momenti tragici che riguardano la nostra quotidianità e che però hanno portato sul momento tanta solidarietà, tanto amore, tanta attenzione verso certi eventi catastrofici e fuori dal controllo umano… o quasi: ci siamo sentiti tutti vicini, ci siamo sentiti tutti in dovere di scrivere qualcosa sulla nostra pagina Facebook – per dimostrare che queste cose non ci erano indifferenti ma che ci colpivano. Eravamo solidali alle persone che hanno subito direttamente le conseguenze di tutti questi momenti, ci veniva spontaneo pensare agli infermieri e ai medici come a degli eroi, alla Protezione Civile, agli stessi Vigili del Fuoco e così abbiamo messo striscioni per le strade, fatto donazioni alle associazioni, cantato sui balconi… Insomma abbiamo dimostrato di essere persone che ci sono, che sentono e riconoscono certe figure professionali, certi eventi tragici che fanno rumore sul momento e che catturano anche la nostra attenzione, i nostri sentimenti e le nostre legittime reazioni e azioni. Momentaneamente diventiamo UMANI… poi piano piano, senza che nessuno se ne renda conto, tutto questo torna nel dimenticatoio. Col passare dal tempo sembrano venire meno certe cose, sembrano svanire e torniamo alla nostra vita… Ma la loro vita? Quella di infermieri, medici, la vita di chi è senza casa per colpa di un maledetto terremoto o per colpa di una bomba, la vita dei Vigili del Fuoco, quella di chi la vita la rischia in mezzo al mare, di chi lavora per pochi euro sotto il sole nei campi: la loro vita è cambiata? Purtroppo no. Erano infermieri e medici anche prima della pandemia e rischiavano la vita ugualmente. I Vigili del Fuoco continuano a svolgere il loro lavoro e ad eccezione di qualche applauso pubblico o mediatico ogni tanto non gli viene riconosciuto altro ufficialmente. Eppure continuano il loro lavoro, con amore e passione. Gli sfollati nelle zone terremotate ancora non sono ritornati nelle loro case e rivivono davanti ai loro occhi le tragedie di tre anni fa, perché in alcune zone ancora ci sono solo macerie… per non parlar di chi vive in zone del mondo che sembrano esser diventate zone di serie B. Palestina, Kurdistan, Sahara Occidentale, solo per citarne alcuni, e forse non abbiamo nemmeno idea di dove sono certi posti. Ma poi ecco che spunta la foto acchiappa like con il bimbo “della zona di guerra” e, da dietro il nostro schermo, sospiriamo un “uh poverino” e ci sentiamo a posto con la nostra coscienza. Si smuovono tutti quando un ginocchio sulla gola toglie il respiro a un uomo fino a farlo morire, ma quando quello che toglie il respiro si chiama Mar Mediterraneo… beh, insomma… condividiamo un gattino! O meglio il Koala del grande incendio in Australia… ma poi oh, hanno detto che aveva iniziato a piovere, sarà ricresciuto tutto. Questi sono solo esempi di quelli che per mesi, giorni, settimane diventano i nostri Social Eroi. Se sono eroi? Beh sì, lo sono veramente e non lo sono solo quando ce lo ricordiamo o quando li decantiamo: lo sono sempre, lo sono tutti i giorni anche quando noi ce li dimentichiamo. Loro sono lì, che continuano a far il loro lavoro una volta spenti i riflettori. Sono lì e nonostante tutto trovano la forza di andar avanti, anche quando tutto il mondo gli rema contro con indifferenza. Sono lì quando lottano e credono in un futuro migliore. Ma a loro interessa veramente essere degli eroi? Probabilmente vorrebbero semplicemente che venga riconosciuto il loro lavoro, i loro diritti di essere umani, la loro vita e la loro dignità. Probabilmente vorrebbero solo che la solidarietà che abbiamo dimostrato non si riducesse a un fatto momentaneo, ma si concretizzasse per una società migliore, con scuole e ospedali migliori o semplicemente con la condivisione della speranza di un futuro migliore. Una condivisione di amore… reale. Ma quelle emozioni forti che abbiamo provato, mischiate alla paura per noi e per gli altri, ci aiutano a ricordarci chi siamo, e sono fondamentali perché ci fanno sentire vivi e parte di un mondo molto più grande di quello a cui siamo abituati a vivere nella nostra quotidianità. Ci fanno sentire l’importanza della solidarietà, ci fanno sentire un’unica famiglia. E quindi proviamo a rafforzarli quei sentimenti che ci spingono a scrivere, a urlare dai balconi, a prestare attenzione. Non dimentichiamoli, non dimentichiamoci. Noi siamo questo. Share Tweet Share... Read more...La Scuola è nuda, racconti di insegnanti. Un articolo di R. Dell’Ali || Threevial Pursuit1 Luglio 2020La Scuola è nuda racconti di insegnanti di Roberta Dell’Ali La Scuola italiana è nuda, come il Re della favola di Andersen. A spogliarla, questa volta, il Covid-19. C’è di buono che finalmente quest’istituzione è tornata al centro del dibattito. L’universo Scuola, sminuzzato in migliaia di identità, taglia trasversalmente diverse generazioni ed esigenze, molteplici ruoli e servizi. Guardando alle stelle che orbitano in questo universo collassante, mi sono chiesta chi interrogare per capire. Studenti? Dirigenti? Genitori? Personale ATA? Sarebbe bello e giusto parlar con tutti loro, ma lo spazio è quello che è. Per questa volta ci concentreremo sugli insegnanti. Metto subito le mani avanti: l’esplorazione di questa galassia forse apparirà un po’ confusionaria, ma vi giuro che qua dentro si capisce poco. Approfitto della premessa anche per chiedere scusa ai miei bellissimi intervistati: ho dovuto ridurre all’osso le complessità infinite vostre e della scuola italiana, mi farò perdonare. «I bambini sono persone» Questo tour de force nella scuola italiana, dalle elementari alle superiori, da Torino a Catania, inizia con C., una giovane insegnante sognatrice. C. ha ventisette anni, è minuta e sulla testa ha lunghissimi capelli castani. C. ha studiato Scienze della Formazione Primaria a Torino e lavora come supplente nelle scuole elementari piemontesi da un anno e mezzo – anche se tra tirocini e ricerca per la tesi frequenta l’ambiente scolastico già da sette anni. La cosa bella di C. è la voglia di insegnare e raccontare il mondo dei bambini. Mi è piaciuto molto come mi ha risposto quando le ho chiesto cosa l’abbia spinta a scegliere di essere una Maestra: C. Credo sia stata l’idea di cambiare, o meglio di far parte delle vite dei bambini, che sono persone. Persone in crescita ed estremamente sottovalutate, spesso tagliate fuori dalle decisioni: senza voce in capitolo. Sempre trascurate, in particolare per entità di percezione ed emotività. Quello che emerge dalle parole accorate di C. è il distacco tra la sua idea di scuola e la realtà scolastica effettiva:C. Per me, per quello che ho studiato, la scuola d’infanzia e primaria dovrebbero dialogare con i bambini, partire dalle loro percezioni e conoscenze per accompagnarli alla scoperta del mondo. Si tratta di capire insieme a loro la realtà intorno e favorirne la libertà di pensiero: permettere ad un bambino di esplorare ed esplorarsi. Invece non è così, nelle aule a tratti sembra accadere l’opposto. La cosa più bella del racconto di C. è la descrizione della sua scuola ideale, con classi aperte e senza porte. Una scuola piena di laboratori d’arte e musica, perché «la creatività è estremamente sottovalutata e ai bambini è negato di esprimere questa potenzialità». Nella scuola di C. ci sono enormi spazi aperti: «I bimbi fanno merenda fuori e sperimentano le stagioni e i climi sulla loro pelle. Basta co ‘ste foglie secche attaccate su bianchi rettangoli A4!» sbuffa C. La scuola di C. è soprattutto dialogante, è aperta all’astratto: parla di amore, amicizia, alterità e uguaglianza. La scuola di C. racconta le fiabe. «Vorrei che Azzolina entrasse nelle classi e capisse» Signori e signori, vi presento R., appassionata quarantottenne, che vive a Catania: insegnante di sostegno «per scelta» da ormai vent’anni. Con R. facciamo una video-call ché tanto ormai è un’esperta di Zoom. Risponde al primo squillo e mi riempie lo schermo con un sorriso a zigomi alti: «Non mi aveva mai intervistata nessuno, mi sento importante» mi dice, però arrossisco io. R. ha una gran parlantina, mi racconta per sommi capi le tappe della sua carriera: magistrale, supplenze, laurea nel ’90, altre supplenze, sette anni di incarichi annuali in Pavia e provincia. Poi corsi, formazioni, laboratori freudiani, il passaggio a ruolo nel 2009 e finalmente, nel 2011 il ritorno nella sua Catania: «Mi mancava il mare» dice in un soffio. Com’è stato il rientro a Catania?R. Ero molto felice di essere a casa, ma i primi anni sono stati scolasticamente difficili. Ho insegnato in delle scuole di frontiera, a Fortino, una zona problematica di Catania; lì ho visto situazioni indescrivibili, che fanno male al cuore, realtà per cui non c’è cura né attenzione. Ci sono sacche di disagio enorme nella nostra società, vorrei che Azzolina entrasse nelle classi e capisse cosa significa stare in strutture senza tavoli, gessi e banchi a sufficienza. R. lavora da ormai molto tempo come insegnante di sostegno e mi racconta con trasporto dei suoi bambini. La vedo commuoversi quando mi dice l’emozione di Chiara che impara a leggere dopo tanti sforzi e tanti anni, Chiara la sua prima alunna che «ormai è una donna». Le parole di R., oltre a tanta bellezza, raccontano una negligenza pesante a opera del Ministero e del corpo docenti. L’amarezza della sua voce arriva al culmine quando mi racconta di Manuel, «u ghoia miu». L’appellativo è vero, il nome di fantasia. R. Essere un’insegnante di sostegno significa innanzitutto non avere sostegno. Nella maggior parte dei casi il nostro ruolo di maestr* si riduce al tenere i bambini fuori dalla classe, la cui funzione viene assorbita in toto dall’insegnante di sostegno. Manuel è un bambino che seguo da ormai tre anni, da quando ne aveva 7. Lui è un bambino molto fragile, è un F93, il ché in questo caso vuol dire una sfera emozionale tagliata in due, un’emotività drammatica che fatica molto a sostenere il senso dell’altro. Il primo giorno che sono entrata in classe, quando ho preso Manuel in carico, lui stava rannicchiato a terra, vicino al cestino. Piangeva e basta. Non sapeva né leggere né scrivere e le mie colleghe non pensavano competesse loro coinvolgerlo o aiutarlo. La buona notizia è che Manuel oggi, alla veneranda età di dieci gloriosissimi anni, è un bambino splendente. Legge moltissimo e bene ed ha sviluppato un amore spropositato per Prometeo – sospetto per influenza della maestra, stupendamente incline al mito e alla letteratura. Nell’innamoramento per la storia di Manuel mi viene naturale chiedere a R. come siano andati questi mesi di lockdown e DAD (per i profani, Didattica A Distanza):R. Per Manuel la DAD non è stata proponibile, senza considerare che inizialmente non aveva nemmeno un dispositivo con cui fare lezione, è stata la scuola a prestargli un tablet. La scuola online è la depersonalizzazione totale dell’insegnamento: i bambini erano scompensati, scappavano e si nascondevano. Spesso Manuel mi diceva che non capiva ed era stanco: non siamo riusciti a fare quasi niente di nuovo, solo un po’ di analisi grammaticale al telefono. In ogni caso da due settimane io e Manuel abbiamo iniziato a vederci ogni sabato mattina a casa mia, così recuperiamo il condizionale e gli avverbi. Le mie colleghe dicono che non sono professionale, ma io me ne fotto, non voglio lasciare Manu indietro… la parolaccia toglila eh . The MAD people M. e S. sono due ventiseienni rampanti che vivono a Bologna, una letterata e uno storico. L’intervista s’è svolta in una chiamata a tre su WhatsApp: tutt’ e due belli come il sole. Uno a Marsala e l’altra in Abruzzo. M. e S. sono stati interpellati dalla mia curiosità in quanto rappresentanti del popolo MAD. La MAD, nota anche come Messa A Disposizione, è una creatura temibile che domina le vite di moltissimi giovani insegnanti. Un mostro famelico che mangia un po’ tutti, ma ha un particolare amore per il sapore agrodolce dell’umanista. Questa cosa immaginatela un po’ come se fosse un’intervista a due delle Iene, okay? M. sta nel riquadro a destra, S. a sinistra. La prima cosa che voglio sapere è come definirebbero la MAD:M. Mm… io l’ho sempre spiegata come una disponibilità privata che tu mandi alla scuola. Una candidatura spontanea, estranea a ogni tipo di graduatoria o fascia. Tu comunichi alle singole scuole che sei a disposizione per riempire le cattedre scoperte. S. Mah… secondo me ci sta dire che la Messa A Disposizione sia esattamente un mettersi a disposizione. Mi sembra che concluda da sé il significato: tu ti metti a disposizione del buco che devi tappare… Questa però non è una definizione, non la puoi mica scrivere! S. e M. si sono laureati l’anno scorso, entrambi a marzo del 2019. Da allora hanno (quasi) sempre lavorato nelle scuole come supplenti, inviato MAD in tantissime scuole in tutta Italia. M. ha lavorato per due mesi in un liceo artistico in provincia di Reggio Emilia, poi in una scuola media in provincia di Parma, otto mesi di servizio per un totale di quattordici rinnovi di contratto. S., dal canto suo, ha tastato varie province: Reggio Emilia, Ravenna, Milano, Torino, Modena e Ferrara. Quando gli chiedo un commento sul sistema MAD mi rispondono così:S. Io ho l’impressione che il sistema MAD sia totalmente casuale: non tiene conto delle competenze né delle precedenti esperienze. Tutto è volto alla casualità. Tu invii una domanda preimpostata alle scuole e, a volte, all’improvviso, giunge la chiamata di una scuola come grazia divina. Nella maggior parte dei casi chi chiama non si preoccupa di verificare le competenze del candidato MAD e nemmeno di informarlo su quel che deve andare a fare. Io l’anno scorso mi sono ritrovata a fare un sostegno alle elementari, senza essere preparata e tanto meno avvisata: buttata dentro la scuola. L’esperienza di M. è grosso modo la stessa e fa emergere un altro punto cogente: la totale instabilità creata da sistema MAD:M. La burocrazia e le segreterie spesso sono un ostacolo, la questione più avvilente è quella contrattuale, priva di qualunque prospettiva di stabilità, sulla quale non abbiamo nessuna voce in capitolo. Loro ti chiamano, tu puoi solo rispondere sì o no. Il tempo per riflettere non c’è: sì o no? Per non parlare poi dei rinnovi di contratto: non è mai comunicato per tempo, se lo fanno è un favore. E se questo è un disagio per noi, the MAD people, è un disastro emotivo e relazionale per gli studenti: quest’anno ho visto piangere la mia classe infinite volte, ogni quindici giorni, per un intero anno, ho annunciato la possibilità che non ci potessimo vedere più. Una relazione che nasce e cresce nell’ombra della fine. Mentre parliamo è un pigro martedì di giugno e nel cielo marsalese di M. iniziano a rimbombare dei fuochi di artificio, non capiamo perché ma la cosa ci fa ridere. La conversazione prosegue ed emerge un dato tanto curioso, quanto noto:S. La situazione a scuola è sempre drammaticamente immobile. Credo che il problema sia proprio questo: diventare insegnanti a pieno titolo è così difficile e angoscioso che poi le persone, una volta preso il posto, non lo mollano più. L’idea che mi sono fatta in un anno e mezzo a scuola è che l’insegnante di ruolo sia tendenzialmente uno che non ha voglia di lavorare e trova tutti gli escamotage possibili per non farlo. È come se una volta che si è di ruolo il posto non te lo possa togliere nessuno: tutto diventa concesso. Quest’anno, a Ferrara, ho supplito per cinque mesi (con quattro rinnovi di contratto) un docente che era noto per la sua attitudine all’assenza: uno che non lavora per niente, neanche quando è in classe ché crea un sacco di problemi e va avanti così da anni. Eppure ha percepito il 100% dello stipendio e conserva il suo posto fisso. Quasi sempre dalle scuole viene dato per scontato che tu agisca come se quello fosse il tuo posto, nonostante tu sia solo un supplente con un contratto che dura – forse boh chissà – una settimana. Pretendono che tu sia in grado di dire: “sì, faccio la coordinatrice” o “sì, certo, li accompagno io in gita ad aprile anche se il contratto scade a Marzo”. Alla fine, però, sembra solo di essere alla mercé degli umori dei docenti di ruolo. M. concorda su tutto, ha esperito sulla sua pelle le stesse mancanze. Poi confessa un po’ romanticamente che vuole fare l’insegnante «perché stare in aula è proprio fico. È emozionante vedere l’interesse scatenarsi in un sedicenne davanti a una poesia o una canzone. Ed è impagabile leggere come ogni studente declini ciò che ha imparato attraverso le proprie emozioni e inclinazioni». «Siamo preda degli avvocati e dei politici» Perdonatemi se salto un po’ di palo in frasca: il dono della sintesi ce l’ho a metà, invece a far salti pindarici son bravina. A metà giugno, una mattina calda calda, sono passata a salutare F.: quarantanove anni, occhi giganti e verdi che mi incantano, nonostante la conosca da sempre. F. è madre di due figli ormai adolescenti, è siciliana e vuole restare a casa sua. F. fa parte di quella categoria di insegnanti che passano la vita a fluttuare in cima alle graduatorie, navigando nel mare magnum di punteggi, fasce, leggi e attese. Ha recentemente ottenuto il passaggio di ruolo, ma con la beffa di contorno: sede prima ad Arezzo e poi a Roma, dopo una vita immolata al precariato per rimanere al Sud. F. Da quando ho iniziato io a ora, la struttura della scuola è completamente diversa. Io mi sono laureata nel ‘99 e il concorso era uscito qualche mese prima. Il successivo concorso per le superiori è stato nel 2016. Questo era l’andamento normale: graduatorie che rimanevano 16-17 anni, però c’era anche la GAE, graduatoria ad esaurimento. Dal 2016 le cose sono cambiate: la legge 107 stabilisce che ogni due anni ci debbano essere concorsi. Il ché sarebbe anche giusto, se non fosse che c’è gente che ancora aspetta dal 2016 e resta ancora sospesa, con anche i concorsisti del 2018. Anzi, che dico, il concorso del 2016 nel frattempo è decaduto. F. ha avuto supplenze mediamente lunghe in quattordici, senza contare tutte le miriade di supplenze brevi né i paritari: «Qui nei dintorni ho insegnato a tappeto in tutta la provincia di Ragusa (Vittoria, Modica, Scicli, Pozzallo, Ispica…) poi anche a Siracusa, Avola, Rosolini, Agrigento e Licata. Ultimamente anche ad Arezzo e Roma» dice F., e si rabbuia. Mentre mi racconta l’iter infinito che l’ha condotta a Roma, vengono fuori storture infinite del sistema. Mi racconta di tanti sotterfugi burocratici spudoratamente attuati da enti ed istituzioni, poi F. mi porge la tazzina col caffè e, rassegnata, mi dice: «In Sicilia funziona così». La carriera (e di riflesso buona parte della vita) di F. si snoda attraverso traumi legislativi: Gelmini, le classi pollaio e, poi, la ferita più grande: la legge 107. F. La legge 107 di Renzi ha creato una confusione indecente. La famosa legge delle 100 province che doveva risolvere il precariato scolastico. Sì, certo. Peccato che io abbia due figli, un marito, una casa una vita, quasi cinquant’anni e la sede scolastica a Roma, che non mi appartiene e che non ho scelto. Con la legge 107 noi che eravamo in GAE siamo finiti sparsi: tra i compagni di graduatoria, la precedenza di restare è andata a chi aveva figli piccoli, giustamente; gli altri posti sono andati ai vincitori del concorso del 2016. A noi sono rimasti gli scarti: i posti sul cozzo della montagna, quelli che non vuole nessuno. La 107 è stata una violenza, un aut aut: “Tu insegnante che sei nella GAE, o fai la domanda e io ti porto dove voglio oppure la GAE il prossimo anno non esiste più e quindi stai a zero”. In realtà poi non è stato così con la GAE: son stati messi in mezzo avvocati. Si sono dimenticati di noi. Tre anni fa fiottavano promesse di tempi celeri, Di Maio sventolava slogan, come tutti. È il 2020 e siamo sempre qui. Ascolto F., la vedo trattenere la rabbia col pugno stretto sul tavolo. È stanca, triste, in fondo arresa. Mi torna in mente una celebre frase: “Bisogna cambiare tutto per non cambiare niente”, ed è proprio vero. «Credo che sia una questione tipicamente italiana» Dulcis in fundo, amici miei, c’è G. Ultima voce di questa saga un po’ curiosa, una voce acuta e abile a osservare. G. è una professoressa sessantenne di Latino e Greco; in parte se sono finita a fare quello che faccio è un po’ colpa sua (e per questo le voglio bene). G. è sempre molto elegante, anche adesso mentre sorseggiamo tè fresco e granita al limone, circondati dai fiori della sua veranda. Lei ha iniziato a insegnare nel 1992, con delle supplenze in un liceo, poi per qualche anno anche in scuole private. Nel ’98 una lunga supplenza per la cattedra di Filosofia. Nel 2000 partecipa al concorso e cinque anni dopo passa definitivamente passata di ruolo. G. Il classico percorso di un docente medio della scuola italiana: precariato per tanto tempo in diversi posti, poi finalmente il concorso e, dopo qualche anno, il ruolo. Io sono stata anche fortunata perché ho potuto scegliere di fare quello che volevo, cioè latino e greco. Conosco G. da un bel po’ di tempo ormai ed ero profondamente convinta che lei fosse stata sempre di ruolo. Scoprire che anche lei ha vissuto un lungo periodo di precariato fa crollare quell’idea aurea che avevo della passata scuola italiana. Ingenuamente le chiedo se il precariato c’è da sempre e lei mi risponde così: G. Certo, da sempre e per sempre. Alcune volte s’ingolfa, altre si diluisce, poi s’ingolfa di nuovo: io sono stata precaria per molto tempo, allora come ora, le leggi continuavano a cambiare: adesso si passa di ruolo più giovani, ma è un dato relativo. G. dice così e le campane della chiesa dietro casa sua iniziano a suonare rumorosamente: curioso, non vi pare? Parlo con G. per un bel po’: forse toccherà anche a me di far la professoressa e ho bisogno di capire. Quali sono le crepe della scuola? Da dove iniziare a ricostruirla? Secondo G. «la falla più grossa del sistemo scolastico italiano è nella formazione dei quadri: non si arruolano così i docenti». G. Non si possono selezionare gli insegnanti solo in base al criterio della conoscenza. È necessario valutare anche la nostra competenza di docenza: non è possibile che non esista nella formazione della scuola italiana un percorso psicoattitudinale per gli insegnanti. E credimi, Roberta, non sono baggianate. Sono molti i docenti che insegnano tanto per insegnare, perseguendo obiettivi trasversali che niente hanno a che vedere con la costruzione del cittadino. Questo è importante ovunque nella scuola, ma è particolarmente incisivo alle superiori. Noi lavoriamo nella fase finale della formazione di un individuo, la fine di un percorso da cui viene fuori la persona, il lavoratore, l’universitario. Questo scrivilo, ci tengo. Secondo G. l’altro grande problema della scuola italiana è di ordine strutturale-logistico: G. La condizione strutturale della scuola, in senso fisico, è impraticabile: le scuole italiane sono mediamente vecchie e obsolete. La scuola è un luogo in cui delle persone vivono un terzo della loro giornata (parlo di docenti, studenti e personale). Mi sembra il minimo allora che le scuole somiglino più a luoghi in cui vivere e non, come attualmente, a luoghi di sopravvivenza. La questione è capillare. In questo periodo, per ovvie contingenze storiche, ci ritroviamo a parlare di “scuola digitale”. Ma manca tutto: la strumentazione, la rete, i computer e lo spazio per vivere il computer e la rete. Parliamo da sempre di progetti pomeridiani e poi non abbiamo lo spazio per fargli mangiare il panino. Sono problemi, vanno risolti. La chiacchiera con G. volge al termine, sto recuperando il tabacco dal tavolo e ho già chiuso il quaderno dove ho appuntato tutte queste storie di insegnanti. In calcio d’angolo commento le sue ultime affermazione e le chiedo un po’ retoricamente se le istituzioni e la politica si curino dei nostri studenti. G. fa una smorfia:G. No. E mi sono sempre chiesta se al ministero ci siano dei pazzi, in questo periodo più che mai. Credo sia una questione tipicamente italiana: esiste nella nostra società un duplice scollamento. Il primo tra il Paese reale e la politica, l’altro tra il Paese reale e i ministeri – che dovrebbero essere altro dalla politica. È tutta una classe di burocrati che non sa di cosa parla. Ho sempre l’impressione che sfugga al ministero ciò che avviene a scuola, come se quello che facciamo tutti i giorni non gli interessasse o non lo sapessero affatto. Personale ATA: personale Amministrativo, Tecnico, Ausiliario (cfr. segreteria, bidelli, tecnici di laboratori, bibliotecari, etc. etc.) Traduci: la mia gioia Share Tweet Share... Read more...Memoria ed escapismo, un articolo di D. Petrelli || THREEvial Pursuit24 Giugno 2020Memoria ed escapismo di Dario Petrelli Ho un rapporto conflittuale con il mio cervello. Ci sono volte in cui decide per conto proprio di riavvolgere il nastro dei ricordi e gettarmi nel passato, non necessariamente per rivivere esperienze esaltanti, anzi: non di rado mi mostra quelle in cui sono stato un perfetto stronzo o ho fatto una cazzata. Mi capita soprattutto di mattina, quando sto facendo colazione o sono sul bus per andare al lavoro – magari perché nelle prime ore da svegli la mente è ancora influenzata dalle atmosfere visitate in sogno, ma non saprei dirlo con certezza perché io i sogni li dimentico quasi sempre. Ad ogni modo, mi ritrovo catapultato in tempi che furono e non sono più, e faccio fatica a riprendere il controllo e a tornare nel presente. Altre volte, lo ammetto, sono io stesso a incedere tra i corridoi della memoria, soffermandomi sui momenti più belli, quelli in cui magari mi sono sentito completo o realizzato. Da qualche parte su un Moleskine ho scritto che i limiti della memoria sono necessari e funzionali a non farci perdere nei labirinti della nostra mente… quando viaggiamo per troppo tempo fra le strade e i paesaggi sperduti dei nostri ricordi, a un certo punto siamo costretti a fermarci perché non abbiamo più territori da esplorare, la nostra memoria ha raggiunto i suoi confini, e al massimo possiamo immaginare altro, ma non siamo capaci di ripercorrere tutta la nostra vita a ritroso. Il che non è così scontato come sembra. Pensateci, l’impossibilità di richiamare alla mente ciò che abbiamo vissuto nei primi anni della nostra vita, ad esempio, tende ad apparirci ovvia; ma il cervello umano avrebbe anche potuto evolversi diversamente, consentendoci di immagazzinare ogni esperienza in un archivio accessibile a nostro piacere quando ci andasse di consultarlo. E invece no: a parte gli incredibili casi di individui come Ireneo Funes e Raymond Babbitt, il nostro grigio organo supremo archivia e protegge i ricordi in base a requisiti di importanza, necessità, sensazioni provate, e altri parametri che sinceramente non so e non conosco perché – ehi, io sono solo un tizio che sta sproloquiando sul proprio computer. E comunque Ireneo Funes e Raymond Babbitt non sono mai esistiti, anche se sono i protagonisti di storie molto belle. Come mai la nostra memoria non si è evoluta in maniera tale da conservare il ricordo di tutte le situazioni che esperiamo nel corso della vita? È una questione di energia, di finitezza delle risorse cerebrali? E allora perché esistono casi eccezionali di persone davvero in grado di ricordare tutto o quasi tutto ciò che gli è accaduto (ok, Funes e Babbitt sono personaggi di finzione, ma provate a cercare Kim Peek o Jill Price sul web)? Probabilmente dovrei girare queste domande a una neurologa, ma dato che non ne conosco e interrogativi come questi mi affascinano da sempre, ecco la conclusione a cui sono giunto senza alcuna pretesa di veridicità: i limiti della memoria servono, appunto, a tenerci ancorati all’unica linea temporale che conta davvero – quella attuale. La vita è ora, e non possiamo permetterci di assentarci troppo a lungo naufragando in un mare di situazioni passate e andate per sempre – da un momento all’altro potrebbe spuntare una tigre dal cespuglio accanto a noi, rendendo noi stessi soltanto un ricordo nella testa di qualcun altro. È per questo, vi dico, che non possiamo sostare a tempo indeterminato nella nostra memoria. E poi, ammettiamolo, i ricordi sono sopravvalutati e ingannevoli: essi fissano nella nostra mente soltanto una versione dei fatti, un’interpretazione di quello che è successo – nemmeno sempre e necessariamente la nostra! – un’interpretazione che potremmo scoprire essere molto lontana da quella di altri che condividessero il ricordo di quegli stessi accadimenti. E i ricordi sono soggetti alla nostra tendenza a idealizzare il passato, che ci porta spesso a volerlo rivivere, quando esso è ormai per definizione passato, appunto, e siamo cambiati noi e il mondo attorno a noi e nessuna esperienza può davvero esser vissuta due volte alla stessa maniera. Beh ma anche l’immaginazione, direte voi, può distrarci e allontanarci dal presente – e avete assolutamente ragione, e infatti io credo che il ricordare e l’immaginare siano state le prime attività escapiste praticate dalla nostra specie. Ma ci pensate al primo essere umano che ha scoperto di poter dirottare il corso dei propri pensieri, dal qui e ora e non solo verso il passato, ma addirittura verso il futuro o verso percorsi puramente immaginativi e probabilmente impossibili e imperseguibili? Chissà se ha provato una sensazione orgasmica in quel momento – considerando che di lì a poco avrebbe scoperto che poteva anche provare un orgasmo vero e proprio con l’aiuto della fantasia – o se non si è nemmeno reso conto del passo evoluzionistico assurdamente lungo che aveva appena compiuto. Ma sto divagando. Dove ero arrivato? Ah, sì: la memoria è uno dei primi dispositivi di fuga dalla realtà che la nostra specie ha creato per sé stessa (volendo definire realtà come l’insieme delle percezioni che caratterizzano il qui e ora). Astrarci dal presente ci piace così tanto che nel corso della storia abbiamo inventato sempre più modi per farlo, fino ad arrivare, oggi, a un’epoca in cui il business dell’intrattenimento muove miliardi di euro/dollari/yen ogni giorno. Sono anch’io un discreto evasore del presente, e oltre alla lettura, ai videogames, ai film e alle serie tv, allo sport e al calcetto, mi piace calarmi in viaggioni mentali immergendomi in ricordi, pensieri, riflessioni di ogni tipo, perché usare la mente per distrarsi, per fortuna, è ancora gratis e largamente accessibile – non occorre nemmeno sorbirsi annunci o brevi spot pubblicitari per fruirne. Nonostante questi indubbi vantaggi, sono ancora indeciso riguardo i benefici del vagare nei quando e nei dove della memoria. Siamo abituati a pensare che ogni attività, se abusata, può condurre a conseguenze negative e credo che anche questa non sfugga alla regola. In fondo, lo sappiamo, il tempo a nostra disposizione è limitato e siamo condannati a tentare continuamente di farne buon uso. Il nostalgico che passa troppo tempo tra i ricordi (o le illusioni) di un passato ormai andato, non rischia forse di sprecare le possibilità del presente allo stesso modo di coloro che vivono tendendo i propri sforzi esclusivamente al raggiungimento di un obiettivo futuro? Ma poi, come si fa a godersi davvero il presente, se esso altro non è che un filo che brucia e si esaurisce nell’esatto momento in cui lo viviamo? Non so, non sono in grado di rispondere a queste domande e credo che ognuno sia costretto a trovare il proprio equilibrio. È per questo, dopotutto, che il nostro cervello ci impone certi limiti. Almeno credo. Share Tweet Share... Read more...Statue War: The Birth of a Question, un articolo di C. Francioni || THREEvial Pursuit17 Giugno 2020Statue War: The Birth of a Question di Chiara Francioni In seguito alla morte di George Floyd, avvenuta lo scorso 25 maggio a Minneapolis, negli Stati Uniti – e non solo – il movimento Black Lives Matter ha dato vita a significative proteste che hanno messo in luce il più infiammato dei nervi scoperti della cultura americana: la questione razziale. Senza dilungarmi sul contesto generale, che di certo può essere trattato meglio da chi è più competente di me, vorrei limitarmi ad approfondire un unico tema, che ha però trovato ampio spazio nel dibattito pubblico. Si tratta della questione concernete la sorte dei monumenti controversi che, oltreoceano, ha preso il nome di “Statue War”. Recentemente, e proprio in seguito ai fatti del 25 maggio scorso, il tema è nuovamente tornato alla ribalta, anche per effetto delle iniziative dei manifestanti che sono passati all’azione, imbrattando, decapitando o addirittura deponendo talune delle effigi incriminate. L’argomento appare divisivo: da un lato c’è chi plaude la manifestazione ideologica che sorregge il neonato movimento iconoclasta; dall’altro chi denuncia gli atti di deturpazione. In questa sede cercherò quindi di spiegare perché, in realtà, dovremmo prestare molta attenzione a tale forma di denuncia. Quali monumenti sono oggetto di controversie? Premetto che, per esigenza di sintesi, ho scelto di concentrarmi solo sull’esperienza statunitense, sia per fare eco alle proteste degli afroamericani, sia perché mi è sembrato opportuno approfondire adeguatamente il tema trattato. Magari, in futuro, potrebbero seguire retrospettive sulla situazione europea, in generale, e italiana, nello specifico. Dato tale assunto, i monumenti al centro dell’occhio del ciclone sono quelli dedicati al mito sudista che ritraggono o commemorano politici e militari confederati, come Jefferson Finis Davis o Robert Edward Lee. Perché sono stati presi di mira proprio questi monumenti? Il movimento Black Lives Matter nasce negli Stati Uniti tra il 2013 e il 2014 come forma di reazione alla brutalità delle forze dell’ordine e alle pratiche di profilazione razziale, facendosi inevitabilmente portatore delle generali istanze anti-razziste degli afrodiscendenti. La morte di George Floyd ha dunque operato da innesco per la miscela esplosiva che, durante un secolo e mezzo di discriminazione, ha visto crescere a dismisura il proprio potenziale distruttivo. Basti pensare che l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti, così come nel resto del mondo occidentale, è un fatto relativamente recente e verificatosi quasi cento anni dopo il varo della Costituzione del 1789. Quest’ultima fu infatti adottata grazie a un compromesso storico che consentì di unire, sotto la bandiera federale, gli stati del Nord e quelli del Sud, fortemente contrapposti in merito alle sorti della schiavitù: i primi favorevoli all’abolizione dell’istituto, i secondi contrari. In altre parole la Carta costituzionale riconosceva solo implicitamente il potere del Congresso di abolire il sistema basato sulla tratta degli schiavi, stabilendo che l’organo parlamentare non avrebbe potuto impedire l’importazione di quelle Persone (non vennero mai usati termini come “schiavo” o “negro”) sino al 1808 (anno in cui venne poi effettivamente proibita la tratta, ma non ancora il diritto di possedere uno schiavo). Nel 1861, in seguito alla vittoria di Abraham Lincoln alle presidenziali, un gruppo di stati del Sud, preoccupati dalle prese di posizione abolizioniste del neoeletto presidente, si staccò da Washington, dando vita alla Confederazione. La secessione venne formalizzata con l’adozione di una nuova costituzione e con l’istituzione di un governo autonomo, guidato da Jefferson Davis. L’articolo 1 della Costituzione Confederata prevedeva, senza mezzi termini, che nessuna legge avrebbe potuto abolire la schiavitù e, in questo caso, furono impiegati sia il termine “schiavo” che “negro”. Scoppiò così la nota Guerra civile americana che vide contrapposto l’esercito dell’Unione (Nord) a quello confederato (Sud). Benché gli americani tendano a giustificare le ostilità con motivazioni collaterali (ad esempio il conflitto economico), la realtà è che il vero fulcro degli scontro fu proprio la sorte dello schiavismo. La guerra terminò con la vittoria dell’Unione sui confederati nel 1865, anno in cui fu finalmente proclamato il XIII emendamento della Costituzione, che abolì in modo assoluto l’istituto della schiavitù. Seguì una prima stagione di riforme federali – passata alla storia con il nome di Ricostruzione – volte a favorire l’emancipazione e l’integrazione degli ex schiavi (freedmen) nel tessuto sociale e giuridico statunitense. Tuttavia, sempre nel 1865, a Pulaki (Tennessee), fu fondato il Ku Klux Klan, che si pose come primo ricettacolo dei malumori dei confederati sconfitti e che rimase in essere sino al suo scioglimento per provvedimento federale, intervenuto nel 1871. Quando Washington cominciò a manifestare disinteresse per il processo di integrazione negli stati del Sud, la classe dirigente locale ebbe la possibilità di riaffermare l’egemonia bianca, neutralizzando, di fatto, i traguardi raggiunti in precedenza. Tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX vennero, così, adottati numerosi provvedimenti attuativi della celebre dottrina “separati, ma uguali”, meglio noti come Leggi Jim Crow (dal nome di una macchietta caricaturale interpretata dall’attore Thomas D. Rice con tanto di blackface). Tali provvedimenti avevano come fine quello di garantire la segregazione razziale e la conseguente ghettizzazione degli afroamericani. La dottrina discriminatoria fu avallata, nel 1896, anche dalla Corte Suprema con la famosa sentenza del processo Plessy v. Ferguson, per mezzo del quale venne espressamente sancita la costituzionalità delle leggi statali che favorivano la separazione fisica tra bianchi e neri. Intanto, a New York, in opposizione alla deriva suprematista del Sud, nasceva la National Association for the Advancement of Colored People (NAACP), prima promotrice delle battaglie per l’uguaglianza civile che avrebbero infiammato gli anni ’50 e ’60. Nel 1915, di contro, fece la sua comparsa il nuovo Ku Kluz Klan, rinato come Silenzioso Impero del Sud e animato dall’intento di riscattare la razza bianca e mantenerne ferma la supremazia. Il nuovo Klan trovò terreno fertile anche grazie alla politica segregazionista dell’allora presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson e all’incredibile successo del film Birth of a Nation, rilasciato proprio nel 1915 e passato alla storia come il primo blockbuster americano. La pellicola offriva una narrazione razzista ma largamente condivisa della Ricostruzione, rappresentando i neri come bifolchi e predatori sessuali di donne bianche e, di fatto, esaltando il pensiero suprematista. Un primo importante segnale progressista fu il mutamento di orientamento della Corte Suprema che, nel 1954, condannò la segregazione nelle scuole (Brown v. Board of Eductaion of Topeka). Le leggi Jim Crow vennero infine rese del tutto illegali nel 1964 con l’adozione del Civil Rights Act e nel 1965 con il Voting Rights Act, traguardi che furono resi possibili grazie alla stagione delle lotte per i diritti civili, che vide la mobilitazione di figure dal forte carisma come Martin Luther King Jr. e Malcom X. Non occorre precisare che, anche dopo il tramonto della dottrina “separati, ma uguali” la questione razziale ha continuato a avvelenare gli animi, fino a sfociare nell’attuale ondata di proteste che ha ormai coinvolto tutto il mondo occidentale. L’excursus storico appena delineato è indispensabile per compiere il passaggio successivo, ossia l’esame delle origini della c.d. Statue War. È ormai noto che le centinaia di statue raffiguranti politici e soldati confederati, in alcuni casi connessi al KKK, siano state erette con un chiaro intento propagandistico, volto cioè alla riaffermazione dell’egemonia bianca a fronte dell’abolizione della schiavitù. È interessante, in questo senso, il diagramma diffuso nel 2017 dalla CNN, dal quale emerge l’evidente tendenza a erigere statue e monumenti commemorativi della cultura confederata in concomitanza della radicalizzazione del conflitto razziale: in particolare si osservano i picchi verificatisi tra il 1900 e il 1920 (in piena epoca Jim Crow) e negli anni ’60 (quando i movimenti contro la segregazione raggiunsero il massimo del loro vigore). Fonte Cnn La c.d. Statue War tuttavia non è, come in molti credono, un neonato vezzo manifestatosi in conseguenza dell’incresciosa morte di George Floyd. Ormai, infatti, da tempo si dibatte su cosa fare dei monumenti in questione, anche se la conclusione della querelle, in molti casi, è coincisa con il mantenimento delle effigi o in eccessivi temporeggiamenti. Basti pensare alle ormai note statue del generale Robert E. Lee di Charlottesville – divenuta celebre per i tragici fatti dell’agosto 2017 – e di Richmond, le quali, nonostante l’avvio della procedura di rimozione, si trovano ancora al loro posto a causa di lungaggini burocratiche. È notizia di questi giorni la temporanea sospensione dello smantellamento della statua equestre di Richmond, decretato all’inizio di giugno, per effetto di un provvedimento cautelare adottato nel contesto di una causa azionata da un privato cittadino e volta al mantenimento dell’effige. E quindi, è giusto o sbagliato rimuovere effigi di personaggi controversi? Uno dei principali argomenti contrari è la pretesa volontà di difendere la storia o il patrimonio artistico. Si sono spese parole pesanti, come censura e revisionismo, nella accezione negativa del termine, fino ad arrivare al negazionismo. In un articolo pubblicato da AGI, si legge addirittura che Orwell, in 1984, avrebbe gettato “prima del tempo un rapido sguardo su quello che succede in questi giorni nelle strade di molte città”, argomentando l’assunto con una citazione tratta direttamente dal libro: “Ogni immagine è stata ridipinta, ogni statua e ogni edificio è stato rinominato, ogni data è stata modificata. E il processo continua giorno per giorno e minuto per minuto. La storia si è fermata”. Tale argomento, a mio avviso, incontra un limite importante, rappresentato dalla funzione propria dei monumenti. Questi ultimi, infatti, a differenza di un trattato di storia o di un esposizione museale hanno l’unico scopo di celebrare e rendere onore a un determinato personaggio, avvenimento o ideologia. È invece del tutto vero che l’erezione di un simulacro può essere considerata, essa stessa, un fatto storico. Allo stesso tempo, pertanto, possiamo ritenere che anche la rimozione di quello stesso simulacro abbia una valenza storica. L’accusa di revisionismo, peraltro, è parimenti poco calzante. In primo luogo perché il termine viene utilizzato, in modo improprio, per descrivere una presunta volontà di reinventare la storia alla luce della tanto criticata political correctness della sinistra intellettuale. Eppure la revisione storiografica altri non è che un’operazione che coincide con il ripensamento di fatti passati in seguito all’acquisizione di nuove consapevolezze nel perseguimento della massima oggettività possibile. In secondo luogo, spesso e volentieri, è proprio la tendenza a tollerare la permanenza dei monumenti de quo a essere frutto di una rilettura di convenienza della storia, mossa dall’intento di edulcorare il vissuto dei nostri precedessori, così da riuscire a convivere pacificamente con le colpe di cui si sono macchiati. Emblematica, in questo senso, è la difesa dei confederati da parte di chi, negli USA, si oppone alla rimozione delle loro statue invocando l’immagine romantica del soldato sudista, dipinto come valoroso e ribelle combattente battutosi per la difesa della propria indipendenza. L’ulteriore argomento che viene schierato in campo contro la rimozione delle statue controverse è rappresentato dalla fallacia logica dello Slippery Slope (letteralmente “pendio scivoloso”), tecnica argomentativa che, partendo da una tesi che si desidera confutare, trae una serie di conseguenze negative descritte come necessarie e inevitabili, mentre le stesse sono del tutto contingenti e arbitrarie. Personalmente ho dovuto affrontare una discussione in cui mi si poneva la seguente considerazione: se accettiamo di rimuovere le statue degli schiavisti americani, arriveremo anche ad abbattere il Colosseo e a smantellare tutte le strade costruite in epoca romana, perché trattasi di opere realizzate grazie all’impegno di schiavi. Ebbene, a questo genere di argomentazione si dovrebbe rispondere richiamando l’interlocutore a contestualizzare i fatti citati, applicando parametri di giudizio distinti in ragione del tipo di realtà concreta che si deve valutare. Non ci sarebbe, infatti, bisogno di spiegare che una strada costruita durante la reggenza dell’Impero Romano, pertanto con l’impiego di schiavi, non può essere paragonata a una statua eretta con l’intento di glorificare uno schiavista. Del resto, a differenza del Colosseo o delle strade lastricate, le statue dei confederati di cui si discute non sono state erette in buona fede, ma nella piena consapevolezza di riaffermare la disuguaglianza sociale. Posto quanto sopra, è allora giusto distruggere questi stessi monumenti? La furia reazionaria, si sa, da sempre si esprime con l’abolizione dei simulacri dell’egemonia che contesta: è successo in occasione di ogni grande rivoluzione. Tutti ricordiamo la presa, con conseguente demolizione, della Bastiglia nel 1789, atto che oggi nessuno si sentirebbe di condannare come antistorico o vandalico. La storia della questione razziale americana, che abbiamo ripercorso insieme, è composta da una serie interminabile di soprusi, tra i quali si inserisce anche l’inerzia delle istituzioni dinanzi alle istanze di rimozione di monumenti eretti con chiaro intento discriminatorio. Lo stesso Trump ha più volte dichiarato pubblicamente che il patrimonio storico nazionale, assumendo che i retaggi della cultura confederata ne facciano parte a pieno diritto, deve essere preservato. Emerge quindi un quadro dominato da una chiara resistenza verso la neutralizzazione degli spazzi pubblici, avallata anche dalla generale tendenza a edulcorare il passato che non è da addebitare solo alla ai sostenitori della destra, trovando terreno fertile anche tra i democratici. Tale tendenza, infatti, da un lato risponde alla necessità di affermare il suprematismo bianco e, dall’altro, a giustificare la perdurante connivenza e inerzia in presenza degli eccessi razzisti di cui si è macchiata la società statunitense. Pertanto, essendo questo il quadro, la furia iconoclasta di cui si fa un gran parlare, non solo era prevedibile, ma diventa anche difficilmente biasimabile, ponendosi, la stessa, come reazione alla stasi che da troppo tempo vede complici istituzioni e cittadini indifferenti. A coloro che invocano la contestualizzazione delle effigi, ad esempio mediante l’apposizione di targhe esplicative, andrebbe poi spiegato che tali opere insistono sul suolo pubblico, affacciandosi sulle strade e sormontando le piazze in cui i cittadini, sia banchi che neri, vivono la propria quotidianità. Sono infatti i musei i luoghi deputati alla contestualizzazione storica delle opere dell’uomo. Pertanto, se proprio vogliamo evitare che le pretese di giustizia sociale passino anche attraverso l’eliminazione di indiscussi simulacri razzisti, potrebbe essere una buona idea rimuoverli, così come viene chiesto, e collocarli in una bella sala museale. Per un approfondimento: “Confederate statues are coming down following George Floyd’s death. Here’s what we know”. (www.edition.cnn.com) Estratto dell’art. 1, sezione 9, della Costituzione degli Stati Uniti d’America: “The Migration or Importation of such Persons as any of the States now existing shall think proper to admit, shall not be prohibited by the Congress prior to the Year one thousand eight hundred and eight, but a Tax or duty may be imposed on such Importation, not exceeding ten dollars for each Person”. (www.senate.gov) Estratto dell’art. 1, sezione 9, della Costituzione degli Stati Confederati: “No bill of attainder, ex post facto law, or law denying or impairing the right of property in negro slaves shall be passed”. (https://avalon.law.yale.edu) Per approfondimenti: “Separate is not Equal” in www.americanhistory.si.edu e “Jim Crow Law” in www.britannica.com Per approfondimenti: “How ‘The Birth of a Nation’ revived the Ku Klux Klan” (www.history.com). Per approfondimenti: “Brown v. Board of Education of Topeka” in https://www.britannica.com/ Per approfondimenti: “There are certain moments in US history when Confederate monuments go up”. https://www.ilpost.it/2017/08/12/charlottesville-manifestazione-virginia/ “Judge temporarily halts removal of Robert E. Lee statue in Richmond” in https://www.latimes.com/ “Orwell predisse l’iconoclastia militante” “Trump: confederate statues remuval ‘ripa apart’ Amercan history”. https://www.theguardian.com/ Share Tweet Share... Read more...Capitalismo: il mostro che divora il tempo libero. Un articolo di S. Cegalin || Threevial Pursuit10 Giugno 2020Capitalismo: il mostro che divora il tempo libero Di Silvia Cegalin The Verdict, cartoon by George Luks, 1899, (Library of Congress) Immaginiamo il Capitalismo come un mostro dai molti tentacoli, tentacoli che tentano di catturarci. La fine che facciamo è quasi scontata: in men che non si dica siamo finiti inghiottiti nella sua macchina da guerra. Chissà se implorando aiuto qualcuno ci sente! Certo è che il Capitalismo ha da sempre svolto un ruolo condizionante sulla nostra esistenza. Se da una parte ci crediamo liberi e autonomi nelle nostre decisioni, dall’altra il mostro cerca di far sua ogni porzione della nostra sfera privata per renderci suoi schiavi. E uno dei settori preferiti del Capitalismo è proprio l’uso e consumo del tempo. Un tempo libero che, senza voler sembrare troppo fatalisti, è stato divorato. La volontà soggettiva di scegliere e di agire è infatti stata inglobata in un’esigenza collettiva di produrre e consumare ad ogni costo e in qualsiasi momento, anche se non vi è l’effettivo bisogno. Ecco dunque che il tempo destinato a noi stessi, per la maggior parte dei casi, si è trasformato in un tempo consumistico. The Curse of California by G. Frederick Keller (1882) Una delle matrici del consumismo però, sebbene spesso si tenda a ignorarlo, è proprio il lavoro; l’equazione è molto semplice: se lavoro guadagno – se guadagno spendo. S’intende, di conseguenza, che legandosi il lavoro direttamente al consumo, intrinsecamente è connesso anche alla questione del tempo. Nel suo recente libro, Il Tempo Rubato, Simone Fana definisce il tempo come una relazione che si plasma su bisogni politici ed economici. Il concetto di tempo privato e intimo viene perciò ridotto a favore di un tempo capitalista che, attraverso dinamiche sfruttatrici e, vantaggiose soltanto per i datori di lavoro, gestisce il tempo dei lavoratori. Fana, riprendendo le teorie marxiste fondamentali per un confronto tra lavoro, tempo e capitale, ritorna sulla nozione marxista di plusvalore in quanto, ancora oggi, il lavoro utile per produrre beni e servizi necessita soltanto di una parte del tempo assegnato al lavoratore, perchè il restante serve per incrementare la ricchezza – il valore – del capitale stesso, che quindi può essere letto come una sottrazione di tempo libero al lavoratore. Il valore di scambio perciò sarà identificato nel tempo lavorativo. Ed è proprio questa idea che secondo Karl Marx, ma anche stando alla più contemporanea lettura di Fana, dev’essere cambiata. Il valore non deve più coincidere con la quantità di tempo impiegato per svolgere un servizio, ma in una conversione della qualità delle azioni. Ora, a fronte dei cambiamenti che il panorama lavorativo ha subito, soprattutto a causa dell’automazione, tentare di rendere reale questo ideale sembra ancora un’utopia lontana. Se il mutamento delle condizioni della classe lavoratrice avviene attraverso la realizzazione umana dei lavoratori, donando cioè un senso più profondo al loro ruolo e uno scopo che vada oltre l’elemento puramente economico, questo significa che è necessario riconsiderare la struttura piramidale su cui si basa il rapporto forza/lavoro e una ridistribuzione del tempo che prenda in considerazione le esigenze di ciascun individuo. Il filosofo Andrè Gorz, facendo anch’egli eco a Marx, in un’intervista rilasciata nel 2007 e racchiusa in un volumetto pubblicato quest’anno intitolato Addio al lavoro, asserisce che per riconquistare il tempo perduto bisognerebbe abolire il lavoro. Il lavoro salariato infatti, attraverso i suoi ritmi e i ricatti di natura morale (si considerino su questo piano i contratti a tempo determinato dove la pressione a lavorare più del dovuto è una circostanza quasi obbligata per vedersi rinnovare il contratto), incastrano il soggetto in una serie di attività che spesso lo disumanizzano. Per non essere più strumenti alienati dell’enorme macchina capitalista, prosegue Gorz, è perciò auspicabile una diversa organizzazione del tempo che ridia importanza ai valori non quantificabili, sostituendo così la supremazia del materiale con un’etica dell’immateriale. The protectors of our industries by Mayer Merkel & Ottmann Lith (1880) Per rendere possibile la riconquista del proprio tempo e una valorizzazione di noi stessi, bisognerà scardinare l’idea, in noi così ben improntata, che il lavoro sia sacro, evadere dunque da una sua glorificazione per mettere al centro attività che ci realizzino in quanto individui, e non come massa; un tempo che si riempia qualitativamente e che faccia aumentare le nostre competenze e il nostro sapere, e non più solo la nostra produttività. Pensiero che trova linfa anche nella filosofia di Bertrand Russell, che già negli anni ‘30 per combattere “l’idea di lavoro” aveva ipotizzato un reddito di base universale per tutti, in modo da liberare le classi più povere dall’emergenza di lavorare esclusivamente per necessità e dunque di accettare condizioni talvolta disumane. E l’idea che i poveri potessero avere del tempo libero fu uno shock per i ricchi. Il tempo vissuto dovrà quindi riprendere il proprio spazio sul tempo lavorativo perché la crescita personale delle singole persone avviene, generalmente, in contesti che si situano lontano dagli ambienti lavorativi, e questa “lotta” al lavoro (almeno così come oggi viene inteso) non può non chiamare in causa la nozione di ozio e tempo libero. In questa era super veloce in cui il “non far niente” viene sempre più demonizzato e il tempo libero esorcizzato perché, come ricorda la sociologa Carmen Belloni, non conforme agli standard capitalisti, i tempi vuoti procurano un senso di colpa (molto simile allo Schuld, termine tedesco che contemporaneamente significa “debito” e “colpa”), portando a un accumulo di attività che si espandono in un dopo lavoro, perché l’importante, ci ammonisce la società, è non stare mai fermi. Next! by Udo Keppler, 1904. (Library of Congress, Prints and Photographs Division) S’intuisce che il capitalismo ha allungato i suoi tentacoli anche nel tempo post-lavorativo. Davide Mazzocco nel libro Cronofagia. Come il capitalismo depreda il nostro tempo, spiega in maniera illuminante come il tempo libero sia completamente soffocato in riti quotidiani che coinvolgono le nuove tecnologie e il settore dell’intrattenimento. Gli spazi per sé, come ad esempio la lettura, ascoltare della musica, o la semplice contemplazione (acerrima nemica del Capitalismo), sono sempre di più azioni che si intervallano alle incessanti comunicazioni e notifiche dei social media, delle mail di lavoro o delle chiamate a cui ci si sente in obbligo di rispondere repentinamente, come se dedicare un momento per sé fosse quasi una colpa, o comunque tempo perso. (Ecco perché chi scrive questo articolo ha deciso di non possedere un Iphone, così da evitare – insieme a tante altre scocciature – di esser sempre connessa). Ma le “attrazioni” offerte dal capitalismo per distrarci da noi stessi coinvolgono ahimè anche il settore del divertimento. Anche l’innocua visione di un film, continua Mazzocco, può trasformarsi in un’esperienza capitalista. È il caso ad esempio delle pay tv le quali, attraverso i loro prodotti, non solo incentivano un certo tipo di visione e di modelli ma, essendo tv a pagamento, inducono l’utente a spendere per vedere e quindi a inglobare il momento dell’intrattenimento all’interno di un’azione consumistica. In connessione con la visione televisiva si inserisce il fenomeno del Binge watching (o più semplicemente delle maratone televisive), sistema che invita a guardare un’intera serie televisiva in 24 ore: attività che ha come scopo non soltanto quello di far girare l’economia di un sistema di intrattenimento comparabile al cibo dei fast food, ma soprattutto di combattere letteralmente l’atto del dormire perché, come sostengono i capitalisti, durante il sonno non si consuma; di conseguenza per realizzare il loro ideale di far coincidere lavoro e consumo è necessario abolire il sonno. È chiaro che il medesimo discorso si allarga anche per certi giochi online e all’utilizzo, oramai sempre più compulsivo, dei social network che tramite le loro dinamiche predatrici agiscono in modo subdolo su di noi, addestrandoci a desideri e bisogni fittizi e conducendoci verso un distanziamento dal corpo fisico e dalla dimensione analogica del vivente, in favore di una realtà circoscritta all’interno di monitor. Se, come abbiamo visto, sia il lavoro che l’intrattenimento rientrano tra gli strumenti preferiti dal Capitalismo per plasmarci e plasmare il nostro tempo, l’unico modo per evadere da questa condizione di controllo e di sirene ingannatrici sarà quello di provare a rimodellare il tempo seguendo ritmi più naturali e genuini, lontano da questa massa artificiale che costantemente prova a colpirci. Anche se la percezione, purtroppo, è ancora quella di essere prigionieri di questo potente gigantesco mostro. Share Tweet Share... Read more...QuaranThreevial N°9: Panic (by The Smiths). Un articolo di B. Bendinelli5 Giugno 2020QuaranThreevial N°9: Panic (by The Smiths) di Benedetta Bendinelli The House March di Federico Bria Ricordo che al liceo avevamo un professore di filosofia parecchio strano, lo era anche il nome. Veniva bullizzato, devo ammetterlo, da tutta la nostra classe fatta di cialtroni e mezzi criminali (eppure era un liceo, eppure eravamo quasi tutte donne). Cosa avevamo da dire di così importante, a tal punto da voler zittire ogni volta la voce di un adulto sicuramente più virtuoso di tutte noi teste di cazzo? Nulla, è chiaro, ma era divertente vederlo impallidire non appena superava la soglia della classe. Facevano ridere i suoi occhiali, i suoi occhi buffi sotto gli occhiali ancora più buffi. Era una facile preda per le nostre bocche sciocche e insipide e asciutte, con quella voce sottile, la lisca in bocca e i conseguenti sputacchi sulla lavagna. Lo prendevamo per il culo con scherzi raffinati – questo va detto ed è quasi un orgoglio – come lo scambio della disposizione dei banchi, con lo scopo di disorientarlo e poi, di nuovo, prenderlo per il culo facendogli credere di essere pazzo per aver pensato che la classe fosse diversa dal giorno precedente. Una volta, più delle altre, il professor B.M.A si mostrò del tutto succube alla nostra meschina volontà di esercitare il nostro piccolo potere di mostri semi ignoranti. Quando una compagna di classe – peraltro nemmeno la peggiore – cominciò a parlottare con la vicina senza dare ascolto alla lezione su Kant – o chi per lui – il professor B.M.A si alzò di scatto e preso da un istinto primordiale di protezione verso la propria specie gridò, sputacchiando, alla malcapitata: “Vai fuori! Vai fuori! Vai fuori!” ma un istante dopo – senza nemmeno darsi il tempo di gioire anche per un attimo di quella giusta e onorevole imposizione – seguì con un altro ordine, stavolta più mansueto e rassegnato: “No, resta dentro”. E così fece. (Si consiglia vivamente di leggere il seguente resoconto, ascoltando in sottofondo Panic – The Smiths, N.d.R) Lo scorso sabato, il 23 Maggio per la precisione, sono uscita per la prima volta dopo alcuni mesi di isolamento, più o meno forzato. Mi spiego meglio: sono uscita durante la quarantena certo, ma nel senso di un’uscita che più che altro riguardava l’aria, l’aria aperta – come è solito dire quando ci si riferisce alla natura, ai prati verdi, ai ruscelli e ai boschi. Ho visto un amico, la mia ragazza – che per due o tre settimane è rimasta con me – mia madre e mio padre una volta sola per il compleanno del babbo, poi lo staff dell’Esselunga e ovviamente il mio cane. Tutto qua, non molto ma abbastanza. Uscire davvero quindi, considerato questo ridotto regime sociale, per me significava entrare più che altro dentro la solita macchina trita-vita: prendi la macchina, chiama qualcuno, rispondi a un messaggio, metti benzina, organizzati, fai un prelievo oppure usa la carta, bevi una cosa, bevi una birra, scegli le scarpe, metti i calzini, metti le cuffie, metti la cintura, trova parcheggio, prendi la bici, metti il lucchetto, metti le chiavi in tasca, leggi la posta, leggi il giornale, parlane al bar, parlane al telefono, chiedi come va, chiedi il conto, chiedi lo sconto, chiedi per favore, chiedi scusa, di’ una bugia, fai finta di nulla, trova una scusa, trova un bar, trova un locale, trova la strada, apri google, apri safari, apri whatsapp, apri spotify, apri instagram, apri la porta, esci. Dicevano di no, avevano tutti paura che no, non saremmo tornati a tutto questo, alle solite cose. E invece eccola di nuovo, la nostra dolce e amara normalità. Questo fatto di uscire, visto così, mi metteva la nausea ma andava fatto. Quindi mi sono detta: vai fuori, vai fuori, vai fuori! Mi sono anche detta: no resta dentro. Ma a differenza della mia vecchia compagna di classe alla fine ho ubbidito all’ordine superiore della ragione e sono uscita. Ho preso il cane e un borsone da fine settimana lungo (cosa che mi è capitata si e no tre volte nella vita) e sono andata a Firenze per stare un paio di giorni con Carolina. Nulla di strano, conosco la città, conosco lei e conosco pure i suoi coinquilini. Per i blandi sociopatici come me il primo approccio con persone nuove è molto simile a quella sottile tortura che infligge l’insegnante quando sta per selezionare casualmente l’alunno da interrogare. Ci convivo, ho trentaquattro anni e una vita passata a mascherare psicosi, quindi mi confermo che nel caso dovessi incontrare gente nuova non ci sarà alcun problema, andrà tutto benone. Sorridi, di qualcosa, saranno tutti fatti, a Firenze sono tutti fatti, fuma una sigaretta, bevi più del solito, vai spesso in bagno, anzi non andarci che attiri l’attenzione. Ho fatto una veloce revisione di tutti i passaggi che avrei dovuto seguire quella sera e ho fatto anche il conto alla rovescia di quante ore mi restavano prima di rientrare a casa. A grandi linee – considerando il dopo cena, un’eventuale sbronza e i vari episodi accessori – mi restavano ancora dieci ore. Dieci ore di persone. Sempre per quelli come me, l’unità di misura dello stress causato dal gruppo non è calcolato nell’ordine delle unità ma in quello delle ore. Non mi spaventano cento persone nell’arco di una mezz’ora, nossignore. Mi terrorizzano invece tre persone in un segmento temporale che va dalle due alle dieci ore, appunto. Ma come dicevo, ci sono abituata. Ho un borsone da week-end lungo, il cane e la città che mi attende: eccomi, sono tornata. Trovo quasi subito parcheggio, la cosa mi sorprende ma nemmeno troppo, in fondo la città è appena risorta. Metto il borsone in bauliera perché lo avrei recuperato più tardi. Metto il cane al guinzaglio e sono pronta. Il cane inizia a tirare, mi rompe già le palle ma è il mio cane e lo sopporto. Il cane si mette a cagare all’improvviso e lo fa vicino al muro che segue il marciapiede dove sto camminando. Raccolgo la sua merda, fa caldo e il fumo degli escrementi mi fa salire un conato di vomito. Chiudo gli occhi ma devo riaprirli perché se li tengo chiusi non riesco a vedere la merda che devo raccogliere. Pesto la sua merda perché alla fine ho tenuto gli occhi chiusi per troppo tempo. Prendo la merda nel sacchetto e cerco un cestino. A Firenze non ci sono abbastanza cestini. C’incamminiamo verso il centro: Carolina lavora in centro e buon per lei, davvero. Il cane tira al guinzaglio, lo so, lo fa sempre. Sotto l’arco di San Frediano attraverso il marciapiede con il rosso, non lo avevo visto e infatti mi suona una macchina. Nessun problema. Cammino sul marciapiede stretto ma ci sono due o tre tipi seduti sul muretto del lungarno e non riesco a passare; bevono uno birra che avranno preso al Circolo della Rondinella, sono proprio lì davanti e allora perché non berla ai tavolini? Non lo so, ma non importa. Riusciamo a passare, il cane tira e sembra che abbia tirato da quanto tira. Alzo lo sguardo sul ponte Amerigo Vespucci, vedo le macchine e le teste che rimbalzano su e giù sopra il ponte che sembra in fiamme. Lo attraversiamo e un brivido di vertigine mi sale dall’interno coscia quando vedo il cane che infila il muso tra le ringhiere. Se cadesse da quassù si aprirebbe il cranio, la stessa cosa succederebbe a me ma pensando a lui mi viene da piangere. Non ci penso, andiamo avanti. Arriviamo al semaforo, è rosso. Davanti a noi un padre con due bambine in bici, hanno le routine quindi non guardano dove vanno, tanto hanno le routine e il babbo che le tiene d’occhio. Guardano il cane, il cane guarda loro e io guardo il cane che guarda loro, sperando che non le azzanni per gioco. Siamo tutti li fermi, aspettiamo il verde che non arriva mai. Stiamo tutti bene, anche le bambine e il padre mi ringrazia perché trattengo il cane per agevolare il loro passaggio oltre l’incrocio. Ci siamo quasi, ma nemmeno troppo. Devo raggiungere Via Tornabuoni. Le strade sono piene di cani, tutti piccoli ed è anche peggio perché ho paura di calpestarli. Sto sudando e penso che dovrò almeno lavarmi le ascelle prima di arrivare a cena. Dalla chiesa di Ognissanti esce una suora, vestita da suora, è minuscola e per poco non la vedo. Nemmeno lei vede noi e si spaventa quando il cane l’annusa. Proseguiamo, va tutto bene. Davanti a noi un cane ancora più piccolo della suora si ferma in mezzo al marciapiede e decide di cagare. Il mio cane lo annusa e lui si spaventa, dallo spavento cade sulla sua stessa merda e i padroni inorriditi mi danno della merda. Merda! Sudo ma alla fine penso che mi faccia bene, ho l’impressione di perdere peso e di tenermi in forma. Penso al mio orto, se i pomodori hanno preso abbastanza acqua e se il basilico non sia già diventato giallo. Arriviamo salvi e poco sani davanti al negozio dove lavora Carolina. Ci sediamo sulla scalinata della chiesa: è una bella scalinata ma nessuno ci pensa mai a quella scalinata della chiesa dei Santi Michele e Gaetano. Lei esce, mi vede. Sono felice di vederla e anche il cane è felice. Salutiamo lei e la collega poi torniamo sulla scalinata. Passa un uomo, sembra un barbone, vuole accarezzare il cane e lo lascio fare. Il cane si agita, lui non voleva ma io, per essere gentile, ho lasciato che lo accarezzasse. Dopo, per assecondare la volontà del cane di non essere toccato, indietreggio e vado a scontrarmi con una signora che mi urla: “Oh bellina!” Voleva dirmi anche di peggio perché lo ho pestato i piedi, quindi apprezzo il fatto che abbia soltanto sbuffato e mi abbia detto bellina. Nel frattempo il barbone è andato via, menomale (per il cane, non per me). Carolina finisce di lavorare, esce e mi bacia. Sudo ma la bacio lo stesso. Prende il cane, o il cane prende lei. Facciamo la stessa strada per tornare verso casa, verso la macchina dove ho lasciato il borsone per il week-end lungo. Lei vuole prendere il gelato da portare alla cena, io volevo il vino ma non ho voglia di decidere. Vada per il gelato. Ci fermiamo all’angolo della gelateria di Santa Trinita, qua lo fanno buono – dice. Il cane ha sete, io pure. Fermarsi in un angolo nel pieno centro di una città è come sedersi all’angolo del ring mentre il pugile continua a menarti. Passano le persone, passano i motorini, passano le bici. Me la prendo col cane ma vorrei prendermela con tutti. Gli tiro un cazzotto in testa, povera bestia, ma tanto non sente nulla, è un testone. Carolina è preoccupata, mi toglie il cane di mano e fa bene. Mi fermo un attimo e mi si ferma il respiro, mi si fermano gli occhi oltre il ponte dove la luce illumina la terra gialla che scende come lava nell’Arno. Le mani sudano come la testa e la testa suda come la schiena, tutto il mio corpo affoga dentro l’onda calda che ora mi travolge, poi mi culla e poi mi risputa in superficie. Il cuore è una cassa e mi si gonfiano le orecchie, le sento implodere e poi sciogliersi. Oltre il ponte le teste continuano a rimbalzare su e giù, nessuno si ferma e nessuno mi vede. Respiro, mi conosco, basta un solo lungo respiro e tutto torna come prima. Carolina mi aiuta, prende il cane e mi porta via da quell’angolo. Va tutto bene ma avrei dovuto fare come la mia vecchia compagna di classe. Share Tweet Share... Read more...Le barricate del Nord Irlanda, un articolo di G. Levantini || Threevial Pursuit4 Giugno 2020Le barricate del Nord Irlanda di Gabriele Levantini Murals bellicoso a Falls Road, Belfats (Photo by Gabriele Levantini, Nord Irlanda, 2018) La differenza tra l’Irlanda-Eire e l’Irlanda del Nord è sostanziale e non solo formale. La frastagliata linea di confine che attraverseremo è oggi teoricamente invisibile, ma credetemi quando vi dico che si nota parecchio. Infatti nelle vicinanze di questa frontiera così sanguinosa, si trovano un gran numero di piccolissimi villaggi addobbati con la Union Jack come il più kitsch dei negozi di souvenir di Londra oppure con tante di quelle bandiere Repubblicane, quadrifogli e motti gaelici da farvi pensare che ci sia una festa di paese. In poco spazio si possono trovare molte alternanze e questo può confondere su che lato di confine vi troviate. In realtà è molto più complesso di così. Come tutti i conflitti etnico-nazionalistici, è una guerra di posizione dove conta ogni centimetro di terreno. Però i contendenti non sono uniformemente divisi, ma distribuiti a macchia di leopardo. Ecco perché nell’Irlanda del Nord potete trovare villaggi unionisti e repubblicani, oggi rappresentazione quasi folcloristica di un conflitto congelato che si cerca di dimenticare, ma che continua a covare sotto la cenere e che fino a pochi decenni fa mieteva centinaia di vite. Murals inneggianti alla guerra a Falls Road, Belfast (Photo by Gabriele Levantini, Nord Irlanda, 2018) Belfast è il luogo dove forse questa situazione allucinante è più evidente, come vedremo in seguito. Il nostro impatto con la città sancisce la mia definitiva sconfitta e la vittoria della tesi di Irene. Infatti, individuata la casa del quartiere semiperiferico dove abbiamo affittato una stanza, mi accingo a entrare nel minuscolo cortile nel momento stesso in cui la padrona di casa, malamente parcheggiata sul marciapiede, decide di muoversi. Una donna di mezza età, magra e molto arrabbiata scende e viene a lamentarsi, ma quando capisce che sono il suo ospite, constatato che non ci sono danni, la chiude lì. La casa è vecchia, ma abbastanza comoda. Nella cucina comune la gente prepara i pasti più improbabili alle ore più improbabili. Fraternizziamo con Jack e Sarah, una coppia di inglesi che mangiano uova fritte come se fosse la missione della vita. Lei è poco vestita e porta una felpa del ragazzo, lui invece indossa cappellino e maglietta di Valentino Rossi. Jack è tanto elettrizzato di sapere che siamo italiani quanto deluso dall’apprendere che la Moto GP non ci interessa e che ignoravamo l’esistenza di un’importante pista da quelle parti, motivo del loro viaggio. Non riesce a capacitarsi di come due italiani non siano attratti da questo sport e insiste un po’ prima di rassegnarsi al fatto che non stiamo scherzando. Il centro della città è tirato a lucido, scintillante di luci e di vetrine. In una piazza centrale c’è una pacchiana ricostruzione del Big Ben chiamata Albert Memorial Clock, che dal 1869 marca il territorio di Sua Maestà ricordando a tutti chi comanda qui. Ma basta allontanarsi di pochissimo per imbattersi in un ambiente radicalmente diverso, fatto dei quartieri della working class rigorosamente divisi tra loro. Durante i vent’anni dei Troubles furono infatti costruiti dei muri, denominati Peace Lines, per separare i quartieri cattolici e repubblicani da quelli protestanti e unionisti. Imponenti e ben presidiati, presentano dei cancelli che la notte vengono chiusi ancora oggi, costringendo a fare lunghissimi giri per poter cambiare zona della città. Decidiamo di visitare quello che a West Belfast separa Falls Road (cattolica) da Shankill Road (protestante). Sfortunatamente girare in macchina a Belfast, nonostante le dimensioni contenute della città, è meno agevole di quanto si possa pensare e, tra una cosa e l’altra, riusciamo a iniziare il nostro tour solo dopo il tramonto. Le strade ai due lati del muro potrebbero sembrare anonime e tranquille zone semiperifieriche di una qualsiasi città se non fosse per i murales raffiguranti guerriglieri che – mitra in pugno – giurano vendetta per i loro caduti. Percorriamo prima Falls Road e poi ci spostiamo in auto a Shankill Road, ma poco dopo il nostro passaggio il cancello viene chiuso, lasciandoci nel lato protestante. In giro ormai non ci sono più turisti e si cominciano a vedere facce torve per la via, mentre i pub decorati dalle effigi di re Guglielmo III d’Orange, macellaio degli irlandesi cattolici e super rock star per gli unionisti protestanti, sono pieni di energumeni. Ci rendiamo conto che rimanere in una zona in cui solo trent’anni fa la gente si sparava da un balcone all’altro, con un’auto targata Eire, è sempre meno sicuro via via che il tasso alcolemico medio sale. Cerchiamo di raggiungere la parte cattolica, ma quando credo di aver finalmente trovato un passaggio, ci troviamo chiusi tra case popolari ed edifici diroccati, mentre dal buio un dei ragazzi piuttosto loschi ci guardano perplessi. Facendo finta di nulla, faccio inversione e cerco di mostrarmi tranquillo mentre Irene è ormai in preda al panico. Solo una volta arrivati a casa potrò confidarle che in effetti del tutto sereno non ero nemmeno io. Selciato del Gigante (Photo by Gabriele Levantini, Nord Irlanda, 2018) Abbandoniamo la città per visitare la costa del nord, dalla quale gli Irlandesi vedono i cugini Scozzesi. Le tre principali attrazioni che visiteremo in quest’area sono le maestose rovine del Castello di Dunluce, che arroccato su una scogliera sfida il mare scuro da secoli, il Selciato del Gigante (Giant Causeway) e il ponte di corda Carrick-a-Rede. Il Selciato del Gigante è un affioramento roccioso di basalto. Le caratteristiche colonne a prisma esagonale di questo minerale spuntano dal suolo per una breve altezza formando una specie di sentiero che si spinge nel mare. Avevo già visto simili formazioni in Islanda, ma qui la loro posizione le rende particolarmente iconiche. Facciamo un breve trekking che si snoda tra spiagge coperte da fiori nordici, rocce nere e rigoli d’acqua che scendono da pendici verdissime, e che richiama nella mia mente la silenziosa solennità dei paesaggi artici. Carrick-a-Rede è invece un ponte sospeso che collega l’isolotto di Carrick alla terra ferma, costruito nel 1755 da pescatori di salmoni insediati da queste parti. Il ponte si sviluppa a circa trenta metri d’altezza sull’oceano arrabbiato. Noi lo attraversiamo sotto una pioggia fitta, mentre il vento freddo lo fa oscillare. È un’esperienza adrenalinica per me, ma è una vera lotta contro sé stessa per Irene, che soffre di vertigini. È tanto concentrata e terrorizzata nel percorrerlo quanto raggiante dopo aver completato l’impresa. Facciamo nuovamente rotta verso Dublino attraversando campagne agricole rigogliose, punteggiate di meraviglie come la strada The Dark Hedges, la King’s Road di Games of Trones, dove i faggi sembrano fondersi e divorare la strada. Foresta di Glenariff (Photo by Gabriele Levantini, Nord Irlanda, 2018) Dedichiamo qualche ora a un trekking nella Foresta di Glenariff, nella regione dei Glens of Antrim: un ambiente magico e ricco di piccole cascate nelle quali non ti stupiresti di trovare elfi e fate intenti a fare il bagno. Riprendiamo la strada costiera, fermandoci via via in qualche villaggio o per vedere qualche faro o rovina, come il notevole Mussenden Temple, anch’esso ben noto ai fan di Game of Thrones. L’ultimo punto di interesse che visitiamo è il Faro di Blackhead, per raggiungere il quale dobbiamo scendere una ripida e stretta strada lungo un promontorio, che scopriremo in seguito non avremmo potuto fare in auto. Ma la vista vale tutta la difficoltà della strada, anche se per riuscire a fare inversione siamo costretti ad aprire un cancello e violare una proprietà privata. C’è una grande pace e vogliamo godercela ancora un po’, così decidiamo di fare un’ultima sosta sul mare. Superato il bar molto snob di un golf club dove, subito dopo esserci affacciati alla porta, capiamo che non è il caso di andare in tenuta da trekking, raggiungiamo il villaggio di Whitehead e finalmente ci fermiamo in una sala da tè a pochi passi dal mare, dove ci deliziamo con biscotti al burro assolutamente incredibili. Li decantiamo tanto che la signora decide di darci la ricetta per provare a rifarli in Italia. Evidentemente si fida molto delle nostre capacità culinarie. Vorremmo non dover rientrare mai, vorremmo fermarci qui in questa terra magica, fatta di colori vivissimi, di pioggia improvvisa e di arcobaleni. Profumata di mare e di bestie al pascolo, intrisa di storia eppure così giovane e spensierata. Leggera come le risate al pub e pesante come i muri, le bombe e le barricate. L’aereo si stacca da terra accarezzato da una pioggia fina e vediamo via via allontanarsi l’Isola di Smeraldo. Mentre cominciamo il viaggio verso casa, già pieni di nostalgia, la canzone dei MCR nelle cuffie descrive esattamente ciò che proviamo. È in un giorno di pioggia che ti ho conosciutaIl vento dell’ovest rideva gentileE in un giorno di pioggia ho imparato ad amartiMi hai preso per mano portandomi via… Campagna nordirlandese (Photos by Gabriele Levantini, Nord Irlanda, 2018)The Burren (Photos by Gabriele Levantini, Irlanda, 2018)Il castello di Dunluce (Photos by Gabriele Levantini, Nord Irlanda, 2018)Mussenden Temple sulla scogliera (Photos by Gabriele Levantini, Irlanda, 2018)Shankill Road, strada unionista di Belfast (Photos by Gabriele Levantini, Nord Irlanda, 2018)Ponte di corda Carrick-a-Rede (Photos by Gabriele Levantini, Nord Irlanda, 2018)Scogliera di basalto (Photos by Gabriele Levantini, Nord Irlanda, 2018)Faro di Blackhead (Photos by Gabriele Levantini, Nord Irlanda, 2018)Trekking dal Selciato del Gigante (Photos by Gabriele Levantini, Nord Irlanda, 2018)Street art Galway ((Photos by Gabriele Levantini, Irlanda, 2018)) Share Tweet Share... Read more...Il cielo d’Irlanda, un articolo di G. Levantini || Threevial Pursuit3 Giugno 2020Il cielo d’Irlanda di Gabriele Levantini Connemara (Photo by Gabriele Levantini, Irlanda, 2018) Fiorella Mannoia ha scritto una canzone al cielo d’Irlanda, e se credete che si sia abbandonata a esagerate licenze poetiche, significa che non l’avete mai visto. Io invece ho avuto questa fortuna nel 2018 e da allora certe volte mi perdo a immaginare quei colori vividi nel mio grigio ufficietto, rivivendo quei momenti come se fossero ora. Non mi importa molto dei dati che dovrei controllare, la mia mente ormai è lì. Il nostro primo impatto con l’Irlanda è Dublino, città a misura d’uomo, vivace e al tempo stesso rilassante, piena di universitari e di famosissimi college. Se potessi rinascere e rifare l’università, mi piacerebbe frequentarla qui. Non ci sono solo gli edifici solenni del Trinity College, la cui biblioteca compare in Harry Potter, ma molte altre cittadelle universitarie, con impianti sportivi di prim’ordine e servizi di ogni genere. D’estate, quando molti fuori sede ritornano a casa, alcuni dormitori diventano economiche e caratteristiche soluzioni per turisti a basso budget, come me e la mia compagna Irene. Biblioteca del Trinity College, Dublino (Photo by Gabriele Levantini, Irlanda, 2018) Quando il sole si abbassa, passeggiare e bere per le strade festose di Temple Bar è un’esperienza stimolante. In Irlanda i pub hanno una grandissima importanza nella vita sociale e culturale e vengono ritenuti luoghi di primissima importanza nella vita delle comunità, perciò non è raro trovare locali che occupano lo stesso edificio da secoli e secoli, mantenendo più o meno lo stesso stile. Nessuna visita a questo paese potrebbe dirsi completa senza una buona quantità di pub, dove d’altra parte – oltre a degli eccellenti alcolici – si trovano anche cibo e musica dal vivo. Per quanto riguarda l’alcol, bisogna notare che gli irlandesi lo apprezzano davvero molto e la nostra prima sera entro le nove e mezzo abbiamo già assistito a tre risse tra ubriachi, rapidamente interrotte da grossi buttafuori e da robusti poliziotti. Per quanto Dublino sia interessante e nonostante i cartelli in doppia lingua che la indicano come Baile Átha Cliath, non è questa la vera Irlanda che siamo venuti a cercare e così partiamo alla volta della natura selvaggia. Prima di lasciare la città abbiamo un primo tangibile impatto con le tracce della guerra che ha segnato in tempi recentissimi questo paese. Visitiamo infatti uno strano monumento chiamato The Spire (La Guglia), che è una specie di grande punta di acciaio che si innalza dal suolo. Esteticamente non è per niente interessante, ma la lapide posta alla sua base spiega di come sia stato costruito al posto di una colonna commemorativa dell’ammiraglio Nelson, simile a quella di Time Square di Londra, fatta saltare in aria dall’IRA nel 1966. Un piccolo assaggio di ciò che ci aspetterà al di là del confine. Prendiamo un’auto a noleggio e facciamo rotta a ovest, verso la costa atlantica. È la prima volta che provo la guida a sinistra e in autostrada sembro un vecchio-col-cappello che guida una Panda sbronzo di Tavernello, ma il peggio arriva quando lasciamo l’area metropolitana e cominciamo a percorrere stradine di campagna che sembrano mulattiere. Comunque, nonostante le incertezze di Irene, prendo subito confidenza col nuovo modo di guidare e acquisto sicurezza. Il seguito dimostra che le sue paure erano fondate. Attraversiamo campagne che mai avrei immaginato così verdi e perfette. Non c’è nulla tranne muretti a secco, strutture diroccate, erba verdissima e tante, tantissime pecore col sedere tinto con bombolette spray, come segno di riconoscimento. Mi domando come abbia fatto questo paese, che non sembra produrre assolutamente niente, a crescere a doppia cifra per anni, guadagnandosi il soprannome di rampante Tigre Celtica d’Europa. Misteri della finanza. Campagna irlandese (Photo by Gabriele Levantini, Irlanda, 2018) Lungo la strada incrociamo rovine di chiese e abbazie, come l’iconica Corcomroe Abbey (Mainistir Chorca Mrua), circondata dal suo cimitero di croci celtiche. Questo simbolo nazionale ha origini antichissime, ben lontane dall’uso che ne fanno i gruppi neofascisti contemporanei. Sarebbe infatti una rappresentazione celtica del Sole, cristianizzata successivamente da San Patrizio, evangelizzatore medievale di queste terre. Lentamente il paesaggio muta e la presenza dell’oceano si comincia ad avvertire, dapprima delicatamente, nel volo di un gabbiano o nell’odore del vento, e poi sempre più forte. Infine terra e mare si scontrano e si uniscono come amanti in un abbraccio. Siamo arrivati nel Connemara, la regione più selvaggia del paese, la vera Irlanda. Qua rimangono le ultime comunità Gaeltacht, che parlano davvero l’antica lingua dei Celti, presente ovunque nella segnaletica bilingue ma che pochi ormai usano, nonostante gli sforzi profusi per salvarla. Prendiamo la Wild Atlantc Way. Il paesaggio è un susseguirsi di laghi scuri, verdi montagne e villaggi di pescatori con i caratteristici porticcioli che le maree trasformano ciclicamente in prati di alghe con le barche appoggiate sopra, come la splendida Kinvara (Cinn Mhara). Non mancano le rovine di castelli costieri, come l’impressionante Dúnguaire, che ci fanno sentire dentro un’illustrazione fantasy, o di abbazie come l’imponente Kylemore (Mainistir na Coille Móire). Attraversiamo il roccioso Parco Nazionale di Burren (Boireann) con i suoi dolmen, Kilfenora (Cill Fhionnúrach) con la sua chiesa diroccata, e la vasta Fanore Beach (An Fánadh Óir). Nei pressi di Ballyvaughan (Baile Uí Bheacháin) adocchiamo un locale sul mare e ci imboschiamo con un gruppo di anziani italiani in gita organizzata per poter partecipare a un’ottima cena a menù fisso, al prezzo di soli 20 euro e mezz’ora di masticazione rumorosa. Cerchiamo di non ridere troppo dei nostri vicini, anche se proprio davanti a noi c’è un uomo di mezza età che mangia con una tale velocità da farci strabuzzare gli occhi fuori dalle orbite e che pare gradire enormemente il burro gratis sul tavolo. Ripartiamo e arriviamo finalmente a Galway (Gaillimh), capitale dell’ovest. È un freddo cane e devo assolutamente comprarmi qualcosa di più pesante perché non ho portato niente di adatto. Poco male, ne approfitto per acquistare uno splendido maglione di lana delle vicine isole Aran. Caro, ma certamente di grande qualità, e soprattutto in quel momento utile alla mia sopravvivenza. In giro è pieno di artisti di strada e ovunque c’è musica. Sui muri delle antiche strade si scorgono graffiti che non ti aspetteresti di trovare tra i negozietti e i pub affollati. C’è una piacevole atmosfera bohémien. Abbiamo preso una stanza in affitto in una stupenda villetta in collina, poco fuori città, da dove si gode una splendida vista della baia. La casa è abitata da una deliziosa coppia di anziani, Mike e Annette, che curano continuamente un giardino pieno di fiori. Lui è un taciturno militare in pensione e lei una signora così carina e gentile che vorremmo portarcela via. Quando, poco prima della nostra partenza, durante una discussione molto british sul tempo, il cibo e i nipotini, Annette ci rivela di essere gravemente malata di cancro, ci sentiamo un po’ come i fiori del giardino sorpresi da una gelata inattesa. Il marito è silenzioso come al solito, ma il suo sguardo si rannuvola per un attimo come il cielo di questo paese. Lei invece continua a sorridere e scherzare. Gli Irlandesi sono famosi nel mondo per il loro approccio positivo e ottimista alla vita. Credo che quella signora e i suoi bellissimi fiori siano un buon esempio di questa leggerezza. Scogliere di Moher (Photo by Gabriele Levantini, Irlanda, 2018) Nelle vicinanze di Galway si concentrano alcuni dei più bei monumenti naturali d’Irlanda, come le impressionanti Scogliere di Moher (Aillte an Mhothair), che si stagliano altissime sull’Atlantico schiumoso, sulle quali si ha l’impressione di volare insieme ai molti uccelli marini che le frequentano. E soprattutto, tra deliziosi paesini marinari come Doolin (Dúlainn), la mitica Sky Road, una strada tanto stretta quanto panoramica che si snoda come un serpente sul promontorio di Clifden (An Clochán). Quest’ultimo si insinua nell’oceano tanto decisamente da sembrare su un’isola. È in questo splendido luogo che Irene canta vittoria per la prima volta, quando i fatti le danno ragione, dimostrando che la mia guida non è in effetti così buona come immaginavo. Superando un piccolo gruppo di ciclisti, finisco per far loro un pericoloso raso. Sulla Sky Road bisogna andare quasi a passo d’uomo, quindi fortunatamente non succede niente, ma uno di loro si scalda e mi affronta. Comincio mentalmente a prepararmi a schivare un cazzotto da un tizio molto più grosso di me e a reagire, ma grazie al cielo decide che mandarmi a quel paese è sufficiente. La cosa strana è che neanche questa mancata rissa riesce a scuotermi più di tanto, in un posto così pacifico e rilassante: il fianco del promontorio che scende velocemente nel mare azzurro, il vento salato, il fruscio dell’erba e greggi di nuvole nel cielo. La partenza dal Connemara ci strappa il cuore, ma è giunto il momento di andare a nord. E non nel nord dell’Irlanda-Eire, ma nell’Irlanda del Nord… (continua) Inizio della Sky RoadPecore col sedere coloratoSky Road nel punto della quasi-rissaTerra, mare e rovine, tutto mescolatoTratto della Wild Atlantic WayWild Atlantic WayCastello di DunguairePorticciolo in seccaCastello di LeamanehFanore BeachCastello di DoonagoreAbbazia di KylemorePhotos by Gabriele Levantini, Irlanda, 2018 Share Tweet Share... Read more...QuaranThreevial N°8: CoiPelid-19 (Peli, peli ovunque). Un articolo di A. Polverosi1 Giugno 2020QuaranThreevial N°8: CoiPelid-19 (Peli, peli ovunque) di Andrea Polverosi «Amore sai dov’è il phon? Non lo trovo…»«Non so cara… credo sia al suo posto no?»«Ah sì eccolo! Trovato!»«Ma a che ti serve? I capelli non li hai già asciugati?»«Sì sì, ma mi serve per asciugare i peli sotto le ascelle».«Ma che schifo! No dai non usare il phone, che la tua folta peluria è così bella quando l’asciughi al sole sul balcone!»«Eh lo so amore, ma siamo in ritardo. Te li godrai un’altra volta su».Stralcio di una conversazione fra una coppia di amanti in ritardo con gli amici in un mondo utopico Il mondo sta per finire. Un’altra volta. Uao. Ma a quanto pare, dice, a questo giro finisce per davvero. Anche se non ho ancora capito se il mondo-tutto o solo quello che abbiamo costruito noi. Comunque, il mondo-qualcosa sta per finire. Sono ormai tre mesi che siamo chiusi in casa, in quarantena. Tutto è iniziato molto tempo fa, di preciso non si sa quando. Nessuno lo sa, nemmeno i professionisti scienziati del pianeta. Alcune cose si sanno: le prime sparizioni sono avvenute in Cina. Si sospetta che la scomparsa 0 sia una ragazza, una certa Maria Angela Giuseppina Xiu, residente a Prato, tornata a casa per il Capodanno. In Toscana non c’è la marca giusta di pipistrelli e quindi era tornata in Cina apposta. L’ultima persona che l’ha vista è la sua estetista, che ha rivelato alle telecamere che Maria Angela Giuseppina era la prima volta che andava da una professionista a farsi tagliare i peli, che di solito non si curava molto della sua peluria, ma in quel periodo aveva una ricrescita selvaggia e spinosa da rasoio e il suo ragazzo si era molto lamentato perché si ritrovava sempre pieno di graffi. Maria non sapeva che fare. Aveva provato con le cerette ma non le riusciva bene e quindi alla fine aveva preso l’amara decisione di andare da una professionista. L’estetista aveva detto che Maria Angela Giuseppina aveva sofferto molto durante la tosatura e che sembrava quasi le dispiacesse per i peli. Prima di andarsene, l’estetista aveva notato che la ragazza era strana, non si sentiva al sicuro, era spaventata, angosciata, come se qualcuno o qualcosa l’aspettasse in agguato. Quella è stata l’ultima volta che Maria Angela Giuseppina è stata vista in giro. Il suo ragazzo rimpiangerà i graffi? Non si sa. Comunque, strana storia ma questo riportano i giornali principali tipo la Repubblica, Novella 2000 e cioè. Sicuramente un evento sospetto, ma da lì in poi a poco a poco migliaia e migliaia di persone in tutto il mondo sono scomparse. All’inizio nessuno ci fece caso, solo quelli di Chi l’ha visto? lanciarono un primo allarme lamentandosi di non aver mai lavorato così tanto e seriamente. Ovviamente, nessuno li ascoltò: chi cazzo guarda Chi l’ha visto? a parte mia nonna? E infatti mia nonna mi telefona tutti i giorni per dirmi: “Visto? che ti avevo detto? Voi giovani siete boni solo per la movida”. Comunque sia, dopo un po’ la gente e i media hanno iniziato ad accorgersi delle numerose sparizioni. Così tutti hanno iniziato a parlare degli scomparsi ed è scomparso tutto il resto: immigrati, guerre, Yemen, COVID-19, catastrofi ecologiche, precariato, Hong Kong, i sempreverdi marò. Insomma, le notizie parlavano solo di questo, come se il resto del mondo si fosse bloccato. E così la gente aveva iniziato a fare la conta per vedere se c’erano scomparsi fra gli amici: celo, celo, celo, celo… aspetta… aspetta questo manca- Manca! Quando un amico era sparito, era una festa: ti potevi vantare al bar con gli altri e dire che uno dei tuoi migliori amici non si trovava più. Tutti ti ascoltavano in religioso silenzio mentre te raccontavi vecchi aneddoti e azzardavi anche una profezia: un po’ te l’aspettavi che proprio lui sarebbe scomparso, da un po’ di tempo era strano, la domenica non guardava più le partite e andava ai musei. Troppo strano, sospettoso. Che brutta cosa invece quando il tuo amico ricompariva: avevi fatto male i conti, non era mai sparito. Era semplicemente andato alle poste che stanno vicino alla Coop e le code si erano fuse in un mostro apocalittico-leviatianico che divora tutto. Gloria al bar sfumata. Mai ‘na gioia. Ovviamente, non si sono fatte attendere infinite mirabolanti teorie cospirazioniste: prima sono stati gli americani, poi i cinesi, poi il 5G, poi i coreani del nord, gli alieni, la mafia, le lobby dei tassisti, gli illuminati, i muratori che si sono rotti i coglioni dei vecchini che stanno lì a guardare i cantieri e così si sono presi qualche mese di libertà. Stranamente nessuno diede la colpa ai sionisti. Mmm, cosa sospetta. Che siano stati loro? Intanto i governi di tutto il mondo iniziarono a indagare ma tutto restava nel mistero. L’unica cosa certa era che sui vari luoghi del delitto si ritrovavano sempre dei bei peli neri, lucenti, molto forti e sani. A infittire il giallo c’era il fatto che tutti gli scomparsi avevano una relazione ossessiva con i peli. Spesso erano uomini che obbligavano le loro fidanzate, mogli o compagne a depilarsi “sennò col cazzo che ti porto fuori! Che figura mi fai fare con gli amici miei? E poi ti stupisci se ti metto le corna? Sta screanzata”. Oppure erano madri che insegnavano alle figlie di dover essere sempre decorose e quindi di tagliarsi i peli. Sennò erano persone che avrebbero tanto voluto lasciarsi crescere i peli in faccia e sul corpo liberamente, ma non avevano il coraggio di farlo. I potenti del mondo non sapevano proprio che pesci pigliare. Convocarono tutte le aziende che producevano rasoi, cerette fredde, cerette a caldo, Silk Epil, laser e quant’altro ma questi dissero che non ne sapevano nulla, anzi sostennero una loro contro-teoria cospirazionista (anche se in realtà era palesemente un plagio di una vecchia tesi della musica italiana degli anni ’90) per cui era tutta colpa delle industrie di caffè. Ovviamente, il mio idraulico cinquanteseienne non si fece ingannare. Secondo lui era tutta una manfrina messa su dall’OMS e dall’INPS per non pagare le pensioni ai vecchi. Non capivo l’associazione fra gli scomparsi e i vecchi, ma lui mi assicurava di dargli retta. In fondo aveva fatto anche la leva militare lui, particolare che non mi sembrava molto importante, ma il mio idraulico a volte sembra provenire da un altro mondo. Cosa confermata dal fatto che come sempre ha voluto che pagassi la fattura. Non c’è proprio verso pagare a nero con loro. Proprio alieni questi idraulici. Tornando a noi, gli esperti di ‘sta ceppa non c’hanno capito proprio nulla. E così dopo i fine-settimana a forza di feste e #Milanononsiferma hanno deciso di fermarsi. Anzi, di fermare tutto. Così, de botto, senza senso. Devo dire che la quarantena non è andata poi così male. Mi sono goduto il tempo libero e ho imparato a fare più o meno la torta della nonna. Fra l’altro la situazione stava anche andando benino: visto che tutti erano a casa il numero di scomparsi è via via diminuito, a parte fra quelli che erano costretti ad andare a lavoro dai loro capi perché il capitale non si ferma. Di capi non ne sono scomparsi abbastanza, purtroppo. Comunque, tutti belli contenti che l’emergenza stava passando e s’iniziava a riaprire che ecco accadde il patatrac: la movida. Persone fuori a gongolare e divertirsi in piazza. Subito i media hanno gridato allo scandalo condannando tutti i giovani (dai 5 ai 45 anni) a subire contratti a chiamata, tirocini a 400 €, straordinari non pagati e una dilagante precarietà per sette generazioni fino al 2300, in quanto svogliati rompicoglioni ciuccioni fannulloni menefreghisti rovina della MaddrePPatria. Probabilmente, sempre meglio dello smart working. Intanto, i giornalisti più sensazionalisti provarono a intervistare i movidari e lì si sono accorti che qualcosa non tornava: non erano giovani sbarbatelli, anzi erano persone pelosissime. Ed erano proprio gli scomparsi ricomparsi, solo che erano un po’ diversi. Le donne avevano fiumi di peluria che spuntavano dalle ascelle, creste che spuntavano dalle gambe, delicate mutandine di peli e folte chiome su tutto il resto del corpo. Gli uomini, invece, erano glabrissimi, lisci come palle da bowling e al minimo pelo che gli spuntavano correvano a toglierlo gridando con voce acuta: “Il rasoio noooo, per favore noooooo!” Così ricomparvero tutti gli scomparsi e il mondo si ricoprì di peli e pelati. I potenti del mondo cascarono dalle sedie increduli: “Ma che cazzo sta succedendo?” Trump iniziò a lavarsi con la varichina; Merkel fece finta di offrire un caffè a un Piigs ma poi ritirò tutto facendo una pernacchia; Salvini invocò la Madonna ma gli apparve Re Kaioh del Nord che lo portò a combattere il torneo di arti marziali galattico; Berlusconi continuava ormai da anni a salvare ragazzine minorenni nipoti di Mubarak (oltre a spostare i suoi redditi in paradisi fiscali per non pagare le tasse e poi regalare soldi qua e là. Che animo grande). Insomma, alla fine furono chiamati tutti gli estetisti del Paese che armati di cerette e rasoi iniziarono a depilare tutte le persone-ieti. Persino i barbieri sono scesi in campo. Molti sono diventati pelosissimi, vittime anche loro della pand-peli-mia. Adesso gli estetisti sono gli eroi in prima linea, combattenti in trincea, tanto che il sogno di ogni bambino ora è aprire una partita IVA e diventare estetisti. Lo stato corse ai ripari. In Lombardia venne aperto un centro solarium da 21 milioni di euro, ma la gente non andava più a depilarsi e a farsi fare massaggi perché durante la quarantena avevano comprato tutta la farina del mondo, costringendosi a passare i successivi 10 anni a fare il pane. Fra l’altro ancora non si sapeva dove erano finite le cerette. Ci avevano detto di usarle una al giorno ma non si era capito se fossero migliori quelle a caldo o a freddo. Intanto la cera era finita. Qualcuno iniziò a usare il miele. Che schifo. L’economia era completamente bloccata. Nessuno andava più a mangiare fuori perché con tutti quei peli è un attimo che te ne ritrovi uno nella zuppa. Internet si era riempito di foto e video di gattini che non facevano altro che vomitare palle di pelo. Giuseppi Conte non ne poteva più e decise di estirpare il pelo alla radice (HA–HA). Visto che non si era potuto votare il referendum per tagliare il numero di parlamentari, decise di pensarci lui. Con i 945 i parlamentari e il resto della crème de la crème politica formò un Dream Team di Vendicatori con annesse tutine multicolori dal gusto discutibile e soprannomi improponibili. Dopo qualche ora di inutili FAD – Formazione a distanza – online su come radere al meglio (grande orgoglio di Vulvia-Azzolino), i nostri eroi erano pronti. Armati di rasoi, cerette e laser per andare ad affrontare il nemico. E il nemico si era finalmente mostrato: l’entità misteriosa che aveva causato tutto era l’ Pelo. Si era manifestato in piazza Santo Spirito a Firenze circondato da un’orgia di movidari che bevevano e giocavano allegramente coi loro peli. Si era capito poco dei motivi per cui l’ Pelo lo aveva fatto, ma sembra che abbia twittato che non ne poteva più di vedere i suoi cari figli tagliati via così in malo modo, disprezzati e ritenuti brutti. Spinti da un sentimento nazionalista a forza di hashtag e banalità, Giuseppi Conte, Mettiu Renzie, Zinga Z e gli altri lo affrontarono. La maggior parte dei nostri eroi cadde difronte alle puntute ricrescite da rasoio, le temibili liane di peli e le flatulenze ascellari, ma i più temerari riuscirono ad arrivare al nucleo del Pelo. Era una massa di peli fanciulleschi, la tenera peluria che inizia a crescere nella prima pubertà. Di solito vengono tagliati, ma questi invece erano potuti crescere liberamente in tutta la loro spensieratezza. Gli uomini, però, non ebbero pietà di quel candore. A forza di laser e lanciafiamme distrussero il nucleo e con un lamento che si sentì in tutto il mondo l’entità pelosa scomparve. Fu così che avvenne il miracolo. Una pioggia di peli dorati cascò su tutto il globo. Lo spettacolo era stupendo. Instagram si intasò di stories che riprendevano la pioggia di peli. Poi improvvisamente le persone iniziarono a spogliarsi e a lanciarsi liberi e felici fra i peli, ovviamente con ancora i cellulari in mano. Tutti ridevano e scherzavano. E così la Libertà dei Peli fu conquistata. Le donne erano libere di andare al mare con il muschio addosso e di farsi crescere i baffetti sul viso, mentre gli uomini potevano andare dall’estetista senza sentirsi delle checche. O anche sentendosi delle checche se volevano. In tutto questo il mondo rifiorì, l’economia si riprese, il capitalismo neoliberale cascò, ognuno andava lavorare o meno in base al piede con cui si svegliava la mattina, il calcio fu bandito come sport che ha rotto i coglioni e i carciofi crescevano buoni in tutte le stagioni. Insomma, adesso viviamo in un mondo idilliaco e non si sa se per la libertà pelosa o perché nella battaglia finale la classe politica era tutta deceduta. A dire il vero mi interessa poco. Adesso tornate pure alle vostre vite che io devo andare a farmi le sopracciglia ad ala di rondine. Ciao ciao. Share Tweet Share... Read more...Viaggio al termine di Céline. Un articolo di R. Cannarsa || Threevial Pursuit27 Maggio 2020Viaggio al termine di Céline di Rocco Cannarsa Louis-Ferdinand Céline ‘Sto libro qua che è insopportabile. Come le facce di queste donne medioborghesi americane, che hanno di buono solo il culo. E lo danno, per questo fanno carriera. Che devi fare le scenate per venti dollari. Elemosinare. Ti abboffano di chiacchiere. Da mangiare no, che non te lo danno. E devi abbassarti al loro livello. Abbandonare quella tua ragion d’essere intellettuale. Superiore, sempre. Intoccabile, peccato per le pulci. Quelle ti saltano addosso dai malati solo perché vedono il tuo cappotto. Mica solo poco umido. Il calore di cui hanno bisogno. Che non è che non ti vorresti grattare. C’è la malaria. I neri d’Africa e il caucciù. E ti ritrovi dove sei partito. ‘Sta città. Coi fumi che non si vede il sole. E lo trovi solo dietro la collina. Cammini. Mentre ti senti invecchiare. Ché a vent’anni cambi faccia e il sorriso non lo ritrovi più. Ti perdi solo. Solo. Nella notte. I toni sono più o meno questi. Ho cercato di imitarne il ritmo, lo stile. Di botto, così come te lo ritrovi davanti in Viaggio al termine della notte. Senza spiegazioni, perché Céline non spiega nulla. Sei tu che prima o poi capirai che in realtà aveva già detto tutto. Nel frattempo cerchi di sopravvivere arrancando tra un punto e l’altro. Sempre vicini, che non ti lasciano tregua. Non respiri. Perdi il filo logico, se va bene cogli solo black humour e imprecazioni. Cerchi su internet per vedere se ci capisci qualcosa e scopri sia stato la scintilla della nuova narrativa francese, questo stile qua, tanto vicino al popolo e allo stesso tempo criptico: argot,dicono che si chiami. E poi di colpo ci si eleva a poeti. Tra una merda, un piscio e una pulce, ti ritrovi tutta l’erudizione di una conoscenza forte e ben radicata. Copertina di Viaggio al termine della notte di Céline È un Corbaccio di 553 pagine, nella traduzione di Ernesto Ferrero. In italiano è complicato comprenderlo, sembra siano flussi melodici di parole prive di senso. E vorresti leggerlo anche in francese, se potessi, per provare a capire l’importanza di questa innovazione stilistica misantropico-cinica da scandalo. Ci metti cento pagine d’abitudine. Il romanzo sta partendo e tu non hai ancora ben capito quale sia il nome del protagonista. Sai che è autobiografico, che l’alter ego letterario è Ferdinand (Bardamu), ma non importa chi/come sia o quanti anni abbia, ciò che conta è il suo approccio alla vita, la sua corsa continua, la fuga verso l’ignoto, come la notte. Capisci che è un uomo, nel senso di “essere umano”, e incarna nefandezze, errori, orrori, idiozie e buon cuore. È un uomo e sta nella merda, in un secolo che sembrava promettere molto ma si rimangia tutto. Un secolo in cui la guerra e la miseria entrano nell’immaginario collettivo come una peculiarità naturale dell’uomo. Ne ha parlato Bernanos, di questo libro, e non solo lui. Si dice che nella Francia degli anni Trenta tra critici ed esteti fosse ricorrente argomento di conversazione serale. Ci sarebbe da entrarci dentro, mica rimanere in questa superficie distratta, come farò io. Del resto, lo dice Céline per primo: “Siamo per natura così superficiali, che soltanto le distrazioni ci possono impedire davvero di morire”. È un viaggio. Un viaggio nei primi del Novecento, che parte da Parigi, continua nella Grande Guerra, e arriva agli ospedali militari, gli istituti mentali, l’Africa coloniale, New York, la Ford a Detroit, sembra stia per arrivare in capo al mondo. Invece no, ancora “soltanto” Parigi. E la notte, che non è mai troppo reale o troppo metaforica, ma si intuisce quel buio, quello delle più profonde, infide e intime caratteristiche dell’essere umani. Senti la paura, è palpabile, la filigrana stessa è fatta di paura. Le insicurezze, la perdita di valore umano, reso marionetta di un sistema che lo snatura. Vedi la ricchezza e la fame, senza vie di mezzo. E per quanto tu ti incupisca, per quanto ne possa uscire inquieto, cambi pagina, e a ogni voltare pagina, percepisci i sogni andare in frantumi. Ma poi torna l’oscurità che ti avvolge e rende il mondo dimentico della tua esistenza, e respiri. “La vita diventa quasi tollerabile solo quando cade la notte”. Il cinismo di cui Céline riempie lo sguardo è sempre pronto a cogliere l’abisso della vita, tramutandosi in un brutale (colpa della realtà) approccio giornalistico, di una letteratura quasi americana, totalmente diversa dalla narrazione descrittiva tipica del francese. Questo, però, non gli proibisce di avere il coraggio di essere spontaneo, di una spontaneità tremenda. È un libro che infastidisce. Ti fa rabbia, quasi. Il protagonista è odiabile, spietato, inneggia ripetutamente alla violenza e allo stupro. Uno che ragiona per stereotipi, per cui le donne sono tutte troie pettegole. Lo disprezzi, non lo sopporti. Poi lo trovi poeta, profondo, misteriosamente ribelle all’ordine delle cose, sognante. Lo guardi addirittura innamorarsi. Di una prostituta, con un sentimento autenticamente illusorio, cui si vede costretto a rinunciare per non contrastare quella sua sete di scoperta che lo spinge ad andare sempre altrove. E le scrive senza mai ricevere risposta. “Il casotto è chiuso adesso. È tutto quello che ho potuto sapere. Buona, ammirevole Molly, vorrei se può ancora leggermi, da un posto che non conosco, che lei sapesse che non sono cambiato per lei, che l’amo ancora e sempre, a modo mio, che lei può venire qui quando vuole a dividere il mio pane e il mio destino furtivo. Se lei non è più bella, ebbene tanto peggio! Ci arrangeremo! Ho conservato tanto della sua bellezza in me, così viva, così calda che ne ho ancora per tutti e due e per almeno vent’anni ancora, il tempo di arrivare alla fine. Per lasciarla mi ci è voluta proprio della follia, della specie più brutta e fredda. Comunque, ho difeso la mia anima fino ad oggi e se la morte, domani, venisse a prendermi, non sarei, ne sono certo, mai tanto freddo, cialtrone, volgare come gli altri, per quel tanto di gentilezza e di sogno che Molly mi ha regalato nel corso di qualche mese d’America”. Louis-Ferdinand Céline della sua casa di Meudon E ci si chiede come questi modi contraddittori del percepire l’esistenza possano coesistere in una stessa persona – persona famosa per il suo razzismo e il suo antisemitismo estremo –, come si possa vivere portandosi in corpo questo dualismo. Eppure una mente del genere riesce a dischiudersi con dolcezza poetica alla vita, ad analizzare quasi filosoficamente, in un modo radicalmente sinistro, la povertà intellettuale e materiale, la futilità di ciò che rimane e quell’ideale di progresso che anticipa le false promesse del prossimo futuro. “Gli nasconde tutto la vita agli uomini. Nel rumore che fanno loro stessi non sentono niente. Se ne fottono. E più la città è grande e più è alta e più se ne fottono. Ve lo dico io. Ho provato. Val mica la pena”. Non me la sentirei di definirlo un romanzo “che ti cambia la vita”. Non l’ho “letto” così. Eppure lo si chiude sbalorditi (senza mai abbandonare il dissidio di cui sopra). Attuale, e il fatto che lo sia fa altamente paura. Molti hanno osservato una certa comicità nell’odio di cui è pieno, odio che non si sa se vada ricollegato alla situazione biografica dell’autore, o se sia ciò che questo mondo meriti di ricevere. Io di comico ci trovo poco. Porta con sé quel fondo di malinconia, tristezza, la classica prerogativa di un uomo sensibile e sognante, che si scontra con una realtà inevitabilmente più grande, anche dei suoi desideri. Share Tweet Share... Read more...QuaranThreevial N°7: Fake News. Un articolo di S. Venuti23 Maggio 2020... Read more...Westworld e il Sé narrativo, un articolo di A. Polverosi || Threevial Pursuit20 Maggio 2020Westworld e il Sé narrativo Narrazione, determinazione e liberazione di Andrea Polverosi – ATTENZIONE: CONTIENE SPOILER! – È finita la terza stagione di Westworld. Sappiamo che ce ne sarà una quarta, ma si può già fare un commento generale in quanto con questa stagione si sono chiusi diversi sviluppi. Ad esempio, muoiono due personaggi principali, Dolores e William, e in generale si è concluso il (primo?) movimento degli androidi verso il mondo umano. Con la terza stagione si entra del tutto all’interno dell’immaginario Cyberpunk: gli autori (Jonathan Nolan e Lisa Joy) recuperano tutti gli stilemi del genere (spazio urbano, oscurità notturna, grattacieli, IA, sviluppo tecnologico e robotico futuristico, droghe, dominio di grandi trust economici, capitalismo sfrenato, massa ribelle di individui ai margini della società, Davide vs Golia, ecc.) inserendoli in un’estetica di perfetta lucentezza e liscezza e infarcendo la trama e la scenografia di continue citazioni da alcune della massime opere del genere (Matrix, Trumanshow, Neuromante, fino al finale che è la copia scenografica di quello di Fight Club). Tutto questo, però, non arricchisce la storia: gli elementi estetici e gli schemi narrativi del Cyberpunk fanno ormai da anni parte del nostro immaginario culturale abituale. Si conferma, così, la perdita di qualità che già era avvenuta con la seconda serie. Westworld resta comunque una delle migliori opere di SF (speculative fiction, science fiction, fantascienza) degli ultimi anni. In questo articolo mi concentrerò sulla parte più croccante di tutta la serie: la sua solida base filosofica. Westworld, infatti, mette in scena la decostruzione dell’Io occidentale moderno e svela la struttura narrativa del nostro Sé. Per fare ciò, gli autori si sono esplicitamente appoggiati alle teorie dello psicologo Julian Jaynes, sulle cui idee è basato il processo di emergenza della coscienza degli androidi di Westworld, e del filosofo della mente Daniel Dennett. Partiamo dall’Io moderno basato sull’umanesimo e l’antropocentrismo. L’idea moderna di uomo (e non di umano, perché con “uomo” si guardava non all’umano in generale, ma proprio a un individuo con genitali maschili, bianco, occidentale e di successo) è quella di un individuo solido, tutto d’un pezzo, la cui identità è un atomo, un’isola che ha a che fare con altre entità ma che non si lascia attraversare da esse, dove i confini sono stabili e non crollano. In campo economico e sociale, tale idea assume la forma del self-made man, un uomo che si fa da sé, che non è creato ma autogenerato, padrone (di sé), capace di determinare e determinarsi, libero e non influenzabile. Questo è stato uno dei miti fondatori dell’Occidente degli ultimi due o trecento anni, forse quello più importante, che poi verrà demolito teoreticamente in quanto falso con la post-modernità. Il campione westworldiano di questo tipo di uomo è William. Capitalista di successo, parte da zero (in realtà, come tanti si appropria della fortuna del capitalista che lo ha preceduto), è proprietario del parco sia dentro che fuori, commette ogni tipo di nefandezza ma per tutta la prima stagione non è mai toccato dal dubbio, convinto persino di poter controllare le sue parti più oscure scindendosi in due persone: crudele e sadico dentro il parco, lavoratore integerrimo fuori. Dualismo tipico della modernità. Già da qui si possono scorgere le premesse che lo porteranno alla caduta e all’abisso nelle successive due stagioni. Alla fine, convinto di essere risorto dalle ceneri, morirà in modo stupido e solo come un cane. Non ci capirà un cazzo, insomma. Rallentiamo le anticipazioni, torniamo allo schema iniziale. Sulla base dell’Io moderno, Westworld recupera il tema classico del rapporto fra umani e androidi: solitamente in tanti racconti SF vediamo due gruppi in conflitto legati da un rapporto verticale: uno domina l’altro e la stessa struttura urbana del mondo rappresentato segue lo schema alto/basso o centro/periferia. Oltre alle dinamiche di dominio (“Dove tutto è concesso” da parte di umani su androidi), c’è anche una netta differenza ontologica: gli androidi sembrano comportarsi come noi, ma in realtà sono completamente diversi, sono oggetti vuoti che si muovono grazie a un programma algoritmico controllato da qualcun altro (noi), privi di coscienza e libero arbitrio. Qui s’installa la relazione noi/altro, che assume da subito la direzione antropocentrica verticistica secondo la quale noi siamo migliori degli altri per via delle nostre caratteristiche uniche e speciali: coscienza, razionalità, libertà. In più, gli androidi sono nostre creazioni e questo pone l’uomo occidentale subito in una posizione divina. Ciò è evidente una volta che andiamo dietro le quinte del trumanshow del parco giochi di Westworld, in quegli spazi dove la violenza politica dell’antropocentrismo si palesa: i laboratori in cui gli androidi vengono portati una volta morti, per lo più uccisi da qualche nostro conspecifico. Qui i rapporti fra androidi e uomini si manifestano in tutta la loro realtà: spogliati, nudi, immobili, spenti, gli androidi sono oggetti su cui gli scienziati chirurghi mettono le loro mani e i loro dispositivi senza alcun limite. Dunque, la supremazia ontologica fonda quella politica: superiorità dell’essere implica superiorità esistenziale e questo giustifica tutte le violenze dell’uomo perpetrate sull’androide. Siamo sollevati dalle implicazioni etiche delle nostre azioni perché queste conchiglie vuote non sono senzienti e quindi sono inferiori. Identico al rapporto che ci lega con gli animali da allevamento intensivo. Parafrasando le parole di Leonardo Caffo in Zampe come gambe, questa è la dinamica relazionale che l’uomo occidentale bianco installa con qualunque organismo che sia altro da sé: animali, donne, neri, poveri, omosessuali, transgender. Tutti diversi, tutte bestie. Ma come vedremo più avanti, tale relazione è capovolta: è il dominio politico, fisico e violento che fonda la falsa tassonomia ontologica che dovrebbe sancire la nostra superiorità. Westworld riprende la relazione basata sulla nostra presunta supremazia ontologica/politica ma da subito ne attenua la verticalità: androidi e umani si muovono su uno stesso piano all’interno del parco giochi, interagiscono. Certo, per lo più tale interazione acquisisce la forma del dominio dell’umano sull’altro, ma tale obliquità rende possibili altre forme: William, sebbene campione dei self-made men, si innamora di Dolores; Ford e Arnold provano stima/amicizia verso gli androidi; Lee si innamora di Maeve; Caleb e Dolores sono amici. A partire da questo, Westworld si installa da subito sulle conclusioni del film Blade Runner: a prescindere dal fatto che Deckard sia un uomo o no, la pellicola mostra il lato umano degli androidi, sia nella figura dell’amata Rachael che del rivale Roy Batty. Questo vuol dire che oltre alla barzelletta dell’Io moderno, Westworld presenta un’altra narrazione: gli androidi ci assomigliano e hanno dignità. Questa è la tesi che si dipanerà in modo convincente lungo tutta la trama di Westworld. Ma come si insinua tale narrazione all’interno di un mondo dominato dalla concezione moderna dell’Io? Gli autori di Westworld lo fanno svelando a poco a poco la struttura narrativa del Sé, caratteristica che riguarda sia umani che androidi. Negli ultimi decenni molti studi sono stati fatti sulla narrazione: oltre a essere un intrattenimento, si ritiene che essa sia stata fondamentale nella nostra evoluzione culturale, che sia un mezzo in cui incanaliamo informazioni pratiche e morali, che l’immersione narrativa sia una simulazione affidabile della vita. Questo spiegherebbe la figura del cantastorie attorno a cui ci raduniamo da migliaia di anni. Gottschall definisce la nostra specie Homo fictus, l’animale che racconta storie e le cui convinzioni, comportamenti, principi etici sono sottilmente plasmati dalla finzione narrativa: di notte sogniamo racconti, di giorno ci creiamo un’infinità di fantasie; persino la Storia è una storia. “Due cause appaiono in generale aver dato vita all’arte poetica, entrambe naturali: da una parte il fatto che l’imitare è connaturato agli uomini fin dalla puerizia (e in ciò l’uomo si differenzia dagli altri animali, nell’essere il più portato ad imitare e nel procurarsi per mezzo dell’imitazione le nozioni fondamentali), dall’altra il fatto che tutti traggono piacere dalle imitazioni”. Come già detto, gli autori di Westworld si basano sulle tesi di Jaynes e Dennett circa il ruolo fondamentale della narrazione rispetto alla nostra evoluzione. Essi, infatti, ritengono che il nostro Sé, l’idea che abbiamo di noi, la nostra identità si costruisca in modo narrativo: per loro, la coscienza è figlia del linguaggio e il linguaggio è in stretta relazione con la narrazione. In Coscienza. Che cosa è, Dennett definisce il Sé narrativo come un fenotipo esteso, ossia come un elemento che fa parte del nostro equipaggiamento biologico fondamentale. “Noi siamo quasi costantemente impegnati a presentare noi stessi agli altri, e a noi stessi, e quindi a rappresentare noi stessi – tramite il linguaggio e i gesti, internamente ed esternamente. La nostra tattica fondamentale di auto-protezione, di auto-controllo e di auto-definizione non è quella di tessere ragnatele o costruire dighe, ma quella di raccontare storie, e più in particolare di architettare e controllare la storia che raccontiamo agli altri – e a noi stessi – su chi siamo”. La coscienza ci duplica: sono io che sono cosciente di me stesso. Sono soggetto e oggetto. Agisco e allo stesso tempo mi vedo agire. Dalla coscienza di noi stessi deriva la domanda: “chi sono io?”, “qual è la mia identità?”. Rispondiamo con una storia: “Io sono Andrea Polverosi, ho 27 anni, vivo in Italia, è l’anno 2020, sto scrivendo un articolo…”. Astraiamo: “Io sono X, ho Y anni, vivo in Z, è l’anno W, sto T un D…”. Le nostre storie si alimentano delle nostre esperienze: questo significa che la storia che ognuno si dà è costruita su migliaia di elementi casuali, contingenti, fattori esterni da noi non controllati, eventi e dettagli che sarebbero potuti andare in mille altri modi diversi, ogni azione poteva essere un’altra e ogni azione poteva avere un esito differente. Codice genetico e ambiente fisico, sociale e culturale sono fattori che ci determinano e su cui individualmente abbiamo un tasso di controllo del tutto marginale. Noi (ci) raccontiamo e allo stesso tempo siamo raccontati. Se davvero le nostre identità sono costrutti narrativi, allora la concezione moderna dell’Io non può che essere falsa. Dal Sé moderno antropocentrico al Sé narrativo: gli autori di Westworld compiono tale movimento secondo due vettori diversi, opposti e complementari: il movimento ascendente degli androidi e quello discendente degli umani. Il primo è quello che porta gli androidi dalla loro condizione di partenza di oggetti vuoti totalmente assoggettati al volere altrui a esseri senzienti, coscienti, pensanti e capaci di atti deliberati. Le figure esemplari di questo cambiamento sono Dolores e Maeve, fondamentali anche perché i loro mutamenti le conducono a esiti diversi e questo indica che il Sé narrativo è strutturalmente aperto a più possibilità. Il movimento discendente è quello degli uomini: da presunti padroni diventiamo servi e questo è evidente nella figura di Serac, padrone del mondo che in realtà non è altro che un burattino nelle mani del suo mostro di Frankestein, l’IA Rehoboam capace di calcolare il futuro, da Serac stesso innalzato a figura divina che gli ordina persino ogni singola parola che deve dire. I due movimenti opposti, però, non si ribaltano del tutto, non si dà una nuova gerarchia, ma si arriva a un punto medio: sia androidi che umani sono costrutti narrativi. Dunque, non siamo liberi e indipendenti ma siamo determinati da vari fattori. Uno dei principali è dato dalle storie personali e collettive che ci narriamo e in cui siamo immersi. Non siamo persone ma personaggi, chimere, fantasmi partoriti dalle nostre menti, finzioni. Questa è la crisi della modernità, la scoperta di non essere quello che credevamo di essere, lo shock difronte allo svelamento di una realtà che non credevamo possibile. Westworld non si paralizza qui, per fortuna: le nostre identità, le nostre società sono costrutti narrativi basati su storie, ma questo non vuol dire che siano false. Riprendendo la Poetica di Aristotele, una narrazione, un racconto è una composizione di fatti, una selezione di elementi: una storia, ad esempio una biografia, non riporta tutto ciò che è successo ma solo gli eventi che risultano significativi in base a certi criteri. Si possono scegliere i momenti più tristi, quelli più felici, quelli in cui si indossava un paio di mutande blu oppure dove si era in salotto. Ci sono infiniti possibili criteri. La nostra memoria funziona esattamente così: se ricordassimo ogni singolo istante della nostra vita, ci vorrebbe un’altra vita intera per ricordare tutto. La verità è che la nostra memoria è scarsissima: ricordiamo una frazione minima del nostro passato e gli eventi che ricordiamo meglio sono quelli che per noi sono stati in qualche modo significativi. Ma chi decide cosa è significativo e cosa no? Non c’è un unico criterio valido per tutti: ciascuno costruisce (per lo più inconsciamente) un diverso criterio di significatività in base alla sua personalità. E non è altro che un cane che si morde la coda: la personalità si costruisce in base alla vita, la vita viene filtrata in base alla nostra personalità. La nostra storia si costruisce sulla storia che si è costruito. Non è una linea retta unidirezionale, ma un circolo che si avvita su se stesso. Che conseguenze ha lo svelamento del Sé narrativo? Una possibile deriva è quella nichilista e cinica, oggi molto in voga: è tutto storia, tutto finzione, tutto falso, niente conta, io non conto, non ci posso fare nulla, sono impotente. Facile, comodo, noioso. È evidente che rispetto alle promesse ideologiche del Sé moderno, l’Io narrativo possa deludere: non si è più al posto di comando, la nostra libertà è molto ridimensionata. Ma nelle figure di Dolores, Maeve, Serac e Caleb si può vedere che tale ridimensionamento non implica un annullamento: Dolores e Maeve scoprono di non essere umane, di non essere libere, ma di essere automi che per decine di anni hanno subito ogni tipo di violenza senza che loro potessero fare nulla e che persino la loro identità, la loro memoria, le loro relazioni più intime non sono altro che storielle inventate per il divertimento dei clienti del parco. Questa scoperta non le rende impotenti, tutt’altro: si danno nuove storie. Entrambe vogliono cambiare la situazione: Dolores forma un gruppo di androidi ribelli intenzionati a uscire dal parco e conquistare il mondo umano; Maeve, prendendo una strada più “egoista”, mira alla libertà personale. Sulla base delle loro personalità e sulla loro situazione rispetto all’ambiente in cui vivono si danno nuove storie, selezionano in un modo a loro più adeguato ciò in cui credere e le azioni da compiere. Da notare, inoltre, che nessuna delle due abbandona in modo completo le vecchie storie, anzi si legano fortemente agli elementi più cari, ossia gli affetti personali: questo è evidente nella figura di Maeve, che arriva a mettere in secondo piano la sua libertà rispetto alla vita della figlia. Sua figlia? Ma gli androidi non hanno figli, le loro relazioni parentali e affettive non sono altro che finzioni narrative imposte dagli scienziati sceneggiatori del parco! Vero. La nostra identità, però, non si basa solo su elementi narrativi, ma anche su fattori corporei e sentimentali. Le emozioni più forti tendono a restare fra i criteri di selezione della narrazione. Come abbiamo detto, libertà e indipendenza assolute sono dei falsi miti dell’Io moderno che non sono presenti nel Sé narrativo. Si lavora con quel che si ha all’interno dei nostri limiti. Il fatto che Maeve continui a dare importanza a una falsità non toglie il potere di liberazione della nuova narrazione, liberatrice in quanto è lei, per lo più, che si è raccontata tale storia basata, per lo più, su elementi veri. A questo punto, dove sono gli umani? Il primo campione, William (l’Uomo in Nero), a poco a poco si rende conto di non essere affatto padrone del gioco, inizia a dubitare dell’autenticità delle sue azioni, sospetta persino di essere lui stesso un automa. Immerso nelle dinamiche del gioco arriva a uccidere sua figlia, perde tutto, diventa schizofrenico, viene rinchiuso. In qualche modo riemerge dall’abisso, ma come già detto non capisce proprio nulla. E Serac (l’Uomo in Bianco)? Il secondo campione dell’Occidente? Da ragazzo conosce la realtà: l’Io moderno è una falsità, gli uomini non sono liberi, sono guidati da impulsi che li portano all’autodistruzione. Assieme al fratello, quindi, decide di mettere su lui la società perfetta dell’uomo moderno. Non avendo dubbi sulla deficienza dell’uomo, la perfezione a cui mira Serac è del tutto cinica e pessimista: la massima cosa a cui si può aspirare è la sopravvivenza. Così corona il sogno di Leibniz di costruire una macchina in grado di calcolare il mondo e con questa si arricchisce a tal punto da poter intervenire in tutto il globo, laddove le persone potrebbero prendere una rotta opposta a quella predetta dai piani probabilistici della sua macchina. Crea un mondo bianco, liscio, dove le impurità nere e pelose non sono previste: fa il lavaggio del cervello e sovrascrive tutti gli individui imprevedibili, incalcolabili e rinchiude tutti quelli affetti da qualche problema psicologico, mine vaganti, arrivando a eliminare persino il fratello. L’uomo occidentale difronte alla falsità della sua supremazia, pur di mantenere i suoi falsi dei di dominio e progresso ha costruito il suo dittatore e si è reso schiavo. Serac e l’Incite sono la metafora perfetta dell’odierna società capitalista occidentale: con il crollo dell’Unione Sovietica, il capitalismo è diventato l’unica opzione. Segue il crollo di tutte le sinistre. E la presunta unicità del capitalismo non viene scalfita nemmeno quando lo stesso capitalismo dimostra di essere insostenibile: nel 2008 gli stati e gli enti sovranazionali hanno salvato le stesse banche che avevano causato la più grande crisi economica mondiale dal 1929; oggi difronte alle catastrofiche conseguenze ecologiche del capitalismo neoliberale non siamo in grado di fare altro che negare, essere indifferenti, sostenere la nostra falsa impotenza e perpetuare le stesse politiche economiche fallimentari che ci hanno portato a questo punto. Eccoci arrivati: pessimismo, distopia, fine del mondo. Quello a cui il Cyberpunk e il mondo ci hanno insegnato a pensare negli ultimi anni. Westworld, però, con un po’ di timidezza e ingenuità mostra una conclusione alternativa. Il Sé narrativo ha delle caratteristiche peculiari diverse da quello moderno: in primis non è già dato, ma di volta in volta si costruisce. Questo significa che il Sé narrativo è strutturalmente permeato dall’apertura. Ogni giorno posso incontrare qualcosa che mi può portare a modificare un pezzetto della mia storia. Certo non è facile. Westworld presenta gli androidi come una specie diversa dalla nostra: non tanto per i loro corpi in silicio o per la mente elettronica, ma per il fatto che sono in grado di riprogrammarsi. Sebbene con lentezza, anche noi possiamo farlo, raccontandoci una nuova storia. Il Sé narrativo, quindi, ci può liberare dalle storie false e aprirci a nuove possibilità. A differenza dell’impermeabile Sé moderno, il Sé narrativo permette contaminazioni e alleanze inaspettate. È quello che succede fra Dolores e Caleb nella terza stagione: più volte lui dubita della natura di lei e le chiede chi è, fino a quando non la vede in tutta la sua differenza fisica. Spoglia della pelle di plastica, Dolores mostra il suo scheletro in silicio e Caleb la accetta. La svolta decisiva è quella di Dolores che da vendicatrice degli androidi e distruttrice di mondi decide di non sterminare l’umano, ma di eliminare la società costruita da Serac per restituire la libertà agli altri umani. “Sono capaci di bellezza” dice: per gli stessi autori, la motivazione della sua svolta è un po’ ingenua. Ciò non toglie che il suo cambio di narrativa dimostri l’apertura del Sé narrativo che qui si traduce in alleanza fra specie diverse: Caleb e Dolores riconoscono la dignità reciproca e quella delle specie a cui appartengono. Con questo viene abbattuto l’antropocentrismo e qualunque altra ideologia ponga l’essere in un’unica specie o entità. Una svolta che sembra necessaria anche per noi, alla luce delle atrocità commesse in nome dell’uomo bianco occidentale moderno di successo. Julian Jaynes (1920-1997) è stato uno psicologo statunitense, noto soprattutto per il suo libro Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza (Adelphi, Milano, 2002) in cui sosteneva l’idea che i popoli antichi fossero privi di coscienza, agendo come automi. Secondo la teoria della mente bicamerale, l’emisfero destro ordinava all’emisfero sinistro cosa fare. Gli impulsi elettrici dell’emisfero “comandante” venivano percepiti dall’individuo come delle voci divine provenienti dall’esterno. Grazie a vari fattori, primi tra cui il linguaggio e la narrazione, la struttura cerebrale e mentale dei popoli antichi si è via via modificata fino ad arrivare all’emergere della coscienza.Il cervello degli androidi di Westworld si basa su questa tesi di Jaynes e lo si vede molto bene soprattutto nella prima stagione. Daniel Dennett (1942) è uno dei più importanti filosofi contemporanei. È un filosofo della mente: i suoi principali oggetti di studio sono la scienza, la mente, la coscienza e il problema mente/corpo. Profondo sostenitore del materialismo e acerrimo nemico del dualismo cartesiano, si è occupato anche di evoluzionismo.Fra le sue opere principali ci sono L’Io della mente (coautore: Douglas Hofstadter, Adelphi, Milano, 1992), L’idea pericolosa di Darwin (Bollati Boringhieri, Torino, 2004), Sweet dreams. Illusioni filosofiche sulla coscienza (Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006) e Coscienza. Che cosa è (Editori Laterza, Roma-Bari, 2009). Leonardo Caffo (1988) è un filosofo italiano noto per le sue teorie sull’animalismo, l’antispecismo (“debole” nella sua versione) e sul postumano contemporaneo. Ritiene che l’antropocentrismo che ha caratterizzato la cultura moderna occidentale condurrà a breve la società a una catastrofe ecologica e sociale. L’unica possibilità di salvezza è una netta trasformazione culturale: il postumano contemporaneo abbandonerà i vecchi miti dell’Occidente e si aprirà all’altro, instaurando una relazione umile e rispettosa con l’animale e la natura.Scrive di cultura su varie testate italiane (L’Espresso, il manifesto, Corriere della Sera). Fra le sue opere principali ci sono Il maiale non fa la rivoluzione (Edizioni Sonda, Casale Monferrato, 2013), Fragile Umanità. Il postumano contemporaneo (Einaudi, Torino, 2017), Costruire futuri. Migrazioni, città, immaginazioni (coautrice Azzurra Muzzonigro; Bompiani, Milano, 2018) e Dopo il COVID 19. Punti per una discussione (Nottetempo, Milano, 2020). Solitamente il film Blade Runner (1982) di Ridley Scott viene citato come un’opera autenticamente dickiana. In realtà, il regista è fedele all’ambientazione e ai temi dell’opera Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (1968) di Philip K. Dick a cui si ispira, ma ne tradisce la filosofia. Dal libro, infatti, si evince che Dick non credeva affatto che gli androidi potessero avere una qualche “umanità”, anzi si contraddistinguevano per la loro mancanza di empatia e crudeltà, oltre a causare una degenerante corruzione morale della società.Libro da leggere: c’è una scena in cui non si può che togliersi il cappello difronte alla grande capacità di scrittura di Dick, che sicuramente trascende l’angolino in cui di solito vengono sviliti gli scrittori di genere. Jonathan Gottschall (1972) è uno studioso statunitense di letteratura. Il suo principale oggetto di ricerca è il ruolo della narrazione e della letteratura all’interno della nostra evoluzione. Aristotele, Poetica, Rizzoli, Milano, 2017, p. 125. D. Dennet, Coscienza. Che cosa è, Editori Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 464. Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716) è stato uno dei più importanti filosofi, matematici e scienziati dell’Età moderna. Precursore dell’informatica, è tuttora in lotta con Isaac Newton circa la paternità del calcolo infinitesimale.Suo il grande sogno, poi ereditato dai logici dell’800 e ripreso appunto in Westworld, di un perfetto sistema logico in grado di formalizzare simbolicamente tutti gli stati di cose del mondo, così da poterne prevedere gli esiti.“Secondo ciò quando sorga una controversia, non ci sarà più necessità di discussione tra due filosofi di quella che c’è tra due calcolatori. Sarà sufficiente prendere una penna, sedersi al tavolo e dirsi l’un l’altro: calcoliamo (calculemus)!”, (Leibiniz, Dissertatio de arte combinatoria, 1666). Share Tweet Share... Read more...QuaranThreevial N°6: Antropocene. Un articolo di R. Cipro16 Maggio 2020QuaranThreevial N°6: Antropocene di Rossella Cipro Antropocene di Giulia David Non è vecchia l’ipotesi dell’Antropocene, l’epoca umana, e non è tardi per riportarla all’attenzione, soprattutto in un momento come quello che stiamo vivendo. Oggi non abbiamo scuse. Dobbiamo guardarci allo specchio. Siamo costretti a restare a casa, notte e giorno, a fare i conti con noi stessi. Ci avevamo perso l’abitudine, diciamoci la verità. Eravamo così occupati a vivere negli occhi degli altri che abbiamo scordato per molto tempo di vivere guardandoci con attenzione, per davvero, senza il filtro dell’aspettativa. È normale concretarsi così tanto nel guardarsi per farsi guardare, in un sistema in cui ciò che appare è ciò che importa, mentre facciamo finta che ciò che non vediamo non esista. Ci hanno insegnato a essere superficiali, a non andare a fondo, a lasciarci andar bene qualsiasi cosa. Ci hanno insegnato che le masse seguono il flusso delle tendenze. Se questo è vero, allora ci hanno trainato a forza verso la nostra distruzione. L’Antropocene potrebbe essere la dimostrazione del fatto che abbiamo spinto l’uomo oltre la propria ragione, in funzione di scopi che non hanno niente a che fare con il benessere individuale, e con il benessere in generale. Parlo dell’interesse personale di persone troppo abituate a fare soldi per rischiare di perdere anche solo un centesimo cambiando le loro abitudini. E intanto continuiamo a produrre e produrre e ancora produrre. Per questo l’epoca umana denomina quel periodo in cui la nostra specie e le attività che svolgiamo hanno apportato al nostro pianeta modifiche territoriali, strutturali e climatiche, causando un diverso assetto negli ecosistemi. Oggi il termine si usa per indicare una nuova era geologica vera e propria, diversa dal contemporaneo Olocene. Questo fatto mi pare assurdo e straordinario insieme. In oltre quattro miliardi di anni, mai gli abitanti della Terra avevano agito a tal punto da modificare così radicalmente l’ambiente circostante, come noi stiamo facendo da qualche centinaio di migliaia d’anni. Prosciughiamo fiumi, costruiamo dighe, inondiamo terre, facciamo esplodere montagne e le trapassiamo da parte a parte, bruciamo foreste, tagliamo più alberi di quelli che piantiamo, cacciamo alcuni animali per sport trattandoli da trofei, ne alleviamo altri in condizioni pietose, smaltiamo rifiuti pericolosi in terreni coltivabili, costruiamo discariche per poi incendiarle. Straziamo la nostra Terra in ogni modo, come sanguisughe succhiamo ogni suo bene, ogni risorsa deve essere la nostra, ogni terra deve avere un nome, ogni punto sulla mappa deve essere esplorato. Ogni nuova e vecchia specie va catalogata, ogni rettile, ogni uccello, genere, ordine, classe, phylum, regno, dominio, vita. I miracoli della nuova genetica, la scoperta di DNA, RNA, di proteine. Gli elementi chimici che vanno messi in ordine. Tutto al suo posto, niente scappa all’occhio dell’essere umano che tutto controlla e che tutto trasforma a propria immagine e somiglianza. Tutto tranne un piccolo imprevisto. Un invisibile esserino che ha invaso le nostre vite. Nella maggioranza dei casi l’ha anche cambiata, peggiorata o migliorata, l’ha resa diversa. È arrivato all’improvviso e ci ha sconvolto, trascinandosi dietro notizie di migliaia di morti. Nessuna nazione è stata risparmiata, nessun continente: una pandemia globale. Siamo stati costretti ad affacciarci ai balcone e alle finestre, e a guardare il mondo fuori con tutti i suoi colori, e a renderci conto che questo va avanti anche senza di noi. E non sto ovviamente parlando delle nostre fabbriche, e di tutte le altre attività che ancora si affannano a produrre, ma parlo del silenzio riempito solo da cinguettii, dal rumore del vento tra le foglie degli alberi. Faccio caso che oltre le case si vedono le montagne, il cielo è azzurro e l’aria profuma di primavera. Dai balconi abbiamo costruito ponti con i nostri vicini, c’è chi ha ritrovato la comunità e chi ha iniziato a scoprirla, è tornata la voglia di vivere gli spazi pubblici che ci appartengono, di riportare la gente per le strade, di allacciare mani e cuori e creare reti e collaborazioni, unire tutte le persone nella voglia di ricominciare. Il problema è uno solo. Che nel voler ricominciare dimentichiamo che è necessario cambiare le nostre abitudini, e gli esseri umani sono molto restii in questo. Se c’è una cosa che abbiamo imparato a fare bene è adagiarci sulle comodità, inseguire il piacere oltre ogni morale, dare più conto ai nostri capricci che ai nostri ideali. Siamo abituati a trasformare la realtà così come ci torna utile e, dagli animali alle piante, dai campi alle montagne, dai laghi ai fiumi e fino al mare, abbiamo reso tutti schiavi dei nostri piaceri. E non a caso tutto sta lentamente tornando come prima. Niente sembra essere cambiato e forse abbiamo anche sbagliato a illuderci. Abbiamo visto tutti la foto del fiume Sarno dopo solo un giorno dall’inizio della Fase 2. Quel fiume è conosciuto come il corso d’acqua perenne più inquinato, non d’Italia, ma d’Europa. Durante i mesi del lockdown era tornato limpido e pieno di pesci, a dimostrazione che siamo noi il nostro più grande problema. Non sto dicendo che ognuno di noi è un tiranno verso la natura, anche perché la deforestazione, l’aumento dell’inquinamento, la perdita di biodiversità, il sovrasfruttamento delle risorse minerarie, la distruzione degli ecosistemi, non li abbiamo causati direttamente noi, ignari individui. Insomma, mica tanto ignari. Semmai veniamo trattati come burattini di quella enorme farsa che è il capitalismo. Sì, siamo burattini nella mani di chi decide in direzione deve andare l’economia, quanti ettari di foresta debbano essere abbattuti per far spazio a un enorme allevamento di suini, o quanti per far spazio alla soia, o alle vacche. Quanto spazio va strappato alla natura per far posto a ciò che a noi, e solo a noi serve – e non ci serve neanche tanto. Esistono persone che non vogliono tener conto che siano possibili alternative ai moderni modi di comportamento e produzione, di qualsiasi genere questa sia. Così, assecondando i nostri vizi e le nostre ragioni, siamo entrati nell’epoca a cui abbiamo il disonore di aver suggerito il nome: “ il termine “Antropocene” coniuga la parola greca “anthropos” con il suffisso “cene”, che proviene dal greco kainos, col significato di “nuovo” o “recente”, per suggerire l’ingresso in una nuova epoca della terra dominata dall’attività umana.” Sì, perché tra migliaia di anni, nelle conformazioni rocciose, nella sabbia, nelle acque, nell’aria, i nostri residui saranno ancora presenti a testimoniare l’evento più catastrofico avvenuto sulla Terra dopo la scomparsa dei dinosauri: la presenza del genere umano. E non lasciamo niente di buono, sia chiaro. Anche se dovessimo tutti rinsavire e cominciare a porre un freno a questa folle sovrapproduzione, le nostre intenzioni, le nostre buone azioni non saranno bastate a fermare ciò che è irreversibile. Siamo già stampati nella memoria del nostro pianeta, per il quale il sole non cala mai, e che deve sopportare il nostro peso costantemente, mentre continua senza tregua il suo moto perpetuo di rotazione e rivoluzione. Rivoluzione, insieme a “emergenza climatica”, è un alto termine che riecheggia nel silenzio delle strade. Ma nessuna rivoluzione può funzionare se non ci rendiamo conto che siamo nell’epoca in cui tutto, ogni minimo particolare, dipende da noi e da nessun altro. Se proprio deve restare qualcosa del nostro passaggio, allora che non sia una landa desolata e senza piogge ciò che ci lasciamo dietro. Nessun essere vivente nasce per restare e, se resta, non è mai sempre uguale, anche se non si riesce a vedere il cambiamento. L’unica cosa che non cambia però sembra essere il nostro comportamento, il quale a lungo andare porterà questa zattera alla deriva, fin dove nessuna nave potrà raggiungerla per salvarci. Share Tweet Share... Read more...Ricky Gervais: anatomia di una battuta. Un articolo di B. Bendinelli || Threevial Pursuit13 Maggio 2020Ricky Gervais: anatomia di una battuta di Benedetta Bendinelli In un tweet del 2013 Ricky Gervais scriveva questo: Traducendo alla lettera (dando per scontato che tra di noi ci siano ancora delle capre che non parlano inglese): Se rimuovessimo la nota “non bere” dalle bottiglie di varichina e “potrebbe contenere tracce di frutta a guscio” dai pacchetti di noccioline, penso che potremmo rafforzare il patrimonio genetico. Oltre al fatto di essere profetica, in quali altri modi potremmo descrivere quest’affermazione? Crudele? Insensibile? Borghese? Forse, forse e forse. Sulla base di questo – e considerando quanto la popolarità sia spesso sinonimo di democraticità – come si spiega il successo che Ricky Gervais riesce a ottenere grazie alle tre spregevoli caratteristiche? Possibile che tra tutti i pan-attivisti del ventunesimo secolo non ci sia nessuno che voglia censurarlo, denunciarlo, demolire il suo personaggio? Sappiamo che di azioni legali ne sono state fatte – e anche molte – ma niente che lo abbia del tutto allontanato da certi palcoscenici bigotti o che abbia in qualche modo ripulito il suo personaggio, perché parliamoci chiaramente: Ricky Gervais non è quello che dice. Il comico britannico in una recente intervista al quotidiano Indipendent difende i suoi jokes affermando che la maggior parte delle persone credono che tutte le battute siano “una finestra sull’anima del comico”, quando la verità è che si tratta proprio del contrario, dove la finestra si apre sulle ipocrisie di chi scruta attraverso, in silenzio. Ricky Gervais piace, fa ridere e per ora non ha nemmeno fatto troppo incazzare i movimenti femministi (a differenza del collega americano Louis C.K), quindi ok, Ricky è ok. Ma cerchiamo di capire come mai. Prima di tutto, è intelligente.L’intelligenza – se considerata come la capacità di osservare ed elaborare la realtà con lo scopo di interpretarla e infine comprenderla – dovrebbe essere la conditio sine qua non della professione del comico. Se non conosci la realtà, difficilmente potrai applicare ad essa una chiave di lettura che possa far ridere e al tempo stesso riflettere. Senza l’interpretazione resta solo l’osservazione, e a osservare siamo buoni tutti. Restando nella confort zone dell’intelligenza tuttavia il comico potrebbe perdere di credibilità; lo si accuserebbe di essere elitario, saccente, presuntuoso e le tre spregevoli caratteristiche sopra citate. Ricky Gervais è un po’ tutte queste cose messe insieme ma lo possiamo perdonare, perché se una cosa non l’abbiamo capita, allora lui ce la spiega, come farebbe un maestro, un saggio compassionevole della nostra ignoranza. Durante il suo ultimo stand-up show Humanity, per esempio, ci accompagna per gradi verso la precisa comprensione del suo umorismo, attraverso quella che potremmo definire l’anatomia di una battuta. È chiaro che sia anche una grandissima paraculata per difendersi dalle accuse di transfobia, eppure il gioco funziona. La battuta incriminata, che lui stesso definisce clever joke, prende di mira Caitlyn Jenner, una volta conosciuto come l’atleta olimpionico Bruce Jenner. Qua sotto, il video. Dunque, il terreno è scivoloso perché sappiamo bene quanto sia facile cadere nel qualunquismo e nella superficialità quando si parla di razzismo, femminismo, diritti LGBT e qualsiasi altra cosa che possa rappresentare un dibattito sociale, politico o religioso. Nel bar che frequentiamo (ops, non più) oppure a cena con gli amici (ops, nemmeno quello), noi comuni mortali possiamo esprimere liberamente la nostra opinione – ancora – e il maggior rischio è di finire in una discussione senza capo né coda oppure prendere un calcio in culo. Niente di che. Ma quando sei un personaggio pubblico il rischio è ben diverso. Dire una cazzata può significare liberare una catena infinita di cazzate, dette attraverso un megafono che, bene o male, rappresenta un canale per molti abbastanza credibile. Se io, Benedetta, ironizzo in maniera troglodita su di un transessuale male che vada faccio una pessima figura e passo da stronza. Se Ricky Gervais ironizza allo stesso modo si becca una querela, da una parte, ma anche un via libera alla mortificazione mediatica di una minoranza. E questo è il pericolo che puntualmente Ricky Gervais riesce ad aggirare. Come fa? Con un team strapagato di avvocati, immagino, ma soprattutto con una costruzione intelligente della battuta. Tornando alla storia di Caitlyn Jenner (dove il crimine era il deadnaming, ovvero il riferirsi a una persona transgender utilizzando il nome pre-transizione), Ricky Gervais giustifica la battuta spostando tutto il focus su quello che veramente è il target del suo scherzo: lo stereotipo, in quel caso il luogo comune che vuole che una donna al volante sia sicuramente un danno e che una celebrità, dopo aver commesso un crimine (Caytlin Jenner è stata accusata di omicidio colposo dopo aver innescato un tamponamento a catena che ha portato alla morte di una donna), possa tornare a casa e indossare tranquillamente un abito come se nulla fosse. In questo caso l’ironia sulla persona transgender è servita soltanto da trigger point per l’elaborazione di quello che si definisce un layered joke (una battuta a strati). Questo perfetto ingranaggio di stratificazioni, se fatto bene, garantisce così al comico una completa immunità dal rigore semantico. Ricky Gervais però non è soltanto un paraculo illuminato che si prende gioco dei nostri limiti cognitivi, sfidandoci a destrutturare l’infallibilità presunta dei più grandi dogmi umani. Ricky Gervais è uno di noi, meglio, ma pur sempre uno di noi. L’altro aspetto che lo rende così popolare infatti è probabilmente la sensibilità, intesa come pura e semplice capacità di comprendere e percepire certe emozioni e condizioni emotive. Non si direbbe certo, ma è la stessa persona che ha pronunciato queste esatte parole: “I can’t find someone funny whom I don’t like. Hitler told great jokes”.(Non riesco a trovare qualcuno divertente che non mi piace. Hitler ha raccontato grandi battute) Per giustificarlo però basta tornare al punto precedente, vedi alla voce stereotipo. Ricky Gervais, come dicevo, è uno come noi perché parla di vita e di morte, non ha paura di mostrare la sofferenza e non è nemmeno ancorato a quella che dovrebbe essere la sua immagine ufficiale, ovvero quella di comico senza scrupoli protetto dalla fama e dalla ricchezza. La prova di questa umanità terrena la dimostra nella serie After Life, ideata, scritta e diretta da lui stesso. La serie parla di un uomo che profondamente sconvolto dalla perdita della moglie, cerca in tutti i modi di allontanare i pensieri suicidi aggrappandosi come può alla vita. La trama potrebbe essere riciclata per uno sceneggiato Rai con protagonista Gianni Morandi – oppure Beppe Fiorello – e farebbe pietà in tutti i sensi (mi scuso con i fan di Gianni e Beppe). After Life invece fa ridere, non sbellicare, ma fa ridere. Il quesito che Netflix si è posto, prima di distribuire la serie, era se fosse il caso di generare comicità da un episodio tragico come il cancro o la morte. A questo risponde Gervais in un’altra recente dichiarazione dove afferma che la vita, quella vera, è anche peggio e per questo gli spettatori sono pronti a tutto. “Penso che interpretiamo troppo le persone. Ci preoccupiamo di ciò che le persone a casa possono sopportare. La vita reale è peggio. Possono accettare tutto questo”. La serie è ambientata in una fittizia cittadina inglese chiamata Tambury e il nome ci suggerisce subito uno scenario quasi circense, popolato da personaggi a dir poco strambi. Anche in questa dimensione pittoresca della realtà Ricky Gervais vuole utilizzare lo stesso meccanismo della stratificazione per proteggere le sue battute, come al solito i suoi target non sono le persone ma lo stereotipo che rappresentano. Il postino invadente, il collega inetto, la segretaria svampita, il boss separato e infine, per non esonerarsi dalla responsabilità, il suo personaggio Tony: il vedovo triste. Lo ripeto, questa non è una serie da pisciarsi addosso dalle risate, proprio perché l’intenzione non è l’iperbole ma bensì l’onestà. Chi ha vissuto in Inghilterra saprà che vicende semi grottesche come quelle raccontate nei vari episodi hanno molto più a che fare con la quotidianità che con la finzione, quindi non ci sarà da stupirsi dei vari picchi di stravaganza che ogni tanto, per fortuna, sbucano dal nulla. Tra i miei momenti preferiti posso annoverare una delle ultime scene della seconda stagione. In un contesto che distrae totalmente dalla trama strutturale il personaggio di Brian Gittins, l’accumulatore seriale del paese, si lascia andare a una riflessione alquanto profonda. Oltre a farmi molto ridere questa battuta mi ha anche aiutata a capire a fondo il significato del racconto Analogia Bucolica, pubblicato proprio da Streetbook Magazine (pubblicità) e scritto dall’amico Gianluca Bindi. Voglio riportare qua sotto un piccolo estratto affinché possa generare in voi lettori il desiderio di vedere questa serie, il desiderio di leggere il racconto oppure il desiderio di Brian, fate voi. L’importante è ridere, sempre. Share Tweet Share... Read more...QuaranThreevial N°5: Ucronia. Un articolo di C. Francioni7 Maggio 2020QuaranThreevial N°5: Ucronia di Chiara Francioni Ucronia di Coito Negato – Rassegna stampa, 4 aprile 2020. Finalmente il Presidente ha parlato. Si tratta di una decisione che risolleverà il paese afflitto dal perdurante stato di cattività forzata indotto dalla quarantena. Di seguito, un estratto del comunicato che ormai tutti conoscono: “… ed è per questo che abbiamo deciso di agire in modo decisivo, cosicché ogni cittadino possa ottenere il benessere che merita. Vi chiedo, nell’interesse di tutti, di impegnarvi nell’essere felici, ogni giorno, dentro le vostre case. E per aiutarvi in questa missione di importanza primaria, da oggi dichiaro socialmente e giuridicamente perseguibile la tristezza. Da oggi saremo tutti felici”. Finita la trasmissione a reti unificate, una coltre di silenzio ha intrappolato per alcuni minuti la popolazione intera. Poi sono esplose, incontenibili, le reazioni a caldo. Alcuni, non potendo scendere per strada a causa della quarantena, si sono affacciati alla finestra gridando di gioia, altri sono saliti sui tetti srotolando striscioni variopinti per mandare messaggi di gratitudine. Il paese da oggi non sarà più lo stesso: una nuova era è infine giunta. – Diario di quarantena, 5 aprile 2020. Mi sono svegliata presto stamani, spinta dall’emozione di vivere in un mondo nuovo. Ho tirato la tenda della finestra e il sole splendeva alto nel cielo. Esattamente come ieri, è vero, ma che importa. Da oggi tutto è più bello. Mi sono affacciata e la vivacità del quartiere ha confermato il mio buon umore. Sento risate che rimbombano tra i vicoli, musica schizzata fuori dalle finestre, in molti cantano all’unisono. Sorrido compiaciuta e riporto la testa dentro i confini del mio appartamento. Afferro lo smartphone abbandonato sul letto e faccio un giro sui social. Ammetto di essere curiosa, voglio saperne di più su questo neonato moto di euforia collettiva che peraltro ho bisogno di condividere con qualcuno. E la rete non mi delude: scorro bacheche, gallerie, profili. Tutti sono in estasi. Nel pomeriggio giungono nuove notizie. Si sono resi necessari dei provvedimenti attuativi per rendere illegali le manifestazioni di tristezza, come revisioni linguistiche (non sarà più consentito usare il sostantivo ‘tristezza’, l’aggettivo ‘triste’, il verso ‘rattristarsi’ e qualsiasi sinonimo dei suddetti) e nuove regole di condotta (per esempio, non è più ammesso piangere difronte ad altre persone, salvo che si tratti di lacrime di gioia, e in tal caso sarà necessario fornire apposita autocertificazione). Mi sembra giusto, dopotutto da oggi il mondo sarà un luogo più felice e non avremo più bisogno degli antichi retaggi di cui mi spoglio volentieri. Ovviamente ci sono delle sanzioni, ma dai, chi se ne frega. Felici come siamo adesso, attenerci ai nuovi dettami non sarà di certo un sacrificio. Non ho niente di particolare da fare oggi, così passo tutto il giorno a leggere e guardare film, perfettamente felice in un mondo felice. – Diario di quarantena, 10 aprile 2020. Devo uscire, c’è da fare la spesa. Non so da quanto tempo non prendo la macchina e, a pensarci bene, neanche ricordo dove l’ho parcheggiata. Mi vesto, tiro su il cappuccio per coprire il cesto di capelli ormai incolti – se fanno venti gradi, pace – indosso la mascherina e mi precipito giù per le scale. Sono fuori e mi scontro con qualcosa di molto simile a un’acerba agorafobia, ma alzando gli occhi al cielo incontro il sole e sto subito meglio. Il mondo è raggiante. Mi dirigo verso il luogo dove suppongo si trovi la macchina che, sorpresa, non c’è. Sento le vene che pulsano, ma non percepisco alcuna reazione di disappunto. Almeno ho fatto due passi. Mi sposto dunque verso la seconda opzione logistica. La macchina è lì. Visto!? Va tutto bene. Mi avvicino alla carrozzeria sporca e lo vedo: un foglio di carta appiccicato al parabrezza. Lo afferro: una contravvenzione per divieto di sosta. Merda. Mi ricordo di averci anche pensato quando ho parcheggiato l’auto, ma mi ero detta: mica mi faranno la multa durante la quarantena? La risposta giusta evidentemente era: certo che te la fanno. Le vene pulsano nuovamente, sento il buonumore che vacilla. Ma no, no, no. Da oggi non sono ammesse le emozioni torbide, da oggi siamo tutti felici. Io-sono-felice. Infilo la multa nello zaino e salgo a bordo. La strada per raggiungere il supermercato attraversa la campagna: i prati sono ormai in fiore, così come gli alberi. Tiro giù il finestrino e il tepore scivola liquido nell’abitacolo, avvolgendomi in un bozzolo di piacere che quasi stento a riconoscere come familiare. Dai campi giunge il canto delle rondini, dei passerotti, di tutto il cazzo di pantheon ornitologico che si è messo d’impegno, proprio adesso, a ricordarmi che fuori è bellissimo mentre io sono bloccata in casa. Cazzo che schifo di mondo… no, no, no. Io-sono-felice. Riprendo il controllo. La fila al supermercato è ovviamente chilometrica. La cosa però non mi dispiace, almeno potrò godermi il sole per un po’… con il cappuccio in testa e la mascherina che mi si appiccica alle guance. Inizio a sudare, ma non importa. Sono tutti sorridenti intorno a me, proprio tutti. “Vedi che non c’è da preoccuparsi”, mi ripeto. Ficco nuovamente la testa nel mondo social per mitigare l’attesa: vedo gente soddisfatta di fare flessioni in bagno, scorgo altri che prendono il sole in terrazza, altri ancora che leggono libri, che cucinano, che brindano al tempo libero ritrovato. Tutta questa gioia mi ubriaca e sento il bisogno di tornare a concentrarmi sulla fila per non andare in botta da entusiasmo. Già basto da sola a superare ogni dose consentita. Sono così felice… lasciamo perdere l’avventura nel supermercato, estenuante sì, ma ci voleva e ora mi sento una persona migliore, pronta a godermi la meritata ricompensa: una scorpacciata di stronzate che sognavo da almeno una settimana. Quindi, manco a dirlo, sono felice. Torno a casa e ad accogliermi trovo solo la penombra. Un flash: alberi in fiore, canto di uccelli, primavera. La primavera del cazzo che qui dentro sembra inesistente. La sento, che emerge dal profondo, quella sensazione a cui non posso dare un nome. Scuoto la testa e accendo la luce. Allo stesso tempo indosso un sorriso, mi scatto una foto con le borse della spesa e butto tutto in rete: < La vita continua >. Così ora tutti lo sanno: IO SONO FELICE. Passo il resto del giorno a rimettere a posto la casa e alla fine lo comunico agli amici nei vari gruppi WhatsApp: < Oggi giornata grandiosa, ho una casa che scintilla >. Mi rispondono con un sacco di smile o roba simile. Qualcuno mi manda fotografie della propria tavola imbandita. Insomma, il giorno è passato nella concitazione generale e vado a letto distesa. – Diario di quarantena, 14 aprile 2020. Stamani mi sono svegliata in preda all’agitazione: è tutta colpa di quel sogno pazzesco che ho fatto. “Era solo un incubo”, ripeto più volte. La realtà invece mi attende con le sue gradazioni di entusiasmo che ormai riesco a percepire come se fossero filtri di Instagram. Oggi lavoro. La giornata, quindi, vola via veloce. Condivido una foto di me in modalità smart working e scrivo anche che sono più produttiva di prima. Più tardi mi cimenterò con le flessioni in soggiorno e farò sapere a tutti di aver fatto il mio dovere. Sono felice. Felice. FELICE. Dopo cena faccio una videochiamata col gruppo di amici e quando mi chiedono come va dico loro la verità: “Va benone!”. E tutti sono dello stesso avviso. O almeno, quasi tutti. Gino ci racconta che l’hanno messo in cassa integrazione e che forse l’azienda per cui lavora non supererà questo periodo di stop. Mi trovo in difficoltà, non so bene cosa dirgli. Per fortuna interviene Emma con parole sagge: “Dai, vedrai che andrà tutto bene”. Passiamo quindi a raccontarci di quanto sia semplice convertire la vita in una versione casalinga della stessa. Gino però se ne resta in silenzio per tutto il tempo e ho paura per lui: se dovesse cedere alla disperazione, potrebbero fargli il culo. Poi gli amici se ne vanno e per un po’ resta nell’aria il brio delle stronzate che abbiamo sparato. Quando finisce, qualcosa di simile al lontano ricordo della solitudine fa capolino. La sento emergere, da prima timida, poi più insistente, dal torbido nugolo di emozioni che non posso… che non voglio più provare. Resisto, mi stappo una bottiglia di vino e vado a letto confusa e felice, per citare una nota cantautrice sicula. – Diario di quarantena, 19 aprile 2020. Stamani non mi va di alzarmi. Accendo la TV dal letto. Un tizio in giacca sta dicendo che la non-felicità – nessuno usa più un sostantivo specifico – non esiste, che è solo illusione dei nostri intelletti traumatizzati da non capisco bene cosa. Viene quindi trasmessa una carrellata di immagini traballanti che ritraggono uomini e donne al supermercato, in strada, affacciati alle finestre delle loro abitazioni. Hanno tutti il volto oscurato, ma è evidente che sono in lacrime. Il commentatore parla di un numero crescente di sanzioni per casi di non-felicità manifesta del tutto ingiustificati. La conduttrice del programma, che non so identificare – non guardo mai la TV –, chiosa che dobbiamo resistere ed essere fiduciosi, perché tutto andrà bene. Lo stanno ripetendo in molti ultimamente, come una sorta di mantra, ma nessuno ci ha ancora spiegato come ciò sia possibile. Mi rigiro nel letto e penso che forse quelle persone del video avrebbero dovuto sforzarsi di sembrare felici, pur non essendolo. Così nessuno le avrebbe sanzionate. Mi riaddormento con una nota acida tra le labbra. – Diario di quarantena, 21 aprile 2020. Adesso non si sente più nessuno cantare per strada. Non ci sono più striscioni appesi ai palazzi, ma tutti continuano a dire che sono felici e postano quelle cazzo di foto piene di sorrisi fasulli. Non sono più convinta che sia sufficiente imporre alle persone di essere felici, affinché esse lo siano davvero. Ma non ci è consentito fare altro, d’altronde. Possiamo solo dire di essere felici. Sento le urla dei vicini che litigano. Se qualcun altro li sentisse, potrebbe avvisare le guardie e sai che casino. Del resto l’hanno detto anche alla radio: la maggior parte delle segnalazioni di tristezza manifesta arrivano proprio dai vicini di casa. La gente si è ormai convinta che la non-felicità altrui sia pericolosa perché può incrinare anche la felicità di chi si attiene alle regole e ora, con il virus che imperversa, non ce lo possiamo permettere. Penso che non me ne frega un cazzo e poi penso a Gino. Dopo lo chiamerò e gli dirò di non ascoltare Emma: magari andrà tutto bene per davvero, ma se adesso ‘sta una merda, vorrei che si sentisse libero di dirmelo. Non farò la spia. Forse non la farebbe nemmeno Emma, la spia. Mi ricordo, improvvisamente, che prima di tutta questa storia aveva detto di non essere più convinta di restare insieme a Giulio, il suo ragazzo. Lui le aveva messo le mani addosso e lei ci aveva chiesto di non raccontarlo a nessuno. Ora sono bloccati in casa insieme, eppure non ci ha più riparlato di lui. Rifletto un po’, forse Emma lo ha detto a Gino, ma parlava a se stessa, affermando che tutto sarebbe andato bene. Mi affaccio alla finestra di camera. Una leggera brezza trasporta il profumo di prati lontani, mentre il fischio di una rondine che rientra al nido mi rende nostalgica. Ripenso, in particolare, a un giorno di primavera di oltre vent’anni fa: indossavo una maglietta a maniche corte e un paio di pantaloni leggeri. Ero seduta nel giardino dei miei nonni insieme a un paio di amici. “Quando sarò grande sarò di certo più felice di ora” dicevo loro. “Sì, perché sarò libera di fare quello che voglio”. Nel mio ricordo poi, ci sono io che mi alzo, invito gli altri a seguirmi e, senza un motivo preciso, iniziamo a correre a piedi nudi sull’erba fresca, con le braccia nude spalancate come a voler abbracciare la pienezza della natura intorno a noi. Sospiro mentre guardo le mie mani da adulta che penzolano dal davanzale. La realtà è molto diversa da come la immaginavo a dieci anni: oggi non sono affatto libera di fare quel che mi va. Per esempio non sono libera di correre a piedi nudi in mezzo a un prato solo perché ne ho voglia. Realizzo che non è colpa della quarantena, dopotutto. Anche se tutta questa storia del covid-19 non fosse balzata fuori e mi trovassi ancora intrappolata in quella routine che chiamavo normalità, non sarei comunque stata libera di fare quella corsa. Di certo mi sarei convinta di non averne il tempo, perché non l’avrei reputata una cosa importante, perché ci sarebbero state altre ragioni che mi avrebbero spinta a correre, ragioni diverse dalla semplice voglia di farlo. La desidero ancora quella normalità? Gli occhi mi bruciano, la gola si secca, ma vado avanti con il filo dei pensieri. Ho deciso che oggi sarò sincera, libera in qualche modo. Lo dico a voce alta e non mi importa se sono affacciata alla finestra. Non mi importa se ci sarà chi farà la spia. Lo dico e basta: oggi non sono non-felice. Oggi sono TRISTE. Sono triste perché Gino è in cassa integrazione, sono triste perché Emma non riesce a lasciare Giulio, sono triste perché ci vogliono sempre felici e perfetti e invece siamo imperfezione allo stato puro. Sono triste perché la società è tutta sbagliata e la vostra stupida retorica mi ha rotto i coglioni. Poi le lacrime arrivano e piango, piango per non so quanto tempo. Piango fino a che non divento, forse, davvero serena. – Diario di quarantena, 4 maggio 2020. Abbiamo riguadagnato un po’ di libertà. Oggi posso allontanarmi da casa e passeggiare. Piove, ma chi se ne importa. Non mi importa neanche dei capelli fuori controllo. Esco di casa e so già dove andare. Raggiungo la campagna che avevo attraversato in macchina per recarmi al supermercato. Abbandono l’asfalto con un passo solenne, mi siedo sull’erba umida, tolgo le scarpe, i calzini e spalanco le braccia. Corro. Share Tweet Share... Read more...Boxe contro l’assedio, un’intervista di N. D’Innocenti e A. Rumé || Threevial Pursuit6 Maggio 2020Boxe contro l’assedio Intervista di Niccolò D’Innocenti e Andrea Rumé Il pugilato non è mai stato uno sport qualsiasi. Forse per questo, sin dall’antichità, la boxe si è guadagnata l’appellattivo di “nobile arte”. Ci sono però dei ragazzi che hanno preso questo concetto è lo hanno coniugato con un altro tipo di nobiltà: quella dell’animo. E lo hanno fatto per aiutare i ragazzi e le ragazze di un popolo vessato da decenni di soprusi, quello palestinese, a mantenere la propria dignità identitaria e accrescere la propria autostima grazie alla boxe. Sono loro stessi a raccontarci del loro progetto, che non a caso si chiama Boxe contro l’assedio. Lo hanno fatto rispondendo alle domande del nostro Niccolò D’Innocenti e di un nostro vecchio amico che conosce bene la realtà palestinese, ovvero Andrea Rumè. Buona lettura! Com’è nato il progetto? Boxe contro l’assedio è un progetto che unisce la Palestra Popolare di Palermo, le palestre Valerio Verbano e Quarticciolo di Roma e l’impegno dell’Ong Ciss in Palestina e che vuole usare il pugilato come strumento di riscatto sociale, di libertà e di benessere per i giovani palestinesi.È nato dal basso, dalle aspirazioni di ragazzi e ragazze di Gaza che vedono nel ring un sogno di riscatto. È cresciuto con l’incontro di atleti e atlete dall’Italia che giornalmente lavorano per la riappropriazione degli spazi, per l’autodeterminazione e la giustizia sociale nei propri quartieri, nelle proprie borgate e oltre, scavalcando barriere, confini e chiusure. Lo abbiamo sviluppato grazie a una azione collettiva che, partendo dalle capacità, competenze ed esperienze di ognuno/a, mira a raggiungere un obiettivo comune. Boxe contro l’assedio esiste grazie a tutti e tutte coloro che ci credono e che mettono a disposizione il proprio entusiasmo. Quando è iniziato e, ad oggi, dov’è arrivato Boxe contro l’assedio? Abbiamo iniziato con questo progetto nel 2018 lavorando a stretto contatto con la Federazione di Boxe Palestinese. Da allora abbiamo raggiunto tanti risultati: un pugile professionista per la prima volta dall’assedio ha incontrato gli atleti di Gaza; gli allenatori italiani e palestinesi hanno scambiato esperienze e tecniche di allenamento; atleti delle due sponde del Mediterraneo si sono “affrontati” e abbiamo attivato dei corsi specifici per bambine e ragazze. Ad oggi sono state realizzate tre missioni nella Striscia di Gaza. Dalla sua nascita, Boxe contro l’assedio ha permesso a decine atleti e atlete di sentirsi meno soli all’interno di quella prigione a cielo aperto che è Gaza. La collaborazione tra Ciss Ong e Palestra Popolare Valerio Verbano, Palestra Popolare Quarticciolo e Palestra popolare Palermo ha portato nuove competenze ai pugili e agli allenatori che da decenni vivono l’assedio. Ma adesso vogliamo dare alla nostra sfida un obiettivo più grande, un impatto adeguato all’entusiasmo e alla tenacia di tutti gli sportivi che continuano ad aggrapparsi al pugilato come strumento di libertà e di miglioramento del proprio benessere psicofisico. Cosa può dare in più alla popolazione Gazawi la boxe e lo sport in generale? La popolazione non ha alcuna libertà di movimento. Isolati in un pezzo di terra, gli atleti non hanno la possibilità di migliorarsi, non potendo uscire fuori dalla Striscia per battersi su altri ring e confrontarsi con altri atleti. Per tutti loro praticare questo sport significa mantenere alta l’identità palestinese e per le donne è anche combattere gli stereotipi e la violenza di genere.Il pugilato, infatti, è in grado di infondere coraggio ai più piccoli, di rafforzare l’autostima, avere coscienza di sé e del proprio corpo e contribuisce a combattere le paure. Per questo, ci siamo attivati per supportare tutte le ragazze e i ragazzi che con grande ostinazione desiderano praticare la boxe. Vogliamo donare a tutti loro delle attrezzature professionali, una palestra dignitosa, un ring vero, degli allenatori professionisti e soprattutto un sogno. Cosa possiamo fare tutti noi per il progetto? Per noi è importantissimo condividere il più possibile la nostra esperienza per raccontare al resto del mondo che Gaza non è solamente una zona di guerra. Gaza è vita, per questo vi chiediamo di supportare il progetto tramite il crowfounding lanciato sulla piattaforma Produzioni Dal Basso. (Se volete approfondire e contribuire alla campagna “Boxe contro l’assedio” potete cliccare qui, NdR) Quali sono le maggiori difficoltà che avete incontrato? La problematica principale di Gaza e in tutta la Palestina è senza ombra di dubbio lo stato di assedio da parte di Israele. L’isolamento comporta una serie di limitazioni della libertà della popolazione e, di conseguenza, grandi difficoltà nella gestione della vita quotidiana e delle attività sportive nello specifico.Racchiusa in 360 km², vittima del blocco navale, terrestre e aereo la Striscia è il carcere a cielo aperto più grande del mondo. In questo contesto fare sport diventa più difficile per i ragazzi e le ragazze di Gaza. L’ingresso e l’uscita dalla striscia sono approvati solamente tramite la richiesta di permessi che, nella maggior parte dei casi, vengono rifiutati. L’impossibilità di avere contatti con realtà diverse limitano la crescita sportiva degli atleti e quella professionale per i tecnici. Tutta questa situazione è aggravata dalla mancanza di attrezzature sportive adeguate e dalla precarietà delle strutture. Boxe contro l’assedio dove vuole arrivare? Abbiamo deciso di porci degli obiettivi raggiungibili a medio termine. Il primo di questi è quello di creare una palestra popolare con un vero ring a disposizione di tutti i pugili di Gaza, creare un team di tecnici professionisti e fornire attrezzature professionali che possano garantire la sicurezza delle atlete e degli atleti. Share Tweet Share... Read more...QuaranThreevial N°4: Lavoro Republik. Un articolo di R. Dell’Ali e A. Stirner1 Maggio 2020QuaranThreevial N°4: Lavoro Republik di Roberta Dell’Ali e Andreas Stirner Lavoro Republik di Brucio Mi hanno assunta all’Ufficio segnalazioni per il disagio professionale del lavoro, presso l’agenzia Exploit Worker, il 26 febbraio 2020. Prima lavoravo con un cazzo di contratto part-time a tempo determinato in una multinazionale del commercio a dettaglio di… boh sinceramente nemmeno io so cosa vendevo di preciso, però ne vendevamo un sacco. Si potrebbe dire che ho avuto fortuna a trovare questo nuovo lavoro, altrimenti sarei rimasta col culo scoperto come tutti i miei amici, anch’essi ex part-time a tempo determinato: segati appena possibile. Vi dirò, in un primo momento avevo accolto con entusiasmo questa opportunità. L’idea di poter aiutare i lavoratori e rimanere nel mio campo, HR Specialist, mi sembrava assurdamente bella. ‘Che botta di culo!’ ho pensato lì per lì: ecco, forse troppo? Eh sì, perché si sa che dietro grandi botte di culo si nascondono sempre grandi inculate. Innanzitutto c’è il sedicente direttore, nonché unico “professionista” dell’Exploit Work, Dott. Bagoni: ometto sulla trentacinquina o forse sulla cinquantina – difficile dirlo – dall’aspetto untuoso, flaccido e con una stempiatura che sembra aumentare di secondo in secondo. La prima volta che mi sono recata presso la suddetta agenzia per il lavoro, pensavo fosse una delle molte agenzie sparse per l’Italia che aiutano moltissimi disoccupati a trovare una professione dignitosa. In realtà, il nome mi aveva creato qualche sospetto e la paga segnalata nell’annuncio appariva a dir poco risicata con contratto di sei mesi part-time (‘natravot) con possibilità di rinnovo, ma sticazzi con i tempi che corrono c’era poco da fare la schizzinosa: meglio di niente. Il giorno del colloquio Bagoni mi ha accolto, inondandomi di parole sconclusionate sulle mie straordinarie competenze e sul fatto che la sua agenzia rappresentava – credo queste siano state le sue parole – il futuro del mondo del lavoro: «Noi qui troviamo soluzioni, miglioriamo la vita della povera gente!»Ho accettato il lavoro, insomma. Poi, è partito il lockdown per il Covid-19 – tipo una settimana dopo aver cominciato a lavorare per l’Exploit Worker – e ho scoperto che il concetto di smart working è, per Bagoni, sconosciuto, anzi inesistente: «Ma non capisce, mia splendida signorina, che ci sono un sacco di disgraziati in giro che non ci capiscono un’acca dei decreti che il Governo sta approvando? Questi poveri cristi cercano le soluzioni che quel branco di incapaci dei politici non sanno spiegare con parole semplici, parole per il popolo e noi siamo qui per dare a quei disgraziati – e ci tengo a sottolineare disgraziati – le soluzioni». «E quali sarebbero queste soluzioni?» «Non si preoccupi, mia piccola stella, le troveremo. O meglio, lei le troverà. È qui per questo, no?» «E ci facciamo pagare da questi, come dice lei, disgraziati?» «Ma certo che no, mia cara. Quelli non c’hanno manco un euro bucato. Sono le aziende a cui forniamo manodopera che ci pagano. Tranquilla, tutta gente seria, gente perbene, imprenditori illuminati che porteranno il Paese nel Terzo Millennio». «Ma siamo già nel Terzo Millennio…» «Sì sì, vabbè. Senta vista la pandemia le propongo 300 euro, così come anticipo. Son tempi duri. Poi glieli detraggo dalla prima busta paga. Almeno si compra qualcosa di carino, non accetto la sciatteria nel mio ufficio… vestita così sembra ‘na monaca». Ho pensato: ‘Dagli un calcio nelle palle e scappa’. Ma alla fine ho preso quei cazzo di 300 euro e da due mesi mi ritrovo per almeno dieci ore al giorno in una stanzetta angusta, coi muri sporchi e delle infinite pile di pratiche sulle scrivanie scrostate. Pratiche destinate al nulla, perché soluzioni per quei disgraziati che ci contattano non ce ne sono, tanto che questa supercazzola di Ufficio segnalazioni per il disagio professionale a lavoro nella mia testa si chiama Ufficio sfoghi per i dimenticati dal lavoro. Sfoghi che peraltro si becca unicamente la sottoscritta, perché il buon Dott. Bagoni, mio titolare, passa il 99% del suo tempo a ingozzarsi di caffè e bomboloni alla crema (dove diavolo li trovi tutti quei bomboloni poi, non lo so), mentre fuma un puzzolente sigaro di terza scelta e se ne sta con i piedi allungati sulla scrivania a leggere la Gazzetta dello Sport, che chissà che cazzo ci scriveranno visto che è tutto fermo, demonio cane! Stamattina una delle prime mail che ho letto era di un tale Cristiano: trentotto anni, proprietario di un piccolo pub in centro a Prato, incazzato nero. Da: cristianohookpub@freemail.com A: exploitworker@appenditimail.com Gio 30/04/2020 09.50 Buongiorno (‘na sega), ora voi vu mi dovete scusare, sarò tordo io, ma io d’icché gl’ha detto Conte un c’ho capio nulla. Ma si riapre o un si riapre. E se si riapre, icché si riapre a fare. E se un riapro, icchè vi scrivo a fare. Potrei riaprire e fare l’asporto, ma c’è un monte di beghe a fare l’asporto. E io un lo posso fare, dice. Aspetterò Giugno, ma fino a Giugno icché fo e arrivao a Giugno e l’è uguale. Dice «basta e ti stiano a due metri di distanza». Occome fo a dagli le birre alla gente a du’ metri di distanza? O chi so’ io, l’ispettore Gaget, maremma impestata lurida e ladra. E poi metti che trovo i’ modo di tenelli a distanza, e mi deano entrare uno alla vorta, perché i’ pubbe e saranno 40 metri quadrai. E siamo piccini noi. Occome si fa noi piccini. No via, spiegaemelo. Ma poi co’ ‘sta storia delle precauzioni. Ora io ho seguito un po’ la questione. Le mascherine, le mascherine, le mascherine… ma se c’hanno le mascherine, mi spiegae come cazzo fanno a bere la birra, maremma cane. Icché fanno e clienti. Lea la mascherina, metti la mascherina, lea la mascherina metti la mascherina…e poi i’ problema unn’ è la gocciolina di saliva? Occome fanno a bere senza lascia’ le goccioline su i’ bicchiere, che la lancian pell’aria e la pigliano a i’ volo? Mentre si leano la mascherina e se la rimettan subito davanti alla bocca per giunta. O icché sono Carate Chidde. Ma vaiavaiavaia, a me vu mi sembrae tutti grulli. E intanto noi si more, dio….oh, abbiae pazienza e ho visto ora che ho lasciao i tinnove impostao su «pratese», maremma impestata. E ora un mi rimetto a riscrive’ tutto da punto accapo. Se v’avee capio bene e se un vunn’avee capio so’ cazzi vostri, tanto da’ retta e son più piccini di quelli che c’ho io ne i’ culo.Distinti saluti, merde. «Dott. Bagoni, io non so se ha letto la mail di Cristiano dell’Hook Pub, però…» «Cestini, cestini signorina. Non gli dia retta a quello, tanto è già in ritardo con i pagamenti di due giorni e poi mi crea più casini che altro. Ma lo sa che mi paga le cameriere che gli mando al minimo sindacale?» «Beh, in effetti con lavoro notturno e tutto il resto sette euro e cinquanta sono un po’ pochi…» «POCHI?!?! Ma si rende conto che quello mi rovina la reputazione a farmi fare dei contratti regolari? Io gli mando gente disposta a prendere cinque euro l’ora e quello me la sovrastima, vuole pagare gli straordinari, i domenicali, ferie e malattie, niente nero. Ma voglio dire, siamo pazzi… sa quanti altri pub onesti ho sul piede di guerra perché gli arrivano persone che vogliono tutti i privilegi che promette quel coglione. Quella è concorrenza sleale, glielo dico io, non si faccia abbindolare signorina. Lei è troppo ingenua». Proprio mentre commentavamo la situazione di Cristiano, a mio avviso una brava persona comprensibilmente incazzata e sconfortata, ha squillato il telefono. Quand’è il telefono, io m’aspetto sempre il peggio: di nascosto mi preparo i fazzoletti, perché come minimo mi si spezzerà il cuore a sentire le storie dei chiamanti, e prendo la fiaschetta dalla borsa. A fine conversazione un goccino per riprendersi bisogna farselo, almeno questo negli due ultimi mesi l’ho capito. Convincere Bagoni che io beva una roba per la cellulite fatta con l’anice è stato facile: che coglione. Io: «Pronto, Ufficio sf… segnalazioni per il disagio professionale del lavoro, come posso aiutarla?» Abdul: «Sono Abdul…» Io (sottovoce): «Dott. Bagoni, c’è Abdul». Bagoni: «Quale Abdul? Per me son tutti uguali, ne avremo trecento di Abdul». Io: «Credo sia quello che abbiamo mandato a Taurianova per la Cirutti». Bagoni: «Ah sì sì, me lo metta in viva voce. Mi fanno morire ‘sti migranti». Abdul: «Ehi ehi, io aspettare da du ore, volete rispondere». Bagoni: «Abdul, vecchio mio, come te la passi in Calabria? Sole, mare… ve la spassate, eh». Abdul: «Sole, mare un cazzo, vecchio stronzo!» Bagoni: «Eh, però così non sei carino Abdul. Io ti ospito nel mio paese, ti dò pure lavoro e tu mi tratti così…» Abdul: «Tu chiama questo lavoro?! Noi essere qui scentoscinquanta, duscento persone. No luce, no acqua e qui con virus tutti hano paura. Noi stare in sei, sette in tenda, tutte tenda sei-sette persone. Come fare stare distanza? Come lavare mani pe’ no contagiare altri? Come sa-ni-fi-care dice io?» Bagoni: «Ahahahahah!» Abdul: «Ma che fa tu?! Che tu ride…» Bagoni: «Ma Abdul da quant’è che sei in Italia che parli ancora così l’italiano? Non cambiare però, mi fate morire voi africani che parlate italiano». Abdul: «Ehi cazzone, io parlare arabo, inglese, francese e no inizia con lingue africane sennò non finire più io. Stare da sei mesi Italia e parlare italiano, quasi melio di te. Io ha laurea in Architettura in mio Paese, che tuo paese non riconosce. E tu? Tu ha laurea? Io no crede. E io raccolie pomodori per gente come te, perché tuo paese no riconosce me, no riconosce marocchini, no riconosce bulgari, no riconosce…» Bagoni: «Se se, vabbè Abdul, non c’ho tempo per le lezioni di geografia. C’ho da fare io». Io (sottovoce): «Sì, a strafogarsi di bomboloni…» Bagoni: «Che ha detto signorina?» Io (togliendo il vivavoce): «Niente, niente. Che mi occupo io di Abdul». Abdul: «Tuo capo essere uno stronzo. Perché tu lavora per lui?» Io: «Non lo so, Abdul. È complicato. Comunque, mi spiace per la tua situazione, come posso aiutarti?» Abdul: «Tu gentile. Volio avere notizie, qui arrivare poco o niente di quello che governo decide. Qui sono tanti irregolari. Perché loro non regolarizzare tutti noi, così noi più protetti e voi sapere se alcuni di noi malati o no per contenere virus? Se qui diffonde Covid, è fine, capisci. Se uno ha febbre e noi non sapere se malato o no, come fare? Tutti vicini e parlare con tanti padroni italiani. Loro poi potere portare a casa da familia. Nessuno avere mascherine, nessuno potere lavare. Ho detto prima. No acqua qui». Io: «Perché non avete acqua?» Abdul: «Polizia arrivata du giorni fa, staccato tutto. Noi arranjiare co taniche». Io: «Ma non c’è nessuno che vi aiuta?» Abdul: «Sì, qualche ragazzo associazione venire, credo associazioni si chiama Mediterranean Hope. Ma loro dovere dare mano a tutti qui in Piana a Joia Tauro. Milleduscento brascianti pagati poco, a volte no pagati. Ma no è quello problema, qui problema ora è virus. Troppa gente che bisogna aiuto, ragazzi associazioni aiutare tutti se possono: noi immigrati, italiani che no potere fare spesa, tipi anziani, o jente troppo povera. Loro aiutare tutti, ma noi essere troppi…» Io: «Mi spiace Abdul. Adesso compilo il modulo e avvio la pratica, ma io non posso aiutarti più di così. Nessuno parla di voi e dei vostri diritti. Non gli interessava prima, figurati ora. Ma non ti abbattere! Allora, iniziamo: dammi le tue generalità». La conversazione è durata un pezzo, non tanto perché servisse a qualcosa ma perché almeno Abdul potesse sfogarsi e aggrapparsi alla speranza di un foglio di carta. Come sempre, ho compilato il modulo: Abdul Houssai, 30 anni, maschio, sudanese, lavoratore filiera alimentare – sfruttato, ma questo l’ho aggiunto io. Il problema è che ieri non solo Abdul ma anche Mohamed e Wissam ci hanno chiamato; l’altro ieri Asad; nell’ultima settimana non so quanti Bomani e Kofi e Malik e Tebogo. E chiunque altro, da qualsiasi settore e di qualsiasi nazionalità: ambulanti, commesse, ristoratori, baristi, parrucchieri, estetiste, proprietari di lidi, di discoteche e così via fino all’isola che non c’è, poi a destra e dritto fino a sto cazzo. Insomma, oggi una giornata di merda, ma non meno di ieri. Tanto il copione è sempre lo stesso: Bagoni merda viscido becero, chiamate disperate, mail incazzate e io arresa a ‘sto schifo per 750 euro scarsi. Minchia, per fortuna è finita st’angoscia e mo’ torno a casa, m’alcolizzo e non ci penso più! Così penso, ma no, no, no, no. No, no. Mentre apro la porta di casa e faccio per entrare, infatti, vedo arrivare Iryna che a stento riesce a trattenere le lacrime: «Alberta, tesoro, sciao» «Iryna! Bella mia, come stai? Che succede?» e la abbraccio. Lei ovviamente inizia a piangere. «No no, piano Iri’. Daje, entra. Ti preparò uno spritz e mi racconti». «Sì sì» e singhiozza. «E allora? Che succede? Non mi dire che è successo di nuovo!» «Magari fosse solo quello Albe’! Questo Covid è disgrazia assoluta!» La guardo lì, seduta al tavolo della mia cucina che sorseggia lo spritz e un po’ singhiozza. In faccia non ha nemmeno un filo di trucco e la sua pelle appare per quello che è, un cencio ruvido trattato malissimo. Gli occhi di Iryna però sono sempre assurdi, verde smeraldo con profonde striature grigie: da gatto. I capelli secchi, biondo platino, sono tutti arruffati in una cipolla. Col suo italiano dalla cadenza ucraino-romana mi appare disperatissima. Effettivamente lo è: «Sigh! Albe’ ma te rendi conto? Ma come devo fa’ io? Lavoravo co’ vecchia. Ti ricordi signora Maria? Quella che mi lanciava oggetti e mi diceva: ‘Stronza polacca puliscimi culo?’ – che poi io cercava sempre di dire che sono ucraina, ma per quella vecchiacchia non cambia. Ecco, figlio ormai non si fida a farmi stare là e allora mi hanno licenziata e buttato fuori casa! Ma come faccio io adesso? Sono tornata per strada. Ho chiesto a mia amica Olga di ospitarmi in suo appartamento, ma anche lei è disperata. Non possiamo neanche tornare a casa, non ci fanno passare!» «Ma quello stronzo non ti ha dato manco i soldi che ti spettavano?» chiedo questa cosa banale, conoscendo la risposta e solo per prendere tempo, perché le cose che mi dice Iryna vanno digerite. «No! Disce che sua azienda è in difficoltà non ha soldi e io non avevo contratto e ora non posso fare niente! Olga mi ha procurato un paio di lavoretti, ma co’ Covid è pericoloso più di prima. Sigh sigh». «Ma che lavoro t’ha procurato Olga?» «In pratica Olga fa puttana all’Eur da tanto tempo – parla italiano benissimo lei. Prima aveva pappone, ormai Dio l’ha aiutata e ha trovato due trans e lavorano come piccola compagnia. Però ora con Coronavirus è merda. Non può lavorare sempre perché rischia che la arrestano anche per la storia della quarantena, sai? Ma come si fa? Lei non può chiedere niente, è senza soldi e sci’ha i fiji!» «Aspe’ Iry’… Macché? Te sei messa di nuovo a fa’ la prostituta?» Iryna, un po’ rossa e un po’ offesa: «Ecchè dovevo fa’?» Io non so che rispondere e la guardo, Iryna scoppia di nuovo a piangere: «Alberta! Alberta! Ma te pare?! Io facevo la badante, me prendevo du’ insulti da vecchiacchia e poi? E poi ero felice! Potevo mandare soldi in Ucraina e comprare qualcosa a me! Ma vita è sempre una merda! Come dicono qui a Roma: mai una gioia! E ora che potevo fare Alberta? Io vivo da Olga. Lei ha anche scritto mail a tuo ufficio sai? Per chiedere se ci era modo per avere aiuto! Tu non hai visto mail?» Sì, l’ho vista la mail. Ma Bagoni merda viscido becero l’ha cestinata dicendo: «E che ci possiamo fare noi? Al massimo a fine quarantena, se Olga è sana, posso passare e farmi fare un lavoretto. Mica c’ho la bacchetta io». Iryna continua: «Comunque poi per fortuna abbiamo trovato alcune associazioni che aiutano… senti, senti come ci chiamano… gli operatori sessuali! Io e Olga abbiamo fatto tante risate. ‘Operatori sessuali’, sembrava un lavoro come lo dicevano. Un po’ è stato bello. Almeno adesso possiamo fare un servizio a settimana, uno io e uno Olga – con clienti fissi che non ci dobbiamo spaventare – e un po’ tiriamo avanti. Solo che io… io voglio una vita meglio, solo poco, lo giuro». Mentre vuoto il bicchiere dico a Iryna che ha ragione da vendere, ma con la ragione in questo porco mondo ce ne si fa niente. Dopo un po’ Iryna mi dice che deve andare, così la accompagno alla porta. Ci abbracciamo ma, prima di uscire, Iryna mi guarda furba e dice: «Ah, ho dimenticato di dirti cosa. Prima di andarmene via da casa di vecchiacchia ho lasciato mia merda in vaso di salotto» ride forte e se ne va. E in quel momento, io decido che basta, domani mi licenzio e a Bagoni lo mando dritto dritto a fare in culo, ma non senza un calcio nelle palle. Un calcio bello forte. Share Tweet Share... Read more...Solanin: la ricerca dell’ikigai. Un articolo di C. Francioni || Threevial Pursuit29 Aprile 2020Solanin La ricerca dell’ikigai di Chiara Francioni Solanin di Inio Asano Il passaggio all’età adulta per me non è stato facile. Le incertezze dovute al percorso professionale intrapreso sono state tante e il senso di smarrimento, portato dietro a mo’ di zavorra, mi ha fatto spesso dubitare delle scelte fatte e delle mie effettive capacità, costringendomi spesso a chiedermi, senza saper trovare facili risposte, quale fosse il piano che l’universo, o chi per lui, aveva in serbo per me. Così, quando ho iniziato a sfogliare le pagine di Solanin, il capolavoro di Inio Asano (ma ci arriviamo dopo), ho subito capito che mi sarei trovata bene tra quelle tavole ricche di dettagli e pensieri. Sì, perché Solanin è un manga e, quindi, un fumetto. Ma non aspettatevi una serie interminabile di volumi con uscita mensile, perché in questo caso i tankōbon sono solo due e hanno il pregio di narrare una storia meravigliosa sul passaggio all’età adulta in una metropoli esigente come lo è Tokyo. Una piccola premessa. L’impostazione socio-culturale nipponica regala al “lavoro”, inteso come strumento, un ruolo di primaria importanza nella vita di un individuo e non solo perché esso costituisce la fonte del suo reddito, ma in quanto si pone come vero e proprio dovere sociale: il buon cittadino lavora, prima che per se stesso, per la collettività. Ne consegue che la scelta della carriera professionale da intraprendere acquisisce un valore esistenziale di enorme portata, se possibile ancora più simbolico di quello che gli viene attribuito dal modello italiano della Repubblica fondata sul lavoro. – ATTENZIONE: CONTIENE SPOILER! – Meiko Inoue, protagonista di Solanin “Non so cosa fare e sto accumulando tanto veleno” La protagonista della nostra storia è Meiko, una giovane donna intenta a decifrare se stessa. Arrivata a Tokyo per frequentare l’università col cuore carico di speranze, si ritrova, dopo la laurea, alle prese con un lavoro impiegatizio dal quale non riesce a trarre le auspicate soddisfazioni e che la sfianca (gli impieghi nel terziario, in Giappone, hanno ritmi molto intensi, non a caso esiste, e ha un nome preciso, il fenomeno della c.d. “morte per troppo lavoro” ossia il Karoshi). Pur interrogandosi sull’eventualità che, da qualche parte là fuori, esistano altre strade da percorrere, Meiko, passiva per inclinazione, continua ad assecondare le regole sociali che la vogliono impiegata per il bene della comunità, tollerando la realtà aziendale e imperversando nella totale incapacità di comprendere quali siano le proprie aspirazioni. Senza troppo riflettere sulle conseguenze del suo gesto, un giorno, ormai esausta, Meiko decide di presentare le dimissioni nella speranza di potersi finalmente rimettere in gioco. Il sollievo iniziale, tuttavia, viene ben presto a scontrarsi con la realizzazione che “una libertà senza scopo è piuttosto noiosa”. Così, a una crisi se ne sostituisce un’altra: lo smarrimento, la ricerca di una nuova prospettiva senza una bussola e, infine, il temporeggiare nell’attesa che la verità si riveli in tutto il suo splendore. “Da quant’è che cammino? Sento come se fossero anni che ho perso la strada” Accanto a Meiko c’è Taneda, il fidanzato storico. I due ragazzi, sinceramente innamorati, hanno frequentato la stessa università, condividono lo stesso gruppo di amici e la stessa abitazione. Taneda suona la chitarra e conserva ancora il sogno giovanile di sfondare con la propria band. La realtà, però, richiede concretezza e le pressioni che la società scarica sulle spalle dell’individuo, come si diceva poc’anzi, sono macigni. Taneda Naruo, fidanzato di Meiko in Solanin Taneda è quindi costretto scendere a compromessi, accettando un impiego come freeter (col termine si indicano i giovani giapponesi che si mantengono con lavori part-time senza una particolare prospettiva) e collocandosi, così, nella zona grigia tra quello che l’etica nipponica del lavoro richiede al cittadino e il desiderio di conservare l’autonomia che un impiego a tempo pieno non consentirebbe. Anche lui, proprio come Meiko, convive con il timore di aver smarrito la propria strada ed è paralizzato da un peso sempre più insopportabile: la consumante paura di diventare vecchio e privo di alternative prima di essere riuscito a realizzare le proprie aspirazioni. “Era come se avessimo delle cose in sospeso nelle nostre vite” Le dimissioni di Meiko segnano una svolta inevitabile. Taneda, finisce per diventare l’unico appiglio e il ricettacolo delle aspirazioni infrante della fidanzata che, abbandonato il fardello delle proprie responsabilità, si concentra sul sogno del fidanzato, spingendolo a lasciare l’impiego e a concentrarsi, a tempo pieno, nella carriera musicale. Così facendo, Meiko mette in pausa la propria evoluzione, proiettando invece un morboso desiderio di realizzazione su Taneda. Il duro scontro con la realtà, tanto violento da sgretolare l’ideale visione del possibile ingenuamente coltivata dai due ragazzi (e, in questo caso, rappresentato dal fallimentare tentativo della band di Taneda di farsi scritturare da una casa discografica), porta con sé tensioni e “non detti” che sfuggono di mano a Meiko, ormai schiacciata dal nuovo peso dell’immobilità. Taneda, al contrario, riceve una spinta verso la maturazione: riprende infatti in mano la propria vita, non senza soffrire per la rinuncia alla totipotenza che la gioventù mette sul piatto, finché dura. Taneda sceglie quindi di procurarsi un impiego a tempo pieno e di accontentarsi della musica come hobby. “Ho i ragazzi, ho te Meiko. Forse per me è abbastanza così … d’ora in avanti troveremo inseme la felicità” Ed è a questo punto che Taneda muore, vittima di un incidente in scooter, lasciando dietro di sé un vuoto apparentemente incolmabile. “Diventerò brava a suonare la chitarra” Lo sconforto in cui precipita Meiko, intriso di sensi di colpa, rischia di rendere permanente la stasi in cui la giovane era precipitata prima della morte di Taneda. Tuttavia è in questa seconda parte della storia che emerge, a sorpresa, una rinvigorita voglia di ripresa in grado di scuotere Meiko e i suoi pensieri. Un cammino, denso di emozioni forti e difficili da metabolizzare, che si pone, per la ragazza, a metà tra la necessità di elaborare il lutto e il bisogno di rinascita. Il percorso evolutivo innescato dal tragico evento è simboleggiato dalla risoluzione della giovane di imparare a suonare la chitarra del defunto fidanzato e di ricoprire, all’interno della band, il ruolo che lui ha lasciato orfano. Questo la porterà a confrontarsi con i mondi interiori degli amici, a riscoprire l’importanza delle relazioni che è stata, nonostante tutto, capace di tessere, e a comprendere il senso delle altrui piccole grandi battaglie. Ma, più di ogni altra cosa, le consentirà di guardare dentro se stessa e di ricalibrare le aspettative di felicità che, in passato, si era aprioristicamente imposta. Il culmine di questo processo è rappresentato dall’unico concerto che Meiko farà con la band di Taneda, ormai diventata anche la sua band, esibendosi sul palco con cuore in gola e suonando l’ultimo pezzo scritto dal fidanzato: Solanin. Adesso Meiko è pronta per ricominciare. Adesso Meiko ha capito che si può essere felici anche se non è tutto esattamente come si sarebbe voluto che fosse. Meiko in una scena di Solanin di Inio Asano Crescere o scegliere di non scegliere Inio Asano, classe 1980, ha riversato nella sua opera l’opprimente senso di smarrimento che accompagna la più grande delle sfide: crescere. Abbandonare l’età dell’irresponsabilità per imparare a comunicare attraverso linguaggio della società degli adulti non è affatto una transizione semplice, né indolore. L’individuo, privo di armi adeguate, si trova esposto alla vertigine pruriginosa che il timore dell’irreversibilità delle proprie scelte porta con sé. L’affanno della rincorsa di quel tempo che, senza pietà, fugge via come nel sonetto di Lorenzo il Magnifico, si trasforma sovente in moti d’ansia difficili da controllare. Un’impresa ostica che si radicalizza in una società, come quella giapponese, in cui l’importanza di trovare un impiego si pone come questione esistenziale, tanto che alcuni, schiacciati dalla pressione, scelgono di non scegliere, manifestando comportamenti esclusivi come quello degli Hikikomori o dei Neet. Anche in Italia, però, il disagio si fa sentire. Quanti di noi, almeno una volta, si sono sentiti confusi, inadeguati e incapaci di scegliere? Io, per lo meno. Come vi dicevo in apertura, raccontandovi un po’ gli affari miei. Alla ricerca dell’ikigai La ricerca di Meiko è, in fin dei conti, la ricerca di chiunque. Ed è qui che si deve compie il balzo concettuale suggerito da Asano: la ricerca, quella vera, non è volta a trovare il proprio ruolo nella collettività come contribuente. La vera quest ha una portata più intima e profonda perché finalizzata a individuare un punto di equilibrio soggettivo dal quale ricevere appagamento costante, nonostante le angherie che la vita ci propina. In altre parole, è la ricerca di cosa ci renda davvero felici, al di là del lavoro, al di là della società, al di là delle aspettative che ci vengono imposte dall’alto e tramandate da generazioni ormai scomparse. I giapponesi hanno una parola per identificare un concetto che mi è molto caro: ikigai. ‘Iki’ significa vivere, mentre ‘gai’ ragione (o scopo). L’ikigai in sostanza è la ragione di vita, ossia il motivo che ogni mattina ci spinge ad alzarci dal letto e affrontare la vita di petto. La ricerca dell’ikigai è un cammino introspettivo che chiama l’individuo ad ascoltare se stesso per riuscire, infine, a comprendere ciò che può trasformare la quotidianità in vera e propria fonte di realizzazione. Insomma, una solida base sulla quale porre le fondamenta del nostro progetto esistenziale. Asano, che consiglio anche a chi non è un otaku incallito come la sottoscritta, compone un’opera densa, sia graficamente che sul piano dei contenuti. Un’opera destinata a scuotere la più arida delle coscienze e a evocare riflessioni sulle quali è consigliabile spendere un po’ del proprio tempo. La vita è in salita, praticamente quasi sempre, non disdegnerei quindi la possibilità di imparare a trarre un genuino appagamento … che so, dal perdersi con lo sguardo su un prato baciato dal sole, mentre un amico ti sussurra stronzate nell’orecchio. Share Tweet Share... Read more...Partigiani e memoria divisa, un articolo di G. Bindi || Threevial Pursuit25 Aprile 2020Partigiani e memoria divisa Dall’estate di sangue del 1944 all’occultamento dei colpevoli di Gianluca Bindi Ci risiamo. Ogni anno, per la festa della Liberazione, ci tocca sentire ogni genere di lordura sulla memoria di chi si è sacrificato sul fronte italiano durante quel periodo infernale tra la fine del ’43 e il 25 aprile 1945. Delle migliaia di morti del passaggio dei tedeschi sulla penisola, solo in Toscana ci furono, in neanche tre mesi, tra le 4000 e le 5000 vittime civili. Di chi è la colpa? La vox populi odierna sembra puntare il dito praticamente soltanto sui partigiani. Nelle migliori delle ipotesi, festeggiare la Liberazione dai nazifascisti e la conseguente fine della Seconda Guerra Mondiale è diventato divisivo. In questo articolo, il più brevemente e chiaramente possibile, descriverò come è stato possibile un tale trasferimento delle colpe in 75 anni, provando a essere una guida contro le male voci e le fake news che tentano di cambiare la percezione della memoria di un evento complesso. I briganti È colpa dei partigiani se ci furono rappresaglie; se non avessero attaccato l’esercito tedesco quest’ultimo non avrebbe rastrellato e ucciso civili innocenti. Ormai è diventato un ritornello ricorrente. E, anche se a volte c’è stata una diretta conseguenza causale fra uno scriteriato attacco partigiano ai tedeschi e la messa a ferro e fuoco di interi paesi, non è stato sempre così. Anzi. Riassumiamo brevemente la situazione aggiornata all’estate del 1944: L’Italia è divisa in due. A nord c’è la Repubblica Sociale italiana (stato fantoccio del Reich con a capo Mussolini), mentre a sud gli Alleati stanno liberando a mano a mano la penisola. Nel mezzo c’è l’esercito tedesco in ritirata con reparti delle SS che stanno inondando di sangue la popolazione civile. Perché? I tedeschi stanno attuando una strategia militare denominata ‘ritirata aggressiva’. Ufficialmente stanno impegnando l’esercito Alleato durante la risalita per guadagnare tempo e reperire manodopera schiava; infatti secondo il capo delle truppe, il feldmaresciallo Kesselring, l’unica speranza per la Germania per evitare la sconfitta è finire di costruire una linea corazzata di difesa sugli Appennini tosco-emiliani, denominata Linea Gotica. In pratica, però, non è altro che un’indiscriminata attuazione dei più efferati crimini di guerra su civili inermi. E c’entrano poco o niente gli attacchi dei partigiani. Molti eccidi toscani sono stati attuati con gelida razionalità, per liberare territori per la ritirata e, preventivamente, attaccare paesi in cui ‘avrebbero potuto’ esserci bande armate. Non siete ancora convinti? Bene, continuo. Il 17 giugno 1944 Kesselring dipana un ordine a tutte le sue truppe, prendendo spunto dal cosiddetto ‘Foglietto di istruzioni’ o Merkblatt 69/1 in cui: Veniva cancellata la linea di demarcazione fra la popolazione civile e i partigiani; ergo tutti potenzialmente potevano essere partigiani, anche donne, vecchi e bambini.Totale arbitrarietà ai comandi locali su chi fiancheggiasse o appartenesse a bande di partigiani in una determinata zona;Infine, Kesselring in persona, garantiva quella che poi sarebbe passata alla storia come ‘cambiale in bianco’, ossia non solo la totale copertura a comandanti e soldati che avessero ecceduto nelle misure repressive contro la popolazione, ma anche esemplari punizioni a chiunque avesse esitato o avuto comprensione verso i ‘nemici’ civili. Dunque a questo punto la strategia della Wehrmacht è abbastanza chiara: non la dichiarata quanto folle volontà di massacrare la popolazione per distruggere le bande, ma la paralisi delle coscienze tramite lo spargimento di sangue senza senso, per arrivare a recidere a monte il cordone ombelicale fra popolazione civile e Resistenza (risultati maggiori e costi minori rispetto all’affrontare i partigiani). Massacri che comportarono soltanto l’intensificarsi della lotta perché, un uomo che ha perso parte o la totalità della sua famiglia per ritorsione, codardia, efferatezza, o a cui è stata bruciata la casa, non può far altro che continuare a combattere. E così via, in un circolo vizioso in cui i tedeschi si sentivano ancora più autorizzati a colpire a ogni contrattacco ricevuto e, contemporaneamente, vedevano confermata la loro tesi fasulla sulla colpa dei morti degli eccidi sui partigiani. “(…) Le colpe partigiane sono solo un pretesto che non giustifica le centinaia di vittime a fronte di qualche soldato tedesco ucciso e ferito (…). Nel corso dei mesi la ratio della rappresaglia subisce una serie di slittamenti progressivi verso qualcosa di sostanzialmente altro, evidenziando che la logica della terra bruciata non può essere giustificata all’infinito.” Un’ulteriore svalutazione della tesi iniziale viene direttamente dal fronte amico. Gli Alleati incoraggiavano gli interventi delle bande sia armati sia di sabotaggio tramite sovvenzioni, approvvigionamenti di armi e proclami direttamente dalle frequenze di Radio Londra; tanto che nel ’45 i processi ai tedeschi si preferì istituirli in corti militari britanniche perché i crimini contro i civili erano stati commessi per reazione ad attività incoraggiate dagli Alleati stessi. Infatti, il capo delle forze Alleate nel Mediterraneo Alexander (così come anche Badoglio), già da maggio incitava “a uccidere in ogni occasione i tedeschi, incurante delle inevitabili conseguenze che sarebbero ricadute sulla popolazione civile”. Altra pressione per l’intervento armato contro l’invasore: i contadini. In quel frangente, subito dopo le vittime per la guerra, c’erano quelle per la fame. Quando la Wehrmacht transitava con tutti i suoi innumerevoli effettivi, saccheggiava bestiame, raccolti, cibo e ogni tipo di rifornimento alla popolazione locale, che già non sapeva come sfamarsi. Questa una testimonianza a ridosso dell’eccidio del Padule di Fucecchio del 23 agosto 1944 (174 vittime civili): “Risulta perciò da testimonianze indubbie che i contadini del luogo, i quali avevano fornito viveri ai partigiani, insistettero onde ottenere il loro intervento”. Così come il sacerdote del paese, Primo Egidio Magrini, che conferma le razzie tedesche e la mobilitazione contadina. Ciò delinea ancor più chiaramente l’identità dei partigiani in questa prima fase di guerra civile: gente comune che fa una scelta, spinta sia dal rifiuto dell’ideologia nazifascista, sia soprattutto da motivazioni di sostentamento e di protezione dei legami familiari e della propria comunità (la famigerata questione privata). In quella situazione assurda e funesta, non si poteva non scegliere. Quindi, tornando alla tesi iniziale, non ci fu nessuna prova di una minaccia partigiana che giustificasse alcun tipo di strage da parte dell’esercito tedesco (semmai si possano giustificare) prima dello sfondamento della Linea Gotica. Anzi, ci sono molti indizi che portano a constatare che la brutalità degli eccidi, almeno fino a tutta la primavera del ’44, non ha avuto nessun rapporto con il pericolo effettivo rappresentato dai partigiani. Solo dopo la strage di Marzabotto (29 settembre-5 ottobre 1944, 775 vittime) si ebbe una svolta nel movimento; infatti, dall’autunno del ’44: “il movimento partigiano crebbe a tal punto che ormai si doveva parlare di una vera e propria guerra in cui i partigiani armati acquistarono sempre più, agli occhi della Wehrmacht, lo status di combattenti”. Da carnefici a ‘povere’ vittime: i fascisti collaborazionisti Non preoccupatevi, il peggio deve ancora arrivare. Sì, perché la crudeltà dei nazisti va di pari passo con i loro complici fascisti. Anche qui breve ricapitolo. Il 10 luglio del 1943 viene effettuato lo sbarco Alleato in Sicilia. Mussolini vede il suo esercito disgregarsi e il consenso cadere a picco. Il 25 luglio il re e alcune massime cariche fasciste attuano un colpo di stato: il duce è imprigionato sul Gran Sasso. Il generale Badoglio, nuovo capo del governo, prima dichiara che l’Italia onorerà gli impegni di guerra presi a fianco della Germania; poi, invece, l’8 settembre firma l’armistizio e passa dalla parte degli Alleati. La popolazione italiana gioisce credendo che sia la fine della guerra, ma la situazione si presenta subito drammatica. Hitler è su tutte le furie: prima fa liberare Mussolini con un commando di paracadutisti (12 settembre) e lo mette a capo della Repubblica Sociale Italiana; poi schiera le sue armate sulla Linea Gustav (dal Lazio all’Abruzzo) per contrastare palmo su palmo l’avanzata Alleata. L’Italia è divisa in due. Il re e Badoglio fuggono da Roma e si rintanano a Brindisi, non dando alcuna indicazione all’esercito italiano impegnato sui vari fronti. I tedeschi cattureranno 600.000 soldati italiani allo sbando deportandoli nei campi di concentramento; molte migliaia invece furono fucilati sul posto. Altri riusciranno a tornare e a unirsi ai primi nuclei della Resistenza. Durante la ‘campagna d’Italia’ di Kesselring molti fascisti rimasti fedeli al duce e a Hitler fiancheggiano la Wehrmacht macchiandosi di crimini abominevoli. Oltre allo spionaggio, i fascisti, conoscendo a menadito i luoghi dove erano nati e cresciuti, guidano i tedeschi in quasi tutti i massacri di civili. Non solo, lo fanno nella maniera più spregevole: si travestono da militari del Reich e si coprono il volto per non essere riconosciuti dai propri compaesani. Con i loro preziosi consigli procurano la morte di migliaia di uomini, donne, vecchi e bambini che parlano lo stesso dialetto e che appartengono alle stesse radici, senza nemmeno avere il coraggio di presentare la propria faccia. Sempre prendendo spunto da alcune testimonianze dell’eccidio del Padule: “Italiani camuffati al Pratogrande di sopra. Entrare in una corte, un mucchio di soldati a quella maniera e due bendati… del paese. Gente che si conosceva, sennò ‘un venivan bendati, è chiaro.” “«Entrarono in casa e cominciarono a mitragliare». Oreste Silvestri sente dire Scendete giù criminali, addirittura in accento toscano; anche poco dopo, quando è ferito e si finge morto, mentre lo rovesciano con un forcone sente in italiano: Sparategli ancora! (…) L’accento toscano è notato, specialmente a Pratogrande e alle case Simoni e Silvestri.” Ah, per ‘criminali’ il camerata intende civili supposti fiancheggiatori di partigiani, anche se varie fonti escludono la presenza di essi nella gronda della palude. Le vittime dell’eccidio sono state quasi esclusivamente donne, vecchi, bambini e sfollati totalmente innocenti e incapaci di difendersi (la vittima più giovane era di pochi mesi, mitragliata in culla, la più vecchia era di oltre novant’anni, cieca, fatta saltare con una granata messa in tasca del suo grembiule). Qui si va oltre l’ideologia di guerra, si va oltre anche la tesi (non perdonabile né tanto mai comprensibile a questi livelli) della vendetta dei tedeschi ‘traditi’ dal proprio alleato. Addirittura il duce in persona nell’agosto del ’44 protesta timidamente contro le stragi sistematiche sui civili, non venendo minimamente ascoltato. Il destino della guerra era segnato già a giugno del ‘44 (gli Alleati erano sbarcati in Normandia e la Linea Gotica, ancora lontana dall’essere ultimata, sarebbe stata oltrepassata a settembre). Ma l’obiettivo dei coraggiosi e temerari fascisti, coscienti di non avere più speranze di vittoria, è quello di praticare uno sfregio sulla popolazione civile, una ferita sanguinosa e sfigurante sulla psiche della comunità che tutt’ora non si è rimarginata. Tanti collaborazionisti furono riconosciuti comunque e dopo la fine della guerra fuggirono, con famiglie al seguito, dai paesi che loro stessi avevano contribuito a massacrare. Altri fascisti furono uccisi sia da ex partigiani, sia da gente comune che non aveva dimenticato, in una scia di sangue che continuò in tutta Italia per almeno due anni e per la quale, ancora oggi, la stampa di destra diffonde la retorica dell’ingiusto trattamento che quei ‘valorosi’ uomini si sono visti infliggere dopo il cessate il fuoco. I carnefici si trasformano in vittime. Ancora oggi quasi tutti i nomi dei collaborazionisti dell’epoca rimangono ignoti. Ciò ha contribuito alla dislocazione delle colpe dei morti della Resistenza, ma non è l’unico motivo. Il fattore determinante, purtroppo, è il ruolo che ha avuto la giustizia italiana e internazionale nei processi del Dopoguerra. Proviamo a capire cosa è successo. La (in)giustizia del Dopoguerra Il processo a Kesselring fu istituito a Venezia e durò dal 10 febbraio al 6 maggio 1947. Fra tutti i crimini commessi sotto il suo comando (ricordo che fu feldmaresciallo delle truppe tedesche in Italia da settembre ’43 a fine ottobre ’44 e che tutti gli ordini dei massacri ai civili durante questo periodo erano stati emanati direttamente da lui), l’accusa gli contestò soltanto l’eccidio delle Fosse Ardeatine a Roma, e quello di Fucecchio. Le indagini che i gruppi di investigazione Alleati avevano svolto tra il ’44 e il ’46 mostrarono evidenti segni di squilibrio e molti eccidi furono archiviati con la motivazione della mancata certezza dei responsabili. La presa di coscienza delle stragi italiane non fu subito lampante, tanto che inizialmente si pensava che i crimini commessi facessero riferimento quasi totalmente contro militari e civili Alleati. Infatti fra i capi di imputazione non figuravano addirittura gli eccidi di Marzabotto e di Sant’Anna di Stazzema (12 agosto ‘44, 560 vittime). Sul banco degli imputati, il feldmaresciallo “negò di aver saputo di atrocità commesse contro le popolazioni civili”. Ciononostante Kesselring fu sentenziato colpevole e fu condannato a morte tramite fucilazione. A questo punto ci fu un colpo di scena inaspettato. Contro la sua condanna reagirono duramente Churchill e Alexander, ossia il primo ministro inglese e il comandante delle forze Alleate nel Mediterraneo (quest’ultimo aveva combattuto contro di lui per mesi nella risalita della penisola). Le pressioni furono così forti che la condanna fu commutata in carcere a vita dal giudice militare Hardling e, ad ottobre del 1952, gli fu concessa la grazia. Kesselring è morto da uomo libero nel 1960. Il perché è da ricercare nelle scelte e nella politica internazionale dell’Italia nel Dopoguerra. Negli anni Cinquanta il nostro Paese si ritrovava di nuovo alleato della Germania (o di quello che ne rimaneva) assieme a Stati Uniti e Inghilterra, in un blocco atlantico teso a contrastare qualsiasi deriva di sinistra; anche se questo voleva dire non condannare un criminale nazista che le forze Alleate avevano combattuto a fianco fino all’ultimo giorno della Seconda Guerra Mondiale. “Alle forze moderate e conservatrici, che gestirono il potere nei decenni immediatamente successivi alla Liberazione, non è difficile attribuire la responsabilità di aver usato in chiave strumentale risentimenti, rancori, sentimenti di dolore autentico in funzione di crociata anticomunista, quindi antipartigiana”. E ciò era stato tremendamente in linea con l’Amnistia Togliatti, vagliata dal governo italiano il 22 giugno del 1946 con l’obiettivo di acquietare gli strascichi della sanguinosa guerra civile. Un conto però è amnistiare, un altro è insabbiare. Infatti solo negli anni Novanta sono stati messi a disposizione gli archivi inglesi, americani e tedeschi sulle stragi in Italia, consentendo una maggiore e dignitosa ricerca storiografica. Nel 1994 a Roma addirittura fu rinvenuto dal procuratore militare Antonino Intelisano presso la Procura generale militare in via degli Acquasparta un armadio con le ante rivolte verso il muro, contenente 695 fascicoli di inchiesta sui reati e i crimini di guerra durante l’occupazione nazifascista e testimonianze dei superstiti raccolte dai servizi segreti britannici; fu denominato ‘Armadio della vergogna’. Grazie al vaglio di questi documenti top secret la magistratura fu in grado di venire a conoscenza, processare e condannare (anche se tardivamente) molti criminali nazisti ancora a piede libero. Il contenuto dell’armadio è stato interamente desecretato nel 2016 ed è disponibile, tramite ordine, sul sito della Camera dei Deputati. Questo ‘oblio’ volontario è stato il fattore determinante per la nascita della cosiddetta memoria divisa, ossia la scissione fra i fatti avvenuti nel 1944 e la percezione antipartigiana diffusa oggi. Ciò che è arrivato ai familiari delle vittime e a tutte le comunità colpite dai vergognosi intrallazzi politici e insabbiamenti in clima guerra fredda, è stata l’assenza di condanne esemplari ai colpevoli nazifascisti; il che “equivaleva ad una implicita assoluzione”. Questo ha portato a un corollario pericoloso: se nessuno paga, le migliaia di morti, oltre ad essere state insensate nei metodi, sono diventate anche senza movente. Perciò, se da una parte venivano amnistiati gli assassini, le memorie colpite hanno dovuto rintracciare un colpevole tramite cui comprendere i massacri: i partigiani. Se da una parte i nazifascisti hanno usato criminosamente le stragi come strumento di battaglia e non come rappresaglia non venendo condannati, i partigiani si sono ritrovati rei “non solo e non tanto per avere commesso qualche azione di guerra infelice o errata, ma per il fatto stesso di essere esistiti come patrioti e di avere combattuto”. Oggi è venuto il tempo di far crollare questo castello di costrutti fasulli e far reintraprendere alla memoria una migrazione verso il proprio punto d’origine dal quale è stata sfrattata: la verità. Non perdiamo questa occasione. U. Jona, Le rappresaglie nazifasciste sulle popolazioni toscane. Diario di diciassette mesi di sofferenze e di eroismi, ANFIM, Firenze 1992, elenco dei morti consultabile a questo link. L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia. 1943-1945, p.333, Bollati Boringhieri, Torino 1993. I. Tognarini, Kesselring e le stragi nazifasciste. 1944, estate di sangue in Toscana, Carocci, Roma 2002, Regione Toscana, Firenze 2002, pp. LXII-LXIII. M. Battini e P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Marsilio, Venezia 1997, p. 200, che cita Record of a meeting held in Hobart House to discuss Minor War Criminal Trials, 20 agosto 1945, PRO WO 32/14566. Cfr. R. Lamb, War in Italy 1943-45. A brutal story, Penguin Books, Londra 1993, pp. 92-93. V. Ferretti, Kesselring, Mursia, Milano 2009, p. 224. Relazione dell’attività formazione partigiani Silvano Fedi di Ponte Buggianese, 30 settembre 1944, ISRT, fascicolo Silvano Fedi n. 15. P.E. Magrini, Barbarie e vittime. Memorie di tre giorni di ferocia tedesca a Ponte Buggianese nel 1944, Pescia 1945, ristampato in M. Bonanno (a cura di), Barbarie e vittime. Memorie di padre Primo Egidio Magrini, Editrice CRT, Coscienza, realtà, testimonianza, Pistoia 2004, pp. 5-9. Cfr. Klinkhammer, L’occupazione tedesca, cit., p.338. I. Tognarini, Kesselring e le stragi nazifasciste, cit., p. XLIII. Cfr. A. M. Banti, L’età contemporanea. Dalla Grande Guerra a oggi, Editori Laterza, Bari 2009, pp. 236-239. Cfr. Klinkhammer in L’occupazione tedesca (op. cit.), pp. 430-433. L’autore fa riferimento a dati ufficiali della repressione congiunta nazista e fascista che si attesta a 120.000 morti soltanto fra i civili in 20 mesi di occupazione, ma le stime sono decisamente al ribasso. Intervista del 12 giugno 1997 a Eugenio Cappelli e Iliana Giuntoli, in M. Folin (a cura di), Popolo se m’ascolti… Per le vittime dell’eccidio del Padule di Fucecchio. 23 agosto 1944, Diabasis, Reggio Emilia 2005. Testimonianza di Oreste Silvestri, Special Investigation Branch (SIB), 15 febbraio 1945, in L. Baiada, Raccontami la storia del Padule. La strage di Fucecchio del 23 agosto 1944: i fatti, la giustizia, le memorie, Ombre Corte, Verona 2016, p. 106. Cfr. V. Ferretti, La Resistenza nel pistoiese e nell’area tosco-emiliana (1943-1945), Consiglio regionale della Toscana, Firenze 2018, pp. 44-45. Rispetto per tutti i morti tranne per quelli usati in malafede per coprirne altri. Cfr. I. Tognarini, ivi, pp. XXVII-XXVIII. Ibidem. I. Tognarini, ivi, p. XXIX. War Office 32/15490, 11A. Cfr. I. Tognarini, ivi, p. XXX. Cfr. I. Tognarini, ivi, p. LXXIV. I. Tognarini, ivi, p. XLVII. Cfr. I. Tognarini, ivi, p. LXXXVI. F. Giustolisi, L’Armadio della Vergogna, l’Espresso, 9 novembre 2000. I. Tognarini, ivi, p. LXXIV. Ibidem. Share Tweet Share... Read more...Angelillo de cara sucia (pt. 2), un articolo di Cartavelina || Threevial Pursuit23 Aprile 2020Angelillo de cara sucia(pt. 2) di Cartavelina Antonio Valentín Angelillo «…ci fu dato dal massaggiatore di quella nazionale, perché dopo una partita, che avevamo giocato divinamente, avevamo volti e divise sporchi di terra. E quindi Ángeles de cara sucia, gli angeli dalla faccia sporca». Mi era sempre piaciuto quel soprannome. Intanto devo dirvi che mi piacciono proprio i soprannomi, perché sono i discendenti degli antichi epiteti Greci e raccontano una storia permettendo di visualizzarlo, l’eroe di turno, ma quello in particolare era perfetto. Perché di per sé è un ossimoro: gli angeli, figure candide e noiose, vengono descritti con la faccia sporca, faccia di chi ha faticato o quantomeno è andato in barba alle apparenze. Quindi angelici, per la soavità del loro gioco, ma terreni proprio perché la faccia è sporca. Presi coraggio e gli chiesi: «Antonio ma perché sento tristezza nelle tue parole?»Appena pronunciata, quella frase mi parve così scontata, infantile come richiesta e invece avevo centrato il punto senza volerlo.«Infinita tristezza, perché noi con quel vittorioso torneo abbiamo attirato le attenzioni di mezza Europa. Io andai all’Inter, Sivori alla Juventus e Maschio al Bologna e quella fu la fine della ‘Nuestra’».«La fine di cosa?»Perché non sto mai zitto, me lo diceva sempre la mamma: “Callimaco conta fino a dieci prima di parlare e se ti sembra che sia giusto quello che stai per dire, conta di nuovo”.Angelillo mi rimbrottò subito: «Signor Pierozzi qui mancano le basi però». Omar ‘Cabezón’ Sivori (in basso a destra); Humberto Dionisio ‘Bocha’ Maschio (in basso a sinistra); Antonio Valentín Angelillo (al centro); Riprese subito con vigore e trasporto: «Non le dice niente ‘Calcio Criollo’, quello decantato da Eduardo Galeano, il calcio sudamericano, individualista e creativo, che può nascere solo se la tua scuola calcio è la strada. La strada, con le sue buche e i suoi sassi, avversari statici ma dolorosi se li prendi sotto gamba, con le sue incognite proprio perché nata per altro scopo. Un calcio in antitesi a quello inglese dell’epoca, il repellente ‘kick and run’. Mai capiti gli inglesi, fanno tutto di fretta, senza concedersi un secondo per rimirare il paesaggio. Palla lanciata in avanti come a volersene liberare, invece noi la palla la corteggiavamo, la palla è seducente e pronta a tradirti se non le dai le giuste attenzioni. Furono argentini e uruguagi a dare nomi alle finte, nomi che rappresentavano il nostro modo di interpretare il calcio». Speravo che iniziasse ad elencarli e mi concentrai per ricordarmeli tutti. Ripartì, come un fiume in piena: «La marianela, inventata dal difensore argentino Juan Evaristo, leggenda Albiceleste, consiste in una rotazione di centottanta gradi per difendere la palla con il corpo e poi allontanarla con il piede preferito. Oppure la rabona, inventata da Ricardo Infante, dell’Estudiantes de la Plata, che segnò con questo colpo al Rosario Central dopo che la palla era stata respinta dal palo. L’elástico por el contrario, inventore Juan Carlos Muñoz, esterno della delantera del River Plate, l’attacco di quella squadra che annoverava anche Josè Manuel Moreno Fernàndez detto ‘El Charro’, Adolfo Pedernera, Angel Amadeo Labruna e Felix Loustau: era chiamato ‘La Máquina’ e considerato il migliore di sempre della storia argentina». Si fermò a riprendere fiato, credo non avesse mai respirato o almeno io non me ne ero accorto. Non mi mossi, cercai di rallentare battiti cardiaci e flussi di pensiero perché niente interrompesse quella magia.«Sa che dissero che noi, i ragazzi di quella Coppa America del 1957, eravamo i degni eredi di quell’attacco?»Io annui estasiato. Mi feci coraggio e dissi: «Mi sta dicendo solo cose positive, signor Angelillo…»Non mi fece continuare: «Aspetti, non sia impaziente, deve avere una visione d’insieme. Cosa sarebbe accaduto nel 1958?» Mi concentrai come non avevo mai fatto in vita mia. Cos’era successo nel 1958? Non mi veniva in mente niente, poi l’illuminazione. 9 ottobre 1958 era morto Pio XII ma mi ricordai anche che un mesetto prima, il 1 settembre, era scoppiata la Guerra del Merluzzo tra Islanda e Gran Bretagna.Ero in questa impasse e Angelillo se ne accorse e mi disse con tono dolce: «Vada Callimaco, senza paura, siamo solo io e lei».Mi rinsavii, inalai aria, allargai il petto, feci lo sguardo più serio che potevo e esclamai: «Ad ottobre sarebbe morto Pio XII». E preso dal fervore di quest’affermazione iniziai a cantare: «Quando che more un prete, suonano le campane, piangono le puttane, che è morto un avventor. Quando che more un papa suonano il Miserere, ma io c’ho un gran piacere, che è morto il puttanier. Quando che moio io…» Non mi fece concludere: «No». Allora aggiunsi: «Era il mio dubbio. La Guerra del Merluzzo!»«Macchè Guerra del Merluzzo, ci sarebbe stato il Mondiale di Svezia, noi eravamo i favoriti e col cavolo avreste sentito parlare del diciottenne Pelé».Colsi al volo che non doveva essere andato bene per l’Argentina, io mi ricordavo solo del famoso attacco brasiliano e mi vergognai per la storia di Pio XII e della Guerra del Merluzzo. Ma non dissi niente, aspettai. Riprese lui. «E invece io, Maschio e Sivori non fummo convocati perché avevamo tradito la patria venendo a giocare in Italia. E l’Albiceleste perse al primo turno con la Cecoslovacchia, il famoso Desastre de Suecia».Io annuii, fingendo di sapere di cosa stesse parlando. «Così finì la Nuestra, per la stupidità di alcuni dirigenti e perché tre ragazzi decisero di fare il percorso a ritroso dei loro nonni e venire a giocare in Italia. In Argentina prese piede una nuova corrente di pensiero calcistico, il resultadismo. Meno fronzoli, meno bellezza e puntare a vincere qualcosa. Si dovette comunque aspettare il 1978 e i controversi mondiali casalinghi per alzare la coppa, il ‘Flaco’ Menotti come allenatore e una discreta squadra. Passarella, Kempes, Ardiles. Mi vien da sorridere, con noi non avrebbero mai giocato, questo però lo dico io e poi il calcio era cambiato, si fanno anche male i paragoni. Devo confessarle che mi sento terribilmente in colpa, con il senno di poi non avrei mai attraversato l’oceano e sarei rimasto in patria, dove hanno sempre capito e gustato a pieno il calcio di noi Ángeles de cara sucia. Ora ha capito Callimaco Pierozzi perché lei vede questo ombra di tristezza in me? Il nostro è stato il canto del cigno di ottant’anni di calcio argentino. Poi, ci mancherebbe! In Italia son stato bene, ho un record ancora imbattuto, 33 gol in un campionato a diciotto squadre. Ho vinto a Milano, sponda Inter e a fine carriera a Milano sponda Milan, nel mezzo le vittorie con la Roma e ho trovato l’amore. É soddisfatto della sua storia? Ha del materiale per scrivere qualcosa, non crede?» «Signor Angelillo senza dubbio, cercherò di fare del mio meglio». Lo ringraziai e, fatte altre due chiacchiere di rito, lasciai quell’uomo e quella casa. L’articolo su di lui non lo scrissi mai o meglio non raccontai mai quello che mi disse, me lo tenni per me. Scrissi un pezzo elencativo con i trofei vinti e qualche piccolo aneddoto, tanto per renderlo più interessante. E ora che Antonio Valentín Angelillo ha lasciato questa terra, raggiungendo l’altro angelo, Omar Sivori, dovrei comporre il suo epitaffio giornalistico per ArezzoNoi. Non riesco a scrivere niente di sensato, niente che possa esser capito dalla platea dei miei lettori. E allora son partito, direzione Galizia, precisamente il paesino di Finisterre. Ho stampato queste pagine, ho comprato una bottiglia di Queimada, intruglio alcolico a base di orujo, un liquore all’uva, chicchi di caffè, zucchero e fette di limone e arancia. Il composto viene fatto bollire e poi servito, si pensava che tenesse lontani streghe e demoni. Mi sono scolato la bottiglia in riva al mare e poi ho inserito dentro queste poche pagine. Ho aspettato il momento propizio – devo ammettere che di onde e maree ho sempre capito poco – e ho lanciato la bottiglia in mare. L’ho guardata mentre le onde la sballottavano di qua e di là, in un frenetico cullare. Sono rimasto lì, su quella spiaggia, finché l’ho persa di vista. Vi chiederete perché ho donato al mare questa storia. Mi auguro solo che le maree, che ci hanno regalato questo calciatore fantastico, a fine anni Cinquanta, possano portare questa storia dove tutto è cominciato. Mi auguro che la bottiglia, dopo un lungo peregrinare, possa arrivare alla Boca, Buenos Aires e che lì un cuore puro possa leggerla e innamorarsi di un Angelo che si sporcava per sembrare uno di noi. Cartavelina, 20 aprile 2020 Share Tweet Share... Read more...Angelillo de cara sucia (pt. 1), un articolo di Cartavelina || Threevial Pursuit22 Aprile 2020Angelillo de cara sucia(pt. 1) di Cartavelina Antonio Valentín Angelillo Mi presento, sono Callimaco Pierozzi, anni quarantadue. Il nome mi è stato dato per onorare un patriota del Risorgimento, Callimaco Zambianchi, forlivese, il Garibaldi in tono minore. Era conosciuto anche con il soprannome dell’Ammazzapreti: si dice che ne uccise ben otto durante la “gloriosa” Repubblica Romana. Aveva combattuto nella Legione Italiana, a fianco di Garibaldi in Sudamerica. E chi troverà questi fogli scoprirà una storia, quella di un uomo che aveva attraversato l’oceano, facendo il percorso inverso del nonno emigrante, per mostrare al mondo del calcio nostrano che ciò che dirà una ventina di anni dopo Johan Cruyff era totalmente vero. Ed è sempre stata una verità calcistica, dal momento in cui una manciata di bambini hanno arrotolato le giacche o sistemato dei sassi per fare delle porte in una strada sgangherata e polverosa di qualche barrio rioplatense o in qualche prato tagliato all’inglese. Teorema della pelota numero uno: “Giocare a calcio è semplice ma giocare un calcio semplice è la cosa più difficile”. È doveroso un antefatto. Io scrivo per ArezzoNoi, una scarsissima rivista che tratta per lo più di calcio di provincia e di buche da riasfaltare nella provincia aretina. Seguo partite del calibro di Bettolle vs Bibbiena o Rassina vs Pieve al Toppo e inevitabilmente devo fare uso di sostanze che alterino il mio stato psichico. Ragazzi, non c’è versi. Quando vedo calciare il pallone in quei campi, con quella cattiveria è bene che non sia del tutto lucido, sennò non potrei sopportarlo. Diciamo che mi drogo per lavoro, non voglio trovarne un altro e devo fuggire dalla realtà. Vado a quelle partite alterato, diciamo pure tutto fatto, e immagino altro. Quando il trequartista tocca ruvidamente il pallone, come se al posto dei piedi avesse due chiavi inglesi, io sono già perso a immaginare che in quel campo polveroso di provincia ci sia Dragan Dzajic ad accudire la palla come merita. Quando fischiano un calcio di rigore io immagino che in porta ci sia Lev Jašin a cercare di pararlo: lui, il Ragno Nero, unico portiere ad aver vinto il pallone d’oro nel 1963. E quando viene calciata una punizione, con quelle rincorse offensive del decoro, quel pallone colpito come se fosse una granata da allontanare il più possibile, io resetto tutto e immagino che a calciarlo ci sia Valdir Pereira, in arte Didì, campione del mondo 1958, facente parte della delantera di quel Brasile, diventata uno scioglilingua: Didì-Vavà-Pelè-Zagalo-Garrincha. Oppure Mario Corso, giocatore della Grande Inter, quella di Helenio Il Mago Herrera, inventore della punizione, calciata, a “foglia morta”. Angelillo con la maglia dell’Albiceleste Se in campo c’è un giocatore più estroso degli altri, basta poco, è sufficiente che sappia allontanare, mentre corre, il pallone meno di un metro dal suo piede e io sono già perso dietro a una farfalla tinta di granata che di nome faceva Luigi, detto Gigi, e di cognome Meroni. Seppe riportare pace nei cuori dei tifosi del Toro quindici anni dopo la tragedia di Superga, restò per tre anni e poi raggiunse nello stadio eterno gli Immortali, traditi dalla collina maledetta. Quando vedo un difensore che ha un minimo di senso della posizione e gagliardia fisica e morale, è come se scorgessi Josè Nasazzi Yarza, semplicemente Nasazzi, soprannominato El Gran Mariscal, capitano dell’Uruguay campione olimpico nel 1924 e nel 1928 e campione del mondo nel 1930. A volte invece vi scorgo il suo erede, Obdulio Jacinto Muiños Varela, ma tutti si fermavano a Obdulio, capitano dell’Uruguay campione del mondo nel 1950. Sono in continua fuga dalla realtà che mi circonda e vi posso assicurare che non è facile da condurre come esistenza, però di vita ce ne hanno data una, e una sola, e quindi a un certo punto ci si riesce anche ad abituare. Poi succede che un giorno, che dovrebbe essere uguale al precedente e quindi spesso noioso da vivere, accada qualcosa che ti cambi l’esistenza – oddio forse troppo forte come affermazione – diciamo che ti riporti a pensare che tutto sommato una vita vissuta è meglio di una buttata. Il cliché hollywoodiano prevederebbe “l’amore della vita”, nel mio caso è stata la possibilità di andare a intervistare a casa, per i suoi settant’anni, Antonio Valentín Angelillo. A questo punto vi chiederete perché Angelillo volesse rilasciare un’intervista ad ArezzoNoi. E io che ne so?! Ma se devo essere onesto me ne son fregato e sono andato a casa sua, perché aveva deciso di vivere ad Arezzo, e l’ho ascoltato per un pomeriggio, come si fa con i propri idoli. E ora, che siamo ai primi di gennaio del 2018, son qui a dover mettere insieme parole che lo omaggino per la sua dipartita. Quando arrivai a casa sua mi accolse un uomo sulla settantina – in realtà proprio settanta tondi tondi – distintamente vestito, con un naso largo da pugile, capelli inevitabilmente cinerei e un’aria da tanghero stanco. Mi disse di accomodarmi e facendolo indicò una poltrona in stile impero, una poltrona importante. Si assentò un attimo, non so per fare cosa, tornò con due bicchieri d’acqua ma ci aveva messo troppo, se il tempo fosse servito solo per l’acqua. Restai con questa curiosità. Si mise anche lui a sedere e iniziò ad osservarmi, come se volesse capire se ero pronto. Devo ammettere che mi sentii giudicato. Per fortuna si decise a dire qualcosa: «Vuole cominciare lei?» Grazie Angelillo, pensai. «Come mai la scelta dell’Italia? Come mai venire a giocare nel Bel Paese?»Mi guardò per qualche secondo, secondi che a me parvero ere e poi mi disse, o sarebbe più appropriato sussurrò: «Lei guarda la cosa dal punto di vista sbagliato, signor Callimaco. Il punto non è perché io scelsi di venire in Italia, ma perché l’Italia si accorse di me?» Pronunciata da lui, in quell’italiano perfetto ma con quel retrogusto latinoamericano, mi sembrò una verità ineludibile, qualcosa di dogmatico. Ero pronto a farmi ardere, per legittimare quel credo. Riuscii però a dire solo: «Nel senso?»Prese fiato.«Nel senso che io arrivai in Italia nel 1957, avevo vent’anni, dovrò pur aver fatto qualcosa per meritarmi tutta quest’attenzione dal campionato più importante del mondo, non crede?»Credetti subito che avesse ragione.Forse perché mi vide frastornato o forse solo perché voleva parlare, continuò: «Nell’estate del 1957 c’era stata la Coppa America, in realtà fino al 1975 si chiamava Campionato Sudamericano, e la Nazionale Argentina…» Los Ángeles de Cara Sucia: Osvaldo Héctor Cruz (in piedi a destra); Omar ‘Cabezón’ Sivori (in basso a destra); Humberto Dionisio ‘Bocha’ Maschio (in basso a sinistra); Antonio Valentín Angelillo (in basso al centro); Oreste Omar ‘Loco’ Corbatta (in alto a destra). Si fermò, io smisi anche di respirare per paura di disturbare i suoi pensieri, per fortuna riprese a parlare perché sapevo di avere un record di apnea di 46”, poi sarebbe stato collasso.«Scusi, sa i ricordi di gioventù…»Io annuii, ma devo ammettere che se avesse detto “Pere, Cavallo, Crisantemo”, il famoso gioco delle tre parole, avrei annuito lo stesso, mi aveva in pugno.«Eravamo una bella squadra, tutti giovani, molto forti, tecnicamente una delle migliori Argentine che ci siano mai state. E poi la delantera, parlavamo lo stesso linguaggio calcistico e le posso assicurare, signor Callimaco, che quando con i tuoi compagni di reparto ti intendi con uno sguardo, tutto viene più facile. Ma lei sa chi erano i componenti di quella linea d’attacco?» Mi sentii morire, sapevo di saperlo, ma in quel momento il vuoto, più totale. Balbettai delle consonanti, a un ritmo velocissimo, troppe consonanti. Ricominciò lui a parlare e iniziò a dire dei nomi che ridestarono le mie membra ma soprattutto le mie sinapsi.«Da dove vuole che parta, destra o sinistra?»Ero sempre più confuso: “Destra di cosa, sinistra perché”. Per paura che il discorso, a mia insaputa, fosse virato sulla politica stavo per innalzare il pugno sinistro al cielo, ma per fortuna non lo feci. Sarei passato, agli occhi del grande Angelillo, per uno psicopatico.«Facciamo così, gliela dico da sinistra a destra, va bene?»Annuii. «Osvaldo Héctor Cruz, il più anziano di noi, ventisei anni, ala sinistra; Omar ‘Cabezón’ Sivori, anni ventidue; Humberto Dionisio ‘Bocha’ Maschio, ventiquattro anni; Io, il più giovane, vent’anni; e ala destra Oreste Omar ‘Loco’ Corbatta, ventun’anni». Si interruppe, lo sguardo perso nei meandri dei suoi ricordi. Attesi, rispettosamente, che avesse voglia di continuare, fu un’attesa relativamente breve. Devo ammettere che l’accelerai, involontariamente, con un leggero colpo di tosse.«Scusi Callimaco» riprese «sa l’età inizia a farsi sentire. Dicevamo, eravamo spavaldi e sapevamo della nostra forza, non starò qui ad annoiarla con i resoconti delle partite».Pensai che se avesse voluto lo avrei ascoltato anche recitare la lista della spesa, immaginarsi i resoconti delle partite ma per pudore non lo dissi.«É lì che ci dettero quel soprannome».«Quale?» intervenni io. Sapevo benissimo quale fosse il soprannome ma volevo farglielo dire, volevo sentire come si pronunciava. La sua bocca si increspò come un’onda vogliosa di fuggire dall’infinità dell’oceano e poi rise, dolcemente. «Ángeles de cara sucia, gli angeli dalla faccia sporca…» Share Tweet Share... Read more...QuaranThreevial N°3: SuperDiscoMarket. Un articolo di A. Maglione19 Aprile 2020QuaranThreevial N°3: SuperDiscoMarket di Alessia Maglione Truz Truz di Luchadora Martedì 14 aprile, giorno di quarantena N° Boh, ho perso il conto. Ormai i miei concetti dello spazio-tempo sono completamente alterati e regolo le mie giornate in base alla posizione del sole. So che è appena trascorsa la Pasqua, e a seguito di una serie di accurati calcoli trigonometrici, dopo aver studiato l’andamento dei venti e registrato il livello di umidità dell’aria, mi sono bardata di tutto punto per andare a procacciarmi del cibo. Ebbene sì, oggi è il fatidico giorno dedicato alla spesa, quel giorno della settimana in cui non sai se uscendo ti dovrai armare di pazienza, coraggio, saggezza o semplicemente di guanti e mascherina. Fortuna vuole che i miei calcoli matematici siano corretti: tutti gli onesti cittadini si erano già riempiti le credenze in preparazione del pranzo di Pasqua, di conseguenza in fila non c’è quasi nessuno. L’assalto ai supermercati ormai c’è già stato. Perché sia chiaro, quarantena sì, ma non dite a un italiano medio di rinunciare alle proprie tradizioni, che la lasagna al ragù non si farà di certo da sola. Dunque mi metto comodamente in fila, libro alla mano per impegnare il tempo, mascherina sul naso che a respirare sotto al sole ha generato un effetto sottovuoto su tutta la mia faccia, guanti di plastica traspiranti quanto le lenzuola di flanella della nonna, euro pronto in tasca per accaparrarmi il carrello, che per una volta che ci vengo qua la spesa è bene farla sostanziosa, e attendo pazientemente. E nulla, inutile dirvi che provare a leggere mentre sono in fila al supermercato si rivela essere un’impresa titanica, non tanto per l’attesa in piedi sotto il sole dell’ora di pranzo, quanto per i discorsi che la gente ormai fa quelle rare volte che esce di casa, avendo così modo di esprimere tutto il proprio estro. Mi ritrovo così al centro di due scenari bizzarri, a cui assisto mantenendo ovviamente la dovuta distanza di sicurezza. Di fronte a me si trova uno strano terzetto, composto da due tipi bellocci sulla quarantina e da una ragazza vestita e truccata di tutto punto manco dovesse andare al Cocoricò. Che ormai qui, l’unico modo per imbroccare, è andare al supermercato o portar fuori il cane, pure se è immaginario, va bene uguale. Chiacchierano, ridono e scherzano in questa disposizione a semicerchio e insomma, si crea questo ginepraio di ormoni che solitamente si annusa nelle discoteche il sabato sera, e giustamente che volete farci, coi locali chiusi bisognerà pur trovare un modo per arrangiarsi, no? Ma se la scena che ho davanti quasi mi diverte, quella che si svolge alle mie spalle mi lascia tra il dubbio, il nervoso e lo sconcerto, guarnendo la mia giornata con quella nota di odio razziale e ignoranza che proprio mi mancavano per affrontare alla grande la settimana. In sostanza succede questo: due signore di origine albanese si mettono in fila insieme, e la solita bacchettona di turno le riprende dicendo che a far la spesa ci deve andare solo una di loro, che le regole sono uguali per tutti e che loro stanno cercando di fare le furbe (perché sono albanesi, ovviamente). Inutile dirvi che, dal mio modesto punto di vista, la bacchettona non aspettasse altro che la ragazza albanese rispondesse a tono: c’aveva proprio voglia di insultar qualcuno oggi, glielo si leggeva da sotto l’occhiale da sole glitterato. Classica scena da rissa da bar. Rapido scambio di insulti, minacce di chiamare i carabinieri e noto come la bacchettona, alle ragazze subito dietro di me, italianissime ed entrambe in fila insieme per fare la spesa, non abbia detto assolutamente nulla. Dopo aver ragionato su come ormai questa coda abbia assunto tutte le caratteristiche di una discoteca del centro di Firenze, mentre penso a tutta la rabbia e all’odio razziale ingiustificato che la bacchettona ha riversato sulla povera ragazza albanese che, puntualizzo, sarebbe entrata da sola mentre l’amica avrebbe aspettato fuori, finalmente mi armo di carrello e il solito buttafuori dalla faccia stanca mi fa entrare nel supermercato. Mi passano sulla fronte ‘sto coso a ultravioletti per misurarmi la temperatura che fa venire un po’ di ansietta e sono dentro. Grazie a Dio sto bene e anche oggi è andata, non morirò di fame. E meno male che mi ero portata la lista, che quasi mi scordavo di comprare la carta igienica. Torno a casa, mi levo guanti e mascherina, che ormai faccia e mani si sono totalmente lessate, mi disinfetto, mi lavo, mi asciugo, mi stiro e mi rilasso e mentre smisto le buste mi accorgo che: a) alla fine non ho comprato praticamente un cazzo, e mi toccherà tornare a fare questa sceneggiata tra qualche giorno; b) il signore che sta qualche palazzo più in là ha praticamente finito di costruire la sua verandina e me ne compiaccio, dato che sto seguendo i lavori del cantiere da più di un mese, e sono curiosa di vedere come sarà il lavoro finito; c) la signora di sopra sta preparando un dolce, sento ‘sto odore di burro che mi entra dalla finestra e boh quasi quasi ne faccio uno anche io, che tanto non c’ho una sega da fa’; d) s’è messo a piovere col sole, e c’è questo buon odore di asfalto bagnato che mi ricorda l’estate e le cene con gli amic… ma vaffanculo è ora di aprire del vino. Share Tweet Share... Read more...Perù e Bolivia (pt. 2), un articolo di G. Levantini || Threevial Pursuit17 Aprile 2020Perù e Bolivia Tra terra e cielo di Gabriele Levantini Ingresso a Puno (Photo by Gabriele Levantini, Perù, agosto 2019) Eccoci a Puno, sulle rive del Titikaka. È un freddo cane, ma l’atmosfera della città è caliente, con musica dal vivo e bande in tutto il centro. Il lago è gigantesco e suddiviso in modo non del tutto chiaro tra Perù e Bolivia, perciò le sue acque sono terra di nessuno, specialmente di notte. Per questo motivo, in questo angolo di mondo fare il contrabbandiere è un mestiere come un altro, come ci spiegano quasi con una punta di orgoglio. Facciamo amicizia con un gruppo di connazionali, che viaggeranno con noi il giorno seguente. La mattina presto ci imbarchiamo per l’isola di Taquile, dove risiede una comunità quechua che vive ancora secondo il costume tradizionale. L’isola ci appare come un sogno, un paradiso privo di auto e di quasi tutto ciò che noi chiamiamo – impropriamente – progresso. Dopo circa un’ora di cammino arriviamo in uno dei piccoli nuclei abitati, dove veniamo accolti con uno spettacolo organizzato per noi, con tanto di canzoncine multilingue e danze. Risulta un po’ falso, ma è il compromesso che questo popolo ha trovato per guadagnarsi da vivere con condizioni un po’ meno dure dei propri padri. Quechua a Taquile (Photo by Gabriele Levantini, Perù, agosto 2019) Nonostante questo, abbiamo comunque modo di conoscere la popolazione e le sue tradizioni, rimaste più o meno immutate dal XVI secolo. Qui la proprietà privata è limitata, il lavoro è condiviso e ogni domenica le famiglie si riuniscono e riferiscono agli Anziani tutto ciò che è successo durante la settimana. Questi ultimi vengono eletti ogni anno e hanno il dovere di mantenere i sentieri e decidere dove i nuovi sposi dovranno costruire la loro casa. I terreni vengono distribuiti tra tutti gli abitanti, in modo che siano sufficienti per il sostentamento delle famiglie. Prima di sposarsi è obbligatorio il sirwinakui, cioè la convivenza, ma non esiste il divorzio. Nel caso in cui una donna rimanga incinta durante il sirwinakui è necessario sposarsi, perché non sono ammessi figli al di fuori del matrimonio. Nessuno straniero può sposarsi con un locale e vivere a Taquile, a meno che non impari lingua e tradizioni quechua-taquilegne, compresa la tecnica della maglia a cinque ferri con la quale gli uomini intessono splendidi tessuti, e gli Anziani non diano quindi il loro consenso. Un’arte fondamentale per questo popolo, perché il vestiario è rigidamente codificato e trasmette diverse informazioni sulla posizione sociale di chi lo porta. Stare a Taquile è come fare un viaggio nel tempo, chi vive qui rinuncia a quasi tutto, eppure a giudicare dai grandi sorrisi e dalle facce rilassate che si vedono ovunque, questo popolo ha la più grande ricchezza: la felicità. I quechua conoscono la civiltà, ma scelgono di non farne parte, con grande orgoglio e consapevolezza. Visitiamo infine le isole galleggianti degli Uros, popolazione che nel corso dei secoli si è fusa con gli Aymara. L’origine di questo popolo e la loro abitudine di vivere su isole artificiali sono in parte misteriose, ma qui in realtà il progresso ha avuto la meglio. Oggi giorno le Islas Flotantes non sono quasi più abitate stabilmente perché, essendo realizzate completamente con una pianta lacustre chiamata totora, devono essere mantenute continuamente e sostituite dopo appena qualche anno. Isole galleggianti degli Uros (Photo by Gabriele Levantini, Perù/Bolivia, agosto 2019) Gli Uros oramai fanno base a Puno e trascorrono solo parte del tempo su queste zattere vegetali alla deriva. In effetti, visto il livello di vita davvero misera che possono condurre qui, non riesco a dargli torto. Anche se il trasferimento sulla terraferma ha migliorato la loro condizione, non se la passano comunque troppo bene e quando regaliamo una barretta di cioccolato a una ragazzina, leggiamo nei suoi occhi una genuina gratitudine. A fine giornata rientriamo alla base e ci prepariamo per un’ulteriore lunga traversata in autobus. Il giorno successivo comincerà la parte più dura del nostro viaggio: attraverseremo la frontiera boliviana e faremo rotta verso Uyuni, da dove esploreremo il deserto del Salar. Il pullman percorre una strada molto panoramica, che ci regala gradevoli scorci del Titikaka, fino a Tiquina de San Pablo dove attraverseremo un piccolo ramo del lago. Scendiamo e ci fanno salire su un barcone molto simile a quelli con cui i disperati arrivano a Lampedusa. Nel frattempo caricano l’autobus su una grossa chiatta che si inclina e ondeggia spaventosamente, facendoci preoccupare non poco per la sorte dei nostri bagagli. Poco dopo arriviamo a Kasani dove c’è la frontiera col paraìso socialista del compañero presidente Morales, rappresentata da un arco lungo la strada. Dobbiamo scendere e farci fare due timbri, uno prima e uno dopo l’arco, perché la frontiera è teoricamente chiusa, anche se il gigantesco e chiassoso mercato internazionale che si svolge proprio sul confine non sembra preoccuparsene molto. Il pullman ci lascia a Copacabana, pittoresco villaggio dove mangiamo in un locale che assomiglia alle cantine messicane dei film, con tanto di mosche che ti si posano sul collo sudato, e capiamo immediatamente la differenza tra il Secondo Mondo del Perù e il Terzo Mondo della Bolivia. Se è vero che le riforme socialiste del presidente hanno migliorato la condizione delle classi più vulnerabili, bisogna anche ammettere che la strada dello sviluppo è ancora lunga per questo paese. Il Salar dall’Isola Incahuasi (Photo by Gabriele Levantini, Bolivia, agosto 2019) Il nostro viaggio continua per La Paz, città immensa e poverissima che si può descrivere in un solo modo: un vero casino. Non ha un centro vero e proprio, ma alcune zone di interesse storico sparpagliate in un mare di strade poverissime, che la sera diventano abbastanza pericolose. I murales patriottici che inneggiano al pueblo e al socialismo un po’ dappertutto non bastano a mantenere alto il morale della gente. Qui l’aria è meno festosa che in Perù. Nascondiamo le reflex e facciamo un buon giro in attesa dell’autobus notturno che ci porterà a Uyuni. Cerchiamo di riposare perché il deserto, con le sue escursioni termiche da +20 °C a -7°C sarà molto duro da affrontare in alloggi rurali basici. Arriviamo all’alba e lo spettacolo del sole che sorge al limitare del Salar ci ripaga delle molte ore di viaggio su strade disconnesse e avvolte da un buio difficilmente reperibile in Italia. Il villaggio di Uyuni sembra uscito da un film western, ma al posto dei cow-boys ci sono donne cholitas con grandi gonne polleras e bombette sulla testa. Esploriamo il villaggio in pochi minuti incappando nella dura opposizione alle fotografie dei commercianti che vendono feti essiccati di lama e altri oggetti rituali per chi segue la religione inca. Evito le foto e le botte che ne conseguirebbero e andiamo all’agenzia turistica dove ingaggeremo una guida. Alloggio rurale basico nel deserto (Photo by Gabriele Levantini, Bolivia, agosto 2019) In Bolivia, vizi borghesi come la fretta o la puntualità sono poco diffusi. Ne approfittiamo per scegliere cosa portare con noi nel deserto e lasciare il resto dei bagagli e poi ci mettiamo comodi su un vecchio divano nella sala d’attesa che sembra una comune hippie. Un tizio cucina qualcosa, altri dormono, qualcuno legge, c’è chi studia mappe, un ragazzo con la faccia sofferente scappa di corsa in bagno dove resterà a lungo. Noi invece facciamo nuove amicizie. Dopo un po’ di tempo e qualche mate, arrivano finalmente le guide e cominciano a dividerci: noi saremo guidati da Xavier, un tipo tutto matto che contribuirà a rendere il nostro viaggio un capolavoro, e divideremo il fuoristrada con due italiani e due spagnoli girovaghi che recupereremo a Colchani, ultimo avamposto dopo il villaggio, che i due hanno raggiunto autonomamente. Sarebbe troppo lungo raccontare per filo e per segno cosa abbiamo vissuto nei tre giorni trascorsi nel deserto, ma posso semplicemente dire che è stata una di quelle esperienze che cambiano la vita. Immaginate di attraversare prima un luogo perfettamente piatto e bianco, talmente irreale da farvi perdere il senso dell’orientamento, da rendere il mondo bidimensionale, e di essere sospesi proprio lì nel mezzo. E come un miraggio, in questa distesa, compare un’isola che sembra volare sull’orizzonte. È completamente ricoperta di cactus millenari, grandi come querce. Se riuscite, immaginate cosa può essere un tramonto in un posto simile. Provate a pensare di dormire nel silenzio più assoluto che riuscite a concepire, sotto una via lattea tanto vicina da poterla toccare. Oltre a essere maestoso, il deserto è anche ostile. È un luogo per le rocce e per le bestie e per affrontarlo gli esseri umani devono rendersi più simili a loro. Ci spogliamo d’ogni aggiunta mentale e, così facendo, ci sentiamo liberi e questa libertà ci dà un senso di vertigine e di felicità profonda. Non c’è riscaldamento per resistere sotto zero, ma solo coperte di alpaca che muovendoti nel buio producono scintille elettrostatiche, così tanti strati di coperte che ti sembra di essere sepolto. Di giorno è veramente caldo, ma di notte nel rifugio è talmente freddo che fa male anche togliersi i vestiti polverosi e infilare la calzamaglia. Prima di dormire devi spruzzarti addosso molto repellente extra-forte, per evitare che dal tetto in paglia e da terra arrivino le triatomine (chinche) a pungerti e farti ammalare. Tutto sembra dire all’uomo che qui non comanda lui. In questa cattedrale della natura, ci sentiamo in contatto con qualcosa di superiore e più elevato. Ci sentiamo finalmente vivi. Laguna Colorada (Photo by Gabriele Levantini, Bolivia, agosto 2019) Immaginate il paesaggio che muta ancora: distese surreali di rocce, mari di pietre vulcaniche, oceani di dune di sabbia morbida, monumenti creati dal vento e infine incredibili lagune di tutti i colori. I padroni di queste terre sono i fenicotteri, le volpi, le vizcachas. Pensate alle piste che si inerpicano pericolosamente tra le rocce, sui vulcani, sui monti, sempre più in alto fino al Paso del Inca e poi di nuovo giù, verso altre valli e campi geotermici. La follia di bagno all’alba in una pozza termale, mentre il ghiaccio copre ancora il terreno. La degna conclusione di questa avventura è la deviazione suggerita dalla guida per chiudere il viaggio: la Laguna Negra o Laguna Misteriosa, dove il deserto cede il posto a prati di muschio popolati da lama e da puma. Quando rientriamo, anche il villaggio ci sembra una metropoli. Siamo sfiniti e felici d’una felicità genuina. Xavier ripartirà la mattina dopo per rifare daccapo quel giro massacrante di centinaia di chilometri, su un fuoristrada scassato, in cui entra la polvere. Lancerà foglie di coca dal finestrino ogni volta che passerà nel luogo dove morì il suo collega, sperando di non essere il prossimo, pregherà quel Gesù la cui gigantografia campeggia sulla sua auto, e si raccomanderà a Pachamama. La sua è una vita molto difficile, ma i figli devono mangiare e i soldi sono davvero pochi. Eppure divide con noi la sua carne di lama e le sue foglie di coca. Con noi, ricchi europei in vacanza. Porto ancora sulla gamba destra un piccolo segno che mi ha lasciato il deserto: il morso di una volpe attraverso i pantaloni imbottiti. Guardo quella cicatrice ormai quasi completamente sbiadita – che mi costò non poche iniezioni al mio rientro in Italia – e ripenso a quei giorni così intensi. Mi ricorda che siamo piccole creature in questa meraviglia di mondo nel quale non riusciamo a trovare un equilibrio, sospesi tra la terra e il cielo. La volpe andina che mi morderà, Bolivia, agosto 2019 Laguna Negra (Photo by Gabriele Levantini, Bolivia, agosto 2019) Isola di Taquile, Perù, agosto 2019Capo Uros-Aymara, Perù, agosto 2019 Photos by Gabriele Levantini Share Tweet Share... Read more...Perù e Bolivia (pt. 1), un articolo di G. Levantini || Threevial Pursuit15 Aprile 2020Perù e Bolivia Tra terra e cielo di Gabriele Levantini La vetta del Monte Vinicunca (Photo by Gabriele Levantini, Perù, agosto 2019) È un’ora indefinita della notte quando arriviamo a Lima, in Perù. Siamo stravolti da una lunga via crucis di voli charter, cambi e scali e ci concediamo qualche ora di sonno nell’albergo dell’aeroporto prima del prossimo volo per Cuzco, la mattina dopo. L’aereo scende senza fretta su una pista piuttosto essenziale, che si distende in una conca racchiusa tra montagne completamente ricoperte di case senza intonaco. Siamo finalmente arrivati. Attraversiamo le favelas dell’antica capitale inca, adagiata a tremila metri di altitudine come un guanto sulle montagne. Il nostro albergo si trova nel vivace quartiere San Blas, uno dei punti più alti del centro storico, patrimonio Unesco ricco di localini accoglienti e di ripidi e strettissimi vicoli in gran parte pericolosamente carrabili. L’ambiente ci fa subito sentire a nostro agio, ma i nostri corpi mediterranei ci fanno capire che quest’improvvisa altitudine non è di loro gradimento. Nessun problema: generose dosi di mate de coca fumante ci proteggeranno dal mal di montagna (soroche) per tutto il viaggio. Se ve lo state chiedendo: no, non dà la botta. È più o meno come un energy drink, ma dal gusto erbaceo da veri indios. Purtroppo il suo sapore rimane sconosciuto alla maggior parte degli europei, perché l’importazione di queste foglie è proibita indipendentemente dalla quantità. Una scelta davvero poco sensata, visto che la concentrazione di cocaina nella pianta è infinitesimale, non in grado di superare la barriera ematoencefalica umana. Quindi, a meno che non siate dei narcos e non disponiate di tonnellate di foglie e di basi nascoste nella foresta pluviale dove poterle lavorare, con tanto di peónes, operai, reagenti chimici ed energumeni armati, non potreste mai e poi mai ricavarvi una raglia di bamba da questo innocuo prodotto. Mercato di San Pedro a Cuzco (Photo by Gabriele Levantini, Perù, agosto 2019) Il mate è solo uno degli innumerevoli aspetti della cultura andina, e Cuzco costituisce un ottimo punto di partenza per scoprirli. Qui infatti la sovrapposizione tra il passato precolombiano e l’eredità spagnola è fisicamente visibile nei monumenti, oltre che nelle usanze. In questi luoghi i conquistadores, nonostante il feroce genocidio di cui si macchiarono, non riuscirono a cancellare del tutto la tradizione preesistente e, ancora oggi, le stesse persone che fanno l’Ofrenda alla dea Madre Terra Pachamama vanno pure a messa la domenica. Accompagnati da un costante fiatone che ci darà tregua solo dopo qualche giorno, esploriamo la città: dai suoi coloratissimi mercati per stomaci forti alle sue chiese in barocco andino, passando per le innumerevoli testimonianze precolombiane. Proviamo anche la carne di alpaca e io, sotto lo sguardo disgustato della mia compagna, anche il mitico cuy, la cavia peruviana arrosto che nella cattedrale di Cuzco fa bella mostra di sé nell’affresco dell’Ultima Cena. Infine facciamo anche una doverosa foto alla Pietra dei Dodici Angoli, che fa tanto I Diari della Motocicletta. Come in tutte le città peruviane, a Cuzco nonostante la povertà si respira un’aria di allegria e ottimismo che ci contagia subito. La seconda tappa del nostro viaggio è la Valle Sacra, che per l’Impero Inca fu una specie di produttiva Pianura Padana, però sacra. La esploriamo in auto con una guida che ci fa anche da autista e che nel frattempo ci racconta la sua vita. Dividiamo il viaggio con delle ragazze italiane che staranno con noi per qualche giorno. È bello conoscere nuova gente quando si fanno viaggi di questo tipo, perché qua nessuno si porta dietro etichette e sovrastrutture, e così avvocatesse di Roma e cassiere di Milano diventano semplicemente viaggiatrici, alla ricerca delle stesse cose che cerchiamo noi e il resto dell’umanità, da sempre. I racconti della guida, sulla sua vita non proprio facile, ci colpiscono molto e ci mostrano il vero volto di questo popolo: sempre sorridente nonostante tutto. Nel paesaggio dolce della valle, amplissimi campi coltivati sono raramente interrotti da minuscoli villaggi con case di fango (casa de adobe) senza pavimentazione, dalle cui porte spalancate si intravedono galline e bambini. Grandi slogan elettorali e i simboli politici, che generalmente contengono figure di Inca arrabbiati, sono dipinti direttamente sui muri delle case. Contadine nella Valle Sacra (Photo by Gabriele Levantini, Perù, agosto 2019) Quello che colpisce è la mancanza di qualsiasi genere di servizio di cui questa gente possa godere: oltre alle case, si vedono solo pochi microscopici empori o bettole che servono da bere all’aperto. Nei luoghi in cui la fermata dei turisti è più probabile ci sono anticuchadas improvvisati per la strada – non importa quanti vaccini abbiate fatto in vita vostra, non mangiate mai a questi banchetti! – e bagni pubblici che ancora oggi compaiono negli incubi della mia compagna, ma che più tardi, in Bolivia, ci sembreranno lussuosi. È triste pensare che questi contadini resteranno rinchiusi nei loro tuguri a non far niente per tutta la stagione delle piogge, tra qualche mese. Solo i cani randagi che si aggirano come scheletri per le strade saranno più sfortunati. I siti archeologici che visitiamo lungo il percorso sono di una bellezza irreale e ci parlano di una cultura aliena rispetto alla nostra. Ogni rovina ci narra la storia di questo popolo incredibile e di come i nostri avi lo massacrarono. La guida ci lascia infine a Ollantaytambo, delizioso villaggio nato intorno a una maestosa fortezza costruita dal re Pachacutec. Da qui, mentre il severo volto di roccia del dio Wiracochan ci controlla dalla montagna, facciamo la pittoresca esperienza di prendere un tuk-tuk o mototaxi che ci accompagnerà a prendere il treno della linea turistica per Aguas Calientes, campo base di Machu Picchu. Dal treno vediamo la valle diventare via via una gola mentre la ferrovia corre lungo il letto del Rio Urubamba, appoggiato al fianco della secca Cordillera. Grandi avvoltoi volteggiano in cielo. Mentre avanziamo a nord-est, lentamente il paesaggio muta e ciò che prima era arido si fa di un verde sempre più intenso. La vegetazione lentamente conquista la sierra spingendosi più in alto, in un climax che termina ad Aguas Calientes, immersa in una rigogliosa giungla di montagna. Il treno si ferma letteralmente sulle porte degli alberghi e noi scendiamo godendoci l’aria fredda e umida dell’imbrunire. Il villaggio è una piccola babele piena di vita, circondata da ripidi picchi seminascosti dalla foschia. Qua gringos e locali fanno fiesta fino a notte fonda e l’atmosfera gioiosa spingerebbe a trattenersi di più in quest’angolo di mondo perduto tra le Ande. Anche noi facciamo fiesta tra messicani ubriachi e giovani francesi, ma ci ritiriamo presto perché il sito archeologico è immenso e vogliamo arrivare il prima possibile. La mattina prendiamo il primo pullman, largo più o meno come la strada che dovrà percorrere, e dopo quaranta minuti di ripidi tornanti, affrontati con assoluto sprezzo della vita, siamo davanti all’ingresso del parco. Sono circa le 6 del mattino e sta albeggiando, quando ringraziamo tutti gli dèi di essere ancora vivi e varchiamo i cancelli. Abbiamo appuntamento con una guida del sito archeologico tra circa quattro ore, perciò decidiamo di fare due brevi trekking verso due miradores immersi nella fitta giungla di montagna che circonda il sito, per poter avere una visione d’insieme della città sacra. Machu Picchu (Photo by Gabriele Levantini, Perù, agosto 2019) Saliamo su sentieri oppressi dalla vegetazione, mentre i versi dei pappagalli ci accompagnano. Le piante crescono letteralmente una sopra l’altra, in qualunque direzione: spuntano dal suolo, si arrampicano sui tronchi, scendendo dalle chiome degli alberi, con forme e colori di una forza straordinaria. La bellezza di questo paesaggio, completamente diverso da quelli visti finora, ci colpisce al cuore. Uno dei due percorsi conduce a Intipunku, la Puerta del Sol, dalla quale condividiamo la stessa veduta degli antichi pellegrini Inca: in basso, in lontananza, la città sacra a forma di condor è adagiata sulla vetta della montagna. Tutt’intorno ripidissime e inaccessibili montagne che un tempo furono Apu, dèi. Di solito, le cose troppo decantate alla fine deludono, ma non in questo caso. Posso dire che chi parla di questo luogo come dell’ottava meraviglia del mondo antico non pecca d’esagerazione. Alla fine di questa esperienza ci sentiamo come se fossimo saliti verso il cielo, ma dobbiamo andare ancora più in alto. Così, salutiamo le nostre temporanee compagne di viaggio e facciamo nuovamente rotta verso Cuzco. La meta successiva sarà il monte Vinicunca, o Montaña de Siete Colores (5.200 metri), che noi scaleremo. Quechua al campo base del Vinicunca (Photo by Gabriele Levantini, Perù, agosto 2019) Il percorso che seguiremo noi consiste in un dislivello di circa mille metri e si compone di tratti pianeggianti e lievi salite, prima dell’attacco finale, molto ripido. Alle nostre latitudini si tratterebbe di una cosa ragionevole, ma così in alto effettivamente è un po’ una follia. Nonostante questo, decidiamo di unirci a uno dei gruppi che alle tre e mezza di notte partono per essere al campo base alle prime luci dell’alba, accompagnati da una guida quechua. Questa popolazione nativa, dispersa su tutta la Cordillera, è ciò che resta del grande impero Inca. Quando scendiamo dal pulmino, i loro volti scuri e rugosi senza età osservano noi e gli altri turisti, offrendoci il noleggio di un cavallo fino all’attacco della salita. Non so chi sia più magro, se loro o quelle povere bestie. Rifiutiamo l’offerta e cominciamo a salire. In questi casi, è molto importante mantenere un passo lento e costante, restare concentrati ed evitare di mangiare e di bere. Le foglie di coca che stiamo masticando hanno un gusto orribile, ma sono necessarie quanto gli incoraggiamenti della nostra guida che, diversamente da noi, sembra un’allegra capretta di montagna che saltella qua e là. Buon per lui. Il paesaggio è completamente desertico, ad eccezione di piccole piante secche che spuntano dal terreno roccioso con non so che coraggio. Il paesaggio è solenne: tutt’intorno da vette altissime ci osservano ghiacciai che brillano nell’alba, ai bordi del sentiero piccoli cumuli di pietre, detti apachetas, chiedono a Pachamama protezione lungo la strada. La guida ci mette sulle mani un po’ di agua de florida e ci dice di respirarne a fondo l’aroma. Si tratta essenzialmente di un profumo, del tutto simile a quello che ci spruzziamo addosso noi prima di uscire di casa, ma per loro è un’acqua sciamanica nelle cui presunte proprietà ripongono grandi aspettative. Fatto sta che effettivamente sembra aiutarci un poco contro il mal de altura. Dopo un po’ alcuni dei nostri compagni stanno male e sono costretti a fermarsi, e poco prima dell’arrivo comincia ad avere malessere anche la mia compagna. Con una forza di volontà straordinaria e grandi sniffate di agua de florida, riesce comunque a completare il percorso, compresa la devastante salita finale, fino alla vetta. Una volta in cima si ha una visione iconica dell’incredibile cresta arcobaleno di questa montagna e all’orizzonte la Valle Rossa, Palcoyo. Ci sembra veramente di essere arrivati alla casa degli dèi e la nausea che ho pagato dopo è un prezzo ragionevole per una simile meraviglia. È tempo di ritornare sulla terra e incontrare i veri figli di quegli dèi che abitano le montagne. Ripartiamo per incontrare una comunità Quechua e una Uros-Aymara. Ci aspetta un viaggio in pullman della durata di un giorno, composto da varie tappe, che ci porterà fino alla città di Puno, sul Lago Titikaka. Miniere di sale di Maras, Perù, agosto 2019 Valle Sacra, Perù, agosto 2019Mate de coca in bustine, Perù, agosto 2019 Photos by Gabriele Levantini Share Tweet Share... Read more...QuaranThreevial N°2: Utopica Vecchiaia. Un articolo di R. Dell’Ali13 Aprile 2020QuaranThreevial N°2: Utopica Vecchiaia di Roberta Dell’Ali Vecchiaia di Chimù Quando avevo circa dieci anni volevo fare la giornalista. La maestra Maria Concetta assecondava quelle mie innocenti velleità e un giorno, dopo averci spiegato l’ascesa del fascismo nei termini più adatti per dei bimbi di quinta elementare, mi assegnò la stesura di un articolo. Fu in quell’occasione che feci la mia prima intervista. «Ciao nonna! Senti, ma tu te lo ricordi Mussolini?» Nonna Enza era una signora molto composta e di poche parole, esprimeva quasi tutti i suoi sentimenti tramite la preparazione di succulente pietanze e aveva un enorme quantitativo di rosari e libricini di preghiera stipati in un angolo della cucina. «Sì, me lo ricordo». Lei si sforzava sempre di parlarmi in italiano. «E com’era?» «Era piccolo piccolo e passava sempre sul ferry boat» – nonna Enza aveva questa cosa strana, una volta ogni tanto usava parole inglesi tipo “ferry boat”. Credo fosse un residuo della sua vita da immigrata negli U.S. – «mi ricordo che quando eravamo bambine avevamo tutte una tunichetta nera, come il tuo grembiulino di scuola, annonna, e un fiocco grosso al collo. A volte ci mettevamo tutti in fila al lungomare di Ortigia e aspettavamo che il duce passasse sul ferry boat per il saluto». Mi capita spesso di immaginarmi da vecchia. Vestiti scuri, uno chignon bianchissimo e la pelle raggrumata attorno agli occhi. La vecchiaia è l’unico momento della mia vita futura per il quale so immaginare un luogo e un modo. Sono convinta che la passerò a casa mia, in Sicilia, dove trascorrerò le sere d’estate seduta su una sedia che piazzerò davanti alla porta di casa. Saremo io, Rebecca, Federica, Claudio e Leo, ci ritroveremo ricurvi e stanchi a parlare dei nostri nipoti e a lamentarci dei nostri acciacchi. Berremo vino e mangeremo dolci di nascosto ai nostri figli, ormai adulti. Mia nipote sarà una bimba sveglia e, mi auguro, estremamente curiosa. Le racconterò tutto, non farò censure, forse a volte indorerò la pillola. Instaurerò un sincero rapporto di confidenza e quando mi chiederà degli anni venti le dirò che mi sentivo semplicemente impotente. «Nonna! Ti ricordi il Covid-19?» mi dirà un pomeriggio mentre sceglie la caramella dal cassetto aperto della credenza in salotto. «Sì, me lo ricordo» risponderò, prendendo una caramella Mou anche per me. «E com’è andata, nonna? Oggi la maestra ha detto che eravate tutti chiusi a casa. È vero?» «Sì e no, annonna. Stava a casa chi la casa ce l’aveva». Mia nipote mi guarderà interrogativa, non capirà il senso delle mie parole e scartando la seconda caramella mi chiederà che cosa intenda dire con “chi la casa ce l’aveva”. Mi soffermerò un attimo e sarò felice che mia nipote non capisca le mie parole, ma per amor dell’onestà e del senso storico le spiegherò la mia affermazione. «Vedi gioia mia, prima, quando la nonna era giovane, il mondo non era così come lo vedi tu adesso». Forse dicendo queste parole avrò nostalgia del fiore della gioventù, ma farò finta di niente e continuerò la mia risposta: «Il diritto non era equo e inviolabile per chiunque come oggi. Molta gente viveva in condizioni disumane, fuggendo dalla guerra e vedendosi rifiutata la possibilità di una vita degna». Cercherò di non scendere nel particolare per non urtare la sensibilità di una bambina che non ha idea di come potesse essere l’umanità nel 2020. Nella mia testa un po’ svagata, però, riemergerà tutto. Risalirà vivida la faccia di Gianni, il barbone mio amico che ai mercatini di Natale in via S. Giuseppe mi regalava due anelli sottili di ottone. Penserò al mio rientro a Bologna alla fine della quarantena e al momento in cui l’ho rivisto e l’ho trovato vivo e ci siamo abbracciati, anche se Gianni nel mentre aveva perso tutto e tutti e non era più lo stesso. Ricorderò anche Sevi, una ragazza di Lesbo che avrò smesso di sentire da molti anni, e mi tornerà in mente quella volta che nel marzo 2020 – quando ancora esisteva Messenger – lei mi scriveva: «Except from the fact that ten days ago the fascists burned down a school which was operating in One Happy Family facilities – in a very symbolic move that hit all of us – in the last days we are talking just about Corona, so all the conversations about refugees are frozen». Ripenserò a quel periodo in cui era solo delirio nel mondo e, con un po’ di onestà, la reclusione a casa era la miglior condizione di grazia. Mi si bagneranno gli occhi, ma sarò veloce ad asciugarli perché non vorrò far vedere a mia nipote che piango, anche se forse dovrei fare proprio il contrario. «Non capisco, nonna Roberta». Mia nipote ignara della bruttura del passato, continuerà a guardarmi dubbiosa e a ciucciare la sua caramella alla fragola, aspettando che io le risponda qualcosa. Cercherò di spiegarle la complessità che il 2020 ha racchiuso e le dirò che la democrazia spietata di quel virus ha concesso alle persone di riscattarsi. Le dirò che in quel momento l’idea di comunità si è imposta come unica reale alternativa e che per la prima volta, dopo millenni di deprecabili reiterazioni storiche, l’umanità ha compiuto un passo avanti decisivo. Racconterò a mia nipote di come all’improvviso le persone abbiano smesso di giudicarsi a vicenda e di come ognuno si sia assunto le proprie responsabilità, senza additare l’altro in quanto untore o problema sociale. Andrò a ripescare perle nella mia memoria stanca e le citerò Sofocle: «Perciò nessuno che sia ospite, come ora sei tu, manderei via senza aiutarlo; perché so bene che sono un uomo, e che del domani nulla è in potere mio più che tuo». Le spiegherò che l’umanità è stata lenta, ma che alla fine s’è lasciata illuminare. Share Tweet Share... Read more...Il reale nelle Microfictions, un articolo di R. Cannarsa || Threevial Pursuit8 Aprile 2020Il reale nelle Microfictions di Rocco Cannarsa “ Considerato da critici e lettori una delle opere più importanti e influenti degli ultimi anni, tradotto in dodici lingue, pubblicato in Francia da Gallimard nel 2018, Microfictions è un’«opera-monstre», uno di quei libri che diventano imprescindibili, dei quali «si deve» parlare e che soprattutto «si deve» leggere, un’impresa letteraria e editoriale quasi folle che testimonia – se ancora ce ne fosse bisogno – come Régis Jauffret, forse ancor più dei grandissimi Emmanuel Carrère e Michel Houellebecq, sia ormai diventato «l’autore», che dalla Francia racconta al mondo i lati meno apparenti, meno accettabili, meno morali, quindi più veri dell’essere umano”. (Sinossi dell’edizione italiana di Microfictions) Mentre proponevo al Biagio la recensione di Microfictions di Régis Jauffret, e proprio mentre il pensiero stava divenendo parola, già me ne ero pentito. Immaginavo che la reazione provocata sarebbe stata di stupore, curiosità e, di conseguenza, entusiasmo. Tralasciando le altre proposte, di fatto, ha accettato al volo. Mea culpa, mi ritrovo a parlare di un libro lungo, triste e, per giunta, ostico. “Avviso ai lettori: maneggiate con prudenza, questo libro è materiale semplicemente incendiario”, recita la scritta rosso sangue che spicca dal candore bianco della copertina. Edito in Italia da Edizioni Clichy, che ci regala le meravigliose parole di apertura, questo libro è un’antologia di racconti che si maschera da romanzo o viceversa. Quando ne lessi qualche pagina al mio amico Marco, già in videochiamata seppur ancora non fossimo in tempo di quarantena, «è un pugno in un occhio» mi disse. Ci prese al volo. Questo libro è un pugno in un occhio, ma un pugno da ko. Mille pagine, cinquecento racconti. Un colosso, un “mattone”. Non li ho letti tutti, sono sincero. È un libro la cui lettura procura dolore, e il mio sempre più lieve desiderio di autolesionismo mentale viene abbondantemente sfamato da poche pagine giornaliere. Questa non sarà una recensione, se lo fosse lascerebbe a desiderare, né un (non)-consiglio di lettura. È una riflessione su ciò che definiamo poetico. Se intendiamo questo termine come ciò “che è ricco di suggestione, di fascino” potremo dire che questo è un libro poetico. “Sono scappato in macchina. Mi sono fermato senza benzina in una periferia in costruzione. Accanto ai cantieri c’è un hotel bianco come un transatlantico, la cui cima si perde nel cielo sporco. Sono corso a chiedere alla reception una camera sopra le nuvole per buttarmi fuori bordo come un secchio di vergogna”. (tratto da Candy Crush Saga, Microfictions) L’interrogativo nasce quando accostiamo alla materia trattata nel libro lo stesso termine nell’accezione di “necessario al poeta, in quanto costituisce occasione di poesia”. Perché Jauffret racconta il dolore, racconta l’amarezza, i segreti, le perversioni, le eccitazioni, la voglia di fare del male, la debolezza-forza di non sopportarsi più. Dal punto di vista estetico le immagini crude che Microfictions ci getta in faccia assicurano l’efficacia artistica che ne garantisce l’elemento poetico. Se vi aggiungiamo la nitidezza magistrale dal talento letterario di Jauffret siamo costretti a subirne amplificato il forte impatto emotivo. “I bambini hanno riso. Anche se la loro madre è colpevole, non sopporto che le manchino di rispetto. Li ho spediti a finire la cena in giardino. «Siete fortunati, ormai c’è solo neve sciolta». Sono abituati ai maltrattamenti, la prospettiva di fare un pic-nic di notte non li ha colpiti più che vedere un paio di ceffoni pronti a colpirli in faccia. Mi sono dimenticato di loro e mia moglie che non ha né visto né sentito credeva fossero a letto. Li ha ritrovati la mattina, stipati nel capanno degli attrezzi. «In stato di ipotermia»”. (tratto da Jean-Jacques Rousseau, Microfictions). E a questo punto viene da chiedersi: quanto l’esasperazione del tormento facilita l’empatia? Quanto più semplice diventa colpire il lettore? È un non-dilemma: è più facile creare pathos col dolore. La tensione, che ci fa vibrare, stridere, quelle corde sempre tese della nostra debolezza del tutto umana, e che fa portare i più coraggiosi alle lacrime. E la colpa è del metaforico masochismo che caratterizza quelle anime poetiche con l’attenzione perennemente destata verso il fuori, verso la vita, e con una spinta immaginativa forte quanto basta per trovare della bellezza anche nella sofferenza (letteraria, ovviamente). La scrittura? Il tono, il ritmo, lo stile? Che cosa dire… ti inghiotte, mangia, sbrana, e tu la preghi di fermarsi, finché davanti al suo reiterato rifiuto chiudi con decisione il libro, ritornando nella realtà del mondo, sperando, con tutta la forza che hai dentro, che non abbia nulla a che vedere con ciò che hai appena letto. Non sarei d’accordo con l’editore, che ne parla come: “ uno di quei libri che diventano imprescindibili, dei quali «si deve» parlare e che soprattutto «si deve» leggere” eppure eccomi qui a parlarne, perché è un’opera che non può passare inosservata, e non solo per le dimensioni. “Dopo che me ne ero andato mia moglie e Léon erano tornati in salotto. La madre aveva asciugato gli occhi del figlio promettendogli uomini, donne, animali fantastici, fiori prodigiosi, una stella che lui avrebbe tenuto come un palloncino con un filo lungo cento milioni di anni luce per mostrare a quel contabile in quali boschi si riscaldano i Léon. «Aveva rallentato il pianto, sembrava che le credesse». Lo aveva lasciato solo giusto il tempo di fare una doccia perché lui l’aveva innaffiata delle sue lacrime dalla testa ai piedi. Lui aveva scelto l’attimo in cui lei usciva fresca e profumata dal bagno per prenderla per le gambe, portarla in terrazza e saltare la balaustra come fosse una siepe. Lei si era gettata nel vuoto dietro di lui come se avesse scambiato l’aria con l’acqua e si fosse immaginata di poterlo salvare dall’annegamento”. (tratto da Canto Tibetano dei morti, Microfictions) Il progetto di Microfictions è francese per eccellenza, la “Commedia umana” del nuovo millennio. Tutto, o almeno gran parte, di quello che è lo struggente della quotidianità, ecco cos’è questo libro. Su Jauffret Le Magazine Littéraire scrive: «Lo sapevamo già, ma adesso è ufficiale: questo è il più grande scrittore vivente». Potrebbero avere ragione, ma c’è una parte di me che crede che trattare la vita a senso unico, trovandone letterarietà solo nel male, nel 2020 non sia abbastanza, potrebbe, anzi, iniziare ad essere definito “un vincere facile”. O forse, al contrario, è un lavoro lodevole, ché rintanati nelle nostre finte certezze, necessitiamo di chi guardi con occhio empatico ma critico, il male che, latente, tacito, boccheggiante eppure vivo, ci circonda. Share Tweet Share... Read more...QuaranThreevial N° 1: le 5 fasi della quarantena || Threevial Pursuit1 Aprile 2020QuaranThreevial N° 1 Le 5 fasi della quarantena di Three Faces Quarantena di Bladi Eccoci di nuovo qua, a vedere l’ennesimo buon proposito andare letteralmente a puttane. Sì, perché in realtà io questa cosa non la volevo fare. Io volevo farvi un pesce d’aprile. Sì, volevo farvi lo scherzone del secolo, ma il resto della redazione mi ha fatto giustamente notare che qualsiasi idea potessimo partorire, anche la più geniale e folle, non sarebbe stata niente a confronto della situazione assurda che stiamo vivendo, a meno che il pesce d’aprile non fosse legato proprio all’ormai tristemente noto Covid-19. E lì chiaramente ci siamo fermati, perché il rischio era quello di camminare sulle uova con un elefante sulle spalle. In quel momento ho capito che tutti i nostri peggiori incubi si stavano per avverare, che ormai era inevitabile: avremmo finito per fare un THREEvial sulla quarantena. Praticamente un QuaranThreevial. Certo non potevamo immaginare che questo sarebbe stato solo l’inizio. Già, perché pare che ce ne saranno altri. Quando? Non si sa. Su cosa? Non si sa. Perché? Non si sa. Ci sembrava insomma un buon modo di presentarli. Detto questo, vi assicuriamo che non vogliamo finire come tutti quelli che con la scusa di sentirsi solidali con il resto della comunità (falsi come una banconota da seimila lire) ci stanno sminuzzando le gonadi con le loro dirette/letture/concerti/tutorial/allenamenti/sketchcomici/opinionidacircolo/misonorottogiàicoglionimanonilcazzolepalleesonosoloametàlista, che poi in realtà l’unico motivo per cui c’hanno tutti ‘sto gran spirito di solidarietà è per pigliarsi ‘na manciata di mi piace in più di quelli che si sarebbero presi normalmente, pensando di inventarsi chissà che contenuto geniale. No, noi lo facciamo principalmente perché, avendo la fortuna d’averci un tetto sulla testa e non averci una cippa da fare segregati in casa mentre aspettiamo la disoccupazione, in qualche modo il tempo lo dobbiamo pure passare. Visto che noi siamo scrittori e scrittrici, in questo periodo di quarantena scriviamo, e poiché alcuni di noi stanno producendo come conigli in calore, il rischio è che tutto questo materiale si perda, quindi abbiamo dovuto trovare una soluzione. E che dovemo fa’… Per questo come introduzione, abbiamo deciso di redigere una sorta di Prontuario dello Scrittore in Quarantena, un vademecum per essere più chiari o, come dire, un compendio… oddio, insomma, ‘na cazzo di guida, ecco. Il motivo di questa scelta è molto semplice. Ci siamo resi conto infatti, sperimentandolo in prima persona, che in una situazione del genere lo scrittore deve obbligatoriamente affrontare delle fasi dalle quali potrebbe non uscire sano di mente. Noi vogliamo mettervi in guardia nel caso in questo periodo vi fosse venuta l’originale idea di diventare scrittori. E per fare questo, scoprirete che ci siamo avvalsi non solo di esperienze personali, ma anche di studi illustri e affidabili. Iniziamo dalla temibilissima Fase 1, ovvero superare la paura della pagina bianca, che per comodità chiameremo Sindrome di Cannarsa (Rocco per gli amici) e che ci viene sintetizzata in questo breve passaggio, tratto da un saggio di un giovane anonimo trovato su un sito a caso di cui manco ricordo il nome. Ma non perdiamoci in chiacchiere inutili. Il passaggio più o meno era così. “Ci ho messo mezza giornata per scrivere questa riga. Sono in quarantena da venti giorni e il tempo mi sembra volare ora che me ne sento padrone. Mi sveglio ogni mattina con le idee ben chiare sulla piacevole produttività incarnata dalla giornata imminente. Farò tante cose, troppe cose. Dio che giornata! E contemplo, bonario, il mio accanimento. È vero, ve lo assicuro, chi troppo vuole nulla stringe. Comprendo la mia schiavitù a un tempo che si nutre delle mie ambizioni, dei tentennamenti, delle indecisioni, inghiotte tutto il fottuto giorno, e mi lascia solo la noia. Oggi in mezza giornata, ho scritto questa riga”. Esticazzi, aggiungerei pure. Pare il monologo finale di Carlito’s Way. Ad ogni modo, passata l’ansiogena Fase 1, solitamente lo scrittore entra nella Fase 2, detta più comunemente Prima regola del termofancazzismo di Tio, che recita: “niente si crea, niente si distrugge, ma te datti pace”. Come sia arrivata una tale intuizione nella testa di questo luminare della fisica sociologica, ce lo spiega lo stesso dott. Niccolò D’Innocenti nel suo saggio Prendiamoci del tempo, che potete acquistare sulle nostre piattaforme online attraverso una modica donazione di euro 99,99 (Cairo a noi ci fa una pippa). “Devo essere sincero. Io di questa quarantena non è che mi posso troppo lamentare, soprattutto se faccio finta che nessuno là fuori stia morendo o soffrendo. Alla fine mi sono sempre lamentato di non avere tempo per dormire, di non avere tempo per leggere, di non avere tempo per scrivere, di non avere tempo di stare con la mia ragazza e soprattutto di non avere tempo di giocare ai videogiochi. Adesso ho il tempo! Non che poi abbia né letto né scritto, ma sto dormendo come mai e mi sto sfondando di videogiochi. A questo ci aggiungi che tempo per bere e fumare l’ho sempre trovato, ed ecco che salta fuori una vacanzina niente male. Faccio esercizi e mi tengo attivo con sfide a chi distoglie prima lo sguardo con la faccia di cazzo della mia dirimpettaia, rapporto mai fiorito, neanche in questi tempi di solidarietà a buon mercato. Tutto questo crollerà quando finirò da fumare, ahimè”. Per la serie: finché c’è fumo, c’è speranza. Questo però conduce lo scrittore a finire in uno stato mentale apparentemente assimilabile alla pigrizia (Fase 3), conosciuto in psichiatria come “indolenza da decreto segregante del sabato sera”, o più semplicemente Complesso di Francioni, in onore del primo soggetto in cui gli psichiatri hanno riscontrato questo tipo di disturbo psicosomatico. Per comprendere meglio l’evoluzione del fenomeno, gli studiosi si sono concentrati sulle ultime parole sensate a loro rilasciate dalla paziente stessa, Chiara Francioni. “Devo essere collassata sul divano per l’ennesima volta. Chissà da dove viene tutto ‘sto sonno? Mi tiro su, distendo i muscoli e fisso la parete, pensando a qualcosa da fare. Controllo le previsioni? No, chi cazzo se ne frega del tempo che fa fuori. Fuori. La parola riecheggia nella desolazione della stanza. All’improvviso mi sembra così strano che al di là della finestra ci sia un mondo che va avanti anche senza di me. Mi sento piccola e forse va anche bene, perché la casa è minuscola e meno spazio occupo, più ne resta per muovermi in libertà. Libertà. La parola riecheggia nella desolazione… e no, mo basta. Apro il vino e vaffanculo”. E poi fu il delirium tremens. Già, perché a questo punto è ormai evidente che lo scrittore (in questo caso, la scrittrice) è entrato nella Fase 4 del suo degrado artistico, la quale fase segue il celebre Teorema dell’alcolismo di Piccinni, ovvero “ogni corpo costretto per un numero x di giorni a contatto con Tiziana Caudullo in uno spazio ristretto riceve una spinta dal basso, anzi facciamo due spinte belle tonde dal basso verso l’alto, uguali per inutilità al peso delle azioni che lo stesso corpo farà pur di non comunicare con la suddetta Tiziana Caudullo, ovvero ubriacarsi male”. In seguito, ci spiega l’autore, il corpo in questione inizierà a comportarsi come se fosse realmente in grado di compiere alcune azioni complesse, tipo far di conto o suonare decentemente il basso. Eccovi uno stralcio dal diario personale dello scienziato Simone Piccinni, che ripercorre il suddetto esperimento. “Lunedì mattina, ore 9.00. Apro gli occhi bestemmiando. Quanto cazzo ho bevuto ieri? Oki + caffè. Il box da 5 litri di vino è a fine. Porco il clero, l’ho comprato venerdì pomeriggio… Fanculo. Mettiamo un po’ di musica. Ambient jazz? Dovrei iniziare a rimettere a posto la contabilità: ci starebbe. Ma… ha senso? Youtube suggerisce To have and to have not, versione di Lars Fredriksen and the bastards. Daje. Sai che? Fanculo la contabilità… Riprendo il basso e mi metto a studiare le tablature del pezzo. E vaffanculo. Tanto il mondo sta andando ai maiali, s’inculi la contabilità”. Ed ecco che si arriva quindi alla ovvia fase finale (per chi ci arriva) di questo percorso: la follia. Ci sono però opinioni discordanti sul come la follia si manifesti nel soggetto scrittore durante la Fase 5. Secondo la corrente bendinelliana, che si rifà agli esperimenti antropologici della controversa studiosa Benedetta Bendinelli, questa ultima fase porta il soggetto a crisi paranoico-depressive, dette anche Crisi di Bates. Una parte dei suoi esperimenti è poi confluita in un romanzo autobiografico, che sta diventando un caso letterario mondiale e che s’intitola PSYCHOVID. Eccovi un breve stralcio. “Siamo qua da giorni. Qua, per me, è in mezzo alla campagna. Siamo vuol dire io e Carolina. Tutto bene, va tutto bene e non posso dire il contrario. Il sole batte sulla facciata di casa verso l’ora di pranzo e resta caldo fino a prima del tramonto. Il bosco è dietro l’angolo, per davvero. Fuori tutto occhei ma la casa mi spaventa. Mi spaventa la polvere: con la luce del pomeriggio la vedo ovunque. Mi spaventa lo scaldabagno, quel ribollire grasso dentro la pancia di metallo è un cattivo presagio. Mi spaventa Carolina, quando entra all’improvviso in bagno e si affaccia dalla tenda della doccia. Per tutto questo, e poco altro, ho pianto”. La Bendinelli è poi stata accusata di plagio e portata in tribunale, venendo però assolta, probabilmente per il fatto che a citarla in giudizio era stato per motivi ancora oscuri Al Bano, al quale la quarantena ha fatto peggio del previsto. Tornando a noi, alle tesi della Bendinelli si è sempre opposta la sua acerrima rivale Roberta Dell’Ali, la quale si dice certa di una diversa evoluzione della Fase 5, come da lei sperimentato in prima persona. L’abbiamo contattata via mail pochi giorni fa per chiederle di spiegarci in cinquecento battute (sennò ci veniva lungo il pezzo) le sue considerazioni riguardo all’evoluzione dei suoi studi. Dobbiamo dire che ci ha risposto con una notevole dose di calma, dignità e classe. Da: Roberta Dell’Ali 30 mar 2020, 16:37 AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH!Lo so, avrei potuto farvi ridere o raccontarvi qualcosa, ma queste cinquecento battute le ho concesse all’urlo che da giorni spingo giù in gola: scusate, ma maggia sfuca’.Distinti saluti Insomma, sembra che gli studi procedano spediti. Un po’ troppo spediti. Ci sarebbe anche un’altra testimonianza, che rivela la strana involuzione metabolica in un soggetto di nome Andrea Biagioni, il quale avrebbe subito nel corso della quarantena un precoce invecchiamento. Pare infatti che il fantomatico Biagioni (nessuno sa se sia realmente esistito o se sia il frutto dell’ennesima fake news di cattivo gusto), dopo aver superato con successo le prime quattro fasi, abbia iniziato a passare tutto il giorno alla finestra ora guardando con nostalgia il cantiere sotto casa, ora facendosi delatore di runner, ora cantando con fervore l’inno di Mameli fino al soffocamento, e infine pare abbia iniziato a inveire come un ossesso contro bambini invisibili, gridando loro di smetterla di giocare a calcio nel suo cortile e colpevoli, a suo dire, di non rispettare il modulo MM della grande nazionale ungherese degli anni ’50. Nel verbale redatto dagli agenti accorsi sul posto, si legge che “il soggetto veniva prelevato dalla propria abitazione nel rispetto delle norme igienico-sanitarie in atto, mentre continuava a inveire contro un certo Ferenc Puskás”. Non sappiamo se questa storia, ormai diventata virale in rete come Il curioso caso di Biagio, sia reale o meno. Quello che possiamo dirvi è che noi continueremo a indagare, e continueremo senza sosta a studiare e riferire con i nostri QuaranThreevial quanto venuto a nostra conoscenza riguardo l’impatto di questa quarantena sulle deboli menti di scrittori e scrittrici, o presunti tali tipo questo Biagio. Per il bene della comunità, prima che in comunità ci sbattano tutti quanti. Share Tweet Share... Read more...Il Regno della Paura, un articolo di S. Piccinni || Threevial Pursuit25 Marzo 2020Il Regno della Paura di Simone Piccinni Ho iniziato a scrivere questo pezzo a febbraio, ben prima che il Covid-19 diventasse l’argomento pubblico numero uno. Il pezzo parla di paura, e ne parla partendo da basi che ora sembrano lontane e astratte, essendo state soppiantate da un’altra fonte ben più basilare e immediata (maledetta indole procrastinatrice, mi fotte sempre…). Ma ho deciso di riportarvelo così com’era, almeno fino al punto in cui mi sono fermato, perché alla fin fine è proprio lì che voglio arrivare: la paura assume migliaia di forme ma condiziona il nostro vivere sempre alla stessa maniera. Maniera che però, a sua volta, assume migliaia di sfumature diverse. Questa che stiamo vivendo è solamente una di esse, sebbene sembri più forte e presente. Quindi niente, ci rivediamo in fondo alla pagina per le conclusioni… Nel bel mezzo della mia disordinatissima libreria c’è un piccola pila di libri non letti. Non che i libri non letti e parcheggiati in quel casino siano pochi, ma questa specifica pila conta solo qualche volume. Se ne sta lì come un totem. È sempre stata lì, nel suo preciso ordine, indifferente alle frequenti consultazioni e agli sporadici riordini. L’ultimo titolo, quello che chiude la pila, protegge col suo peso i sottostanti sigillando il piccolo parallelepipedo di carta come la merlatura di una torre. Questa specie di orpello architettonico non è un libro come gli altri, almeno per me. Mi guarda da più o meno tredici anni. E io osservo lui, incrociando lo sguardo con le orbite vuote del teschietto punk stampato sulla costola, con un misto di fascino e senso di colpa. Il libro è Kingdom of Fear di Hunter S. Thompson, uno dei miei miti assoluti, e temo sia destinato a rimanere lì ancora a lungo (N.d.A: in realtà è stato inglobato dalle file retrostanti due giorni or sono. La smania da attività di questo periodo ha colpito alla fine anche la libreria, che ora appare fottutamente ordinata e asettica. Sigh). Sebbene non lo abbia mai letto lo ritengo una enorme fonte d’ispirazione. “Com’è possibile?” chiederete voi. Perché ormai, intimamente, racchiude un pensiero. E ‘sticazzi se questo pensiero è nato da una serie di coincidenze invece che dalle parole e dai concetti scritti lì dentro. In estrema e brutale sintesi, eccovelo: “Tutto ruota attorno alla Paura”. Hunter S. Thompson, autore di Kingdom of Fear Ma vediamo di spiegare meglio. La riflessione nasce non dall’elemento più palese – l’evocativo titolo “Il Regno della Paura” – bensì dal motivo per cui non l’ho mai letto. Lo comprai in una libreria di Sydney nel lontano 2007 insieme a Fear and loathing in Las Vegas, sempre di Thompson, e a Trainspotting di Welsh, tutti e tre in lingua originale. Gli ultimi due li conoscevo praticamente a memoria, avendoli letti svariate volte in italiano. Kingdom of fear no, non essendo mai stato pubblicato in Italia. Ma lì per lì ero convinto di padroneggiare l’inglese alla perfezione, dopo tre mesi di permanenza in Australia e altri tre a Londra. Mi sbagliavo tremendamente: dopo aver affrontato a fatica i due testi già conosciuti fui preso dallo sconforto. Decisi di rimandare la lettura del terzo a data da destinarsi per la paura di non cogliere al meglio l’opera di Thompson. Sarebbe stata una mancanza di rispetto imperdonabile nei suoi confronti. Non me la sentii… Una volta tornato in Italia, buttai il libro da qualche parte e me ne dimenticai. Col tempo e l‘inutilizzo, poi, le mie capacità linguistiche si sono gradualmente impoverite, peggiorando la situazione e rendendo la sfida quasi impossibile. E lui ora sta lì, da tredici anni, a fissarmi e a ricordarmi quel momento di pavidità. Per la paura di non capirlo approfonditamente mi sono privato del tutto della possibilità di leggerlo. Questo aneddoto può sembrarvi una cazzata insulsa, lo so. Nulla mi vieta di prendere un vocabolario d’inglese e riprovarci. Ma non lo farò, almeno per ora. Perché al momento, per me, ha più importanza come promemoria che come sfida. La paura è un istinto innato, comune a tutti gli esseri viventi e fondamentale per la sopravvivenza. È normale che ci sia. Il problema è che noi umani, nel corso della storia, gli abbiamo dato una sfilza di sfumature e significati tutt’altro che naturali, trasformandola nell’elemento che, a mio modo di vedere, ci condiziona maggiormente. E lo fa costantemente, sia nella sfera privata che in quella sociale. Ci condiziona personalmente nelle piccole cose, come nel caso che vi ho appena raccontato. Ma non solo: la paura influisce ogni volta che facciamo qualcosa o che prendiamo una scelta, modificando la nostra vita e il nostro futuro. Ci condiziona da piccoli quando seguiamo il branco anche in ciò che non ci piace per la paura di essere emarginati e rimanere soli. O quando da adolescenti ci impedisce di approcciare una ragazza per il timore del rifiuto o della figura di merda con gli amici. Ci condiziona quando scegliamo un percorso di studi che non sentiamo nostro perché magari quello preferito non garantisce la certezza di trovare un lavoro. O quando ci fossilizziamo in un ambiente lavorativo di merda o in una professione che non ci piace perché “almeno questo c’è”. Ci condiziona nelle relazioni con gli altri, facendoci smussare opinioni e pensieri per non creare contrasti oppure rendendoci diffidenti e sospettosi. Ci condiziona quando giriamo la testa di fronte a un torto o un’ingiustizia perché opporsi potrebbe causare delle conseguenze. Quando rispettiamo una regola che non reputiamo giusta per non subire punizioni. Influenza il nostro modo di comunicare, le parole che diciamo o non diciamo, con chi parliamo con interesse e chi invece ignoriamo. Se tra A e B scegliamo A, frequentemente, è per esclusione di B: questo perché entrambe suscitano una sottile paura, ma B magari ne fa di più. La paura profonda e istintiva, quella per la sopravvivenza e il pericolo reale, in noi umani ha perso di centralità, rimpiazzata da quella verso il giudizio degli altri o verso la perdita dei propri privilegi, comodità o situazione. Ed è qui che nasce il problema vero: la nostra manovrabilità. L’umanità è composta da tante piccole società, composte a loro volta di diverse etnie, culture e gruppi di persone. Ognuna ulteriormente composta di tante singole personalità. Queste personalità sono ulteriormente suddivise in insiemi diversi in base a convinzioni, credi, ecc.ecc. Insomma, siamo un casino incredibile. Ma dobbiamo convivere, quindi ci organizziamo. E nella maggior parte dei sistemi scegliamo dei rappresentanti, che sono persone come noi, nel bene e nel male. Sono persone, se prese singolarmente, ma il ruolo e la posizione le trasforma in istituzioni, ponendole su un altro livello, in una posizione di controllo e supremazia. Ora, mettiamo caso per assurdo che una di queste istituzioni ci prenda gusto e voglia mantenere la posizione ottenuta, avendone magari tratto qualche beneficio nel mentre che non vuole perdere. Per assurdo, eh… Bene, come fare? Ma con la paura, ça va sans dir. Quando abbiamo paura cerchiamo protezione, è naturale. E in un contesto socialmente avanzato a chi ci rivolgiamo quando abbiamo paura? Alle istituzioni. Quindi se io, istituzione, voglio rafforzare la mia posizione e, putacaso, ho accesso o influenza sui mezzi di comunicazione e sulla divulgazione delle informazioni… beh, ho un jolly incredibile: mi basterà creare un’emergenza, un nemico o un pericolo e tutti invocheranno il mio intervento e la mia difesa. Logico no? Magari suona pure familiare, qui in Italia… Nulla unisce e compatta di più una comunità di un nemico comune, di qualcuno o qualcosa che minaccia i nostri orticelli e i nostri interessi. Nulla fortifica di più la nostra posizione dell’essere percepito come necessario, tanto più se vengo percepito come difensore nei confronti di qualcosa di alieno. E se io, istituzione, capisco e padroneggio questo meccanismo, ho vinto. Ho lo strumento chiave: posso accendere o spegnere il terrore nella gente. E chi è terrorizzato, nella maggior parte dei casi, non ragiona: cerca un rifugio e dimentica tutto. Quindi anche se faccio il resto del mio lavoro di rappresentante mediocremente o dolosamente, preoccupandomi più dei miei interessi personali che di quelli di chi devo rappresentare, e la gente inizia a lamentarsi e a chieder conto delle mie mancanze mi basterà girare la chiave del terrore e questi magicamente correranno a nascondersi dietro la mia sottana, sorvolando su tutto in cambio di un’illusoria impressione di sicurezza. Bene, qui mi sono fermato. L’intenzione originaria, a questo punto, era quella di fare un excursus storico sull’evoluzione dell’influenza della paura nel nostro sviluppo. Credo però che questo perda un po’ d’interesse rispetto alla situazione attuale. Ora come ora il giochino è sotto gli occhi di tutti, sebbene complicato dalle varie campane che orientano questo sentimento. Abbiamo un nemico comune, il virus, e da quello dobbiamo proteggerci. Quindi ben vengano, nel senso comune, le misure restrittive: rimaniamo tutti tranquilli in casa (almeno, chi una casa ce l’ha… sennò resti fuori dai giochi e vieni pure multato, che è uno schifo totale, ma è un altro discorso troppo lungo per essere affrontato qui), stringiamoci virtualmente e incrociamo le dita. Avreste mai pensato di poter arrivare a questo? Avreste accettato qualcosa di simile senza la paura del virus? Non credo. Ma in questo specifico contesto è normale, ci sta. La paura del nemico invisibile è un qualcosa di ancestrale e fortissimo, che spinge a un’unità quasi impareggiabile nella nostra specie. Ora però, grazie a questa inedita unione, si sta verificando un altro fenomeno interessante (che si rifà a uno degli ultimi spunti lanciati nella bozza): la caccia all’untore, al diverso. Ci si accanisce contro chi non segue le regole come noi, mettendoci a rischio. Non dico che non ci siano delle piccole sacche di irresponsabili, ma forse non sono quelle realmente determinanti. Sono facili da individuare e ci tranquillizzano, danno un volto al nemico. Ma questo è fuorviante, e potrebbe tranquillamente essere uno specchietto per le allodole piazzato ad hoc (o casuale, il succo non cambia). Mi spiego: la gente reclusa si annoia. In questi frangenti c’è chi guarda film, chi impara a fare la pasta a mano, chi fa corsi online di origami… ma tanti sono lì a fissare le pareti e a meditare. E da queste elucubrazioni potrebbero venir fuori domande profonde, non superficiali. Domande che potrebbero mettere in crisi il nostro sistema produttivo capitalistico (probabilmente vi sovviene a questo punto la questione del mantenere aperte o meno le attività produttive per limitare la diffusione del virus e le resistenze di Confindustria. Bene. Cosa spinge Confindustria a mettersi di traverso in una situazione del genere? La paura che le fabbriche non riaprano. Paura, siamo sempre lì…). Cosa sta succedendo quindi? Negli ambienti decisionali si discute, cercando di far collimare tutti i vari interessi con l’ovvia paura della popolazione. Ma in questo caso gli attori in ballo sono tantissimi, quindi il dibattito può andare avanti a vita, se mantenuto su questo piano. Cosa fare quindi? Distogliere, distrarre, appoggiandoci nel mentre a soluzioni raffazzonate e di facciata. E tutti a puntare il dito contro chi esce, contro chi va a correre per non impazzire nella reclusione, contro chi agisce in proprio (e non parlo di chi fa feste condominiali, ma di chi va a correre da solo rispettando tutte le varie norme sanitarie). Magicamente la paura generale si sposta da un argomento sensibile socio-politicamente, come la produzione e il conseguente transito di persone e merci, per focalizzarsi su qualcosa più alla portata come, ad esempio, un nostro pari che non segue le regole. Questo a cosa porta? Che la potenzialità intellettiva delle gran maggior parte di noi viene distolta dall’analisi della nostra precedente condizione (e dalla possibilità di ideare alternative) per essere incanalata in un’insulsa guerra tra poveri che lascia tutto esattamente così com’è. E il sistema vince un’altra volta. Per la paura. Paura del vicino, potenziale untore; paura per il fallimento delle aziende, quindi della disoccupazione; paura del futuro in generale, immutabile simulacro del nostro ieri invece che potenziale nuovo e differente inizio. Questo è: paura. Sempre e solo paura. Ma di che tipo è? È una paura che ti spinge a trovare soluzioni? Oppure ti induce a cercare colpevoli e difensori? Non è una domanda banale, ora come ora, anche se lo sembra. Abbiamo delle impellenze molto più forti in questo momento storico: abbiamo avvelenato e distrutto il nostro pianeta, portandolo quasi al collasso, mettendo in discussione la nostra stessa presenza futura. Questa paura ci sta pian piano arrivando, sebbene calmierata dalle allucinanti dichiarazioni di alcuni criminali (Trump e Bolsonaro, giusto per citarne un paio come esempio, li considero criminali a tutti gli effetti) che lavorano solo per gli interessi dei pochi che su questa distruzione traggono profitto. Quella è la paura ‘sana’. La nostra casa è in fiamme, e quando il fuoco ci raggiungerà nemmeno le istituzioni potranno salvarci se non ci attiviamo prima e iniziamo a fare le giuste richieste. Per cui ok, rimaniamo in casa e confidiamo nel comparto scientifico e nelle soluzioni che ci presenterà per uscire da questa situazione. Ma al contempo iniziamo a sfruttare questo periodo di reclusione per analizzare la nostra realtà e a immaginare alternative, invece di invocare la militarizzazione contro le cazzate di pochi. Pensiamo a cosa non va, cercando di non farci condizionare troppo dai nostri consueti schemi. Cerchiamo di immaginare il mondo per come lo vorremo alla fine di questa emergenza. Se riusciamo a farlo questi giorni non saranno sprecati e, soprattutto, non dovremo pagarne le conseguenze per altri decenni, continuando a sguazzare in una società ingiusta e fallata, oltre che nell’insoddisfazione personale. Quella che abbiamo di fronte è un’occasione enorme per cambiare il nostro modo di stare al mondo: spero solo la paura di abbandonare il vecchio modello non blocchi la ricerca di uno nuovo e migliore futuro. Share Tweet Share... Read more...JoJo Rabbit: Hitler, play with me! Un articolo di A. Maglione || Threevial Pursuit18 Marzo 2020JoJo Rabbit: Hitler, play with me! di Alessia Maglione Ah la Seconda Guerra Mondiale! Uno degli avvenimenti più trattati, studiati, su cui si è scritto, discusso, straparlato all’infinito, con cui ci hanno martoriato a scuola e su cui continuano a marciare tanti pseudo-intellettuali. Oggi però vorrei parlarvi di un film uscito poco tempo fa, Jojo Rabbit di Taika Waititi che parla sì, di nazismo e compagnia cantante, ma in un’ottica che non vi aspettereste mai. Perché vi dico questo? Perché Jojo Rabbit non è il “solito” dramma sulla Seconda Guerra Mondiale. Non è una pellicola storica, né tratta le classiche vicende di un tedesco che ama il nazismo ed odia gli ebrei. Ok, è vero, ci sono tutti questi elementi, ma nel film c’è anche di più. È una commedia che con sottile ironia e un ottimo cast riesce a interpretare con leggerezza quella che era la disastrosa situazione della Germania del 1944, quando i Russi e gli Alleati stavano ormai per mettersi la guerra in tasca. E come lo fa? Raccontandoci la storia di un bambino di dieci anni, Johannes Betzler, (al suo primo esordio come attore, tra l’altro) timido, impacciato e grande fan del nazismo con tanto di poster del Führer appesi nella sua cameretta a mo’ delle odierne rockstar, e con un solo obiettivo: diventare un uomo nel campo estivo della Gioventù hitleriana. E sa che può farcela, perché dalla sua ha un fantastico amico immaginario: Adolf Hitler. Il film è liberamente ispirato al libro di Christine Leunens, Il cielo in gabbia, basato anch’esso su una storia vera che l’autrice racconta così: «Una donna francese mi ha raccontato che durante la guerra la sua famiglia aveva dato rifugio a un ebreo polacco e che si era innamorata di lui. Ho provato a immaginare che cosa sarebbe potuto accadere se quella nascosta fosse stata una ragazza ebrea e a trovarla un ragazzo austriaco membro della Gioventù hitleriana, a cui anni di propaganda avevano insegnato a odiare gli ebrei». Jojo infatti non è assolutamente propenso a uccidere, né a essere crudele (per questo motivo verrà soprannominato Rabbit, “coniglio”), ma nonostante ciò non vede l’ora di poter far parte della Hitler-Jugend, come se fosse un gioco, una delle cose più fighe che un bambino di dieci anni potesse fare all’epoca: portare una divisa piena di distintivi, lanciare granate, maneggiare coltelli e addestrarsi nei boschi. In fondo, cosa c’è di più bello, quando si è bambini, di poter far parte di un gruppo? L’autrice del libro è però molto chiara con il regista: «Il libro è mio, ma il film deve essere tuo». Questo perché diciamocelo, un film preso paro paro da un libro, a volte rischia di essere quasi deludente. Per ovviare a questo, Taika riesce invece a creare la risata anche dove c’è il dramma, dandoci infatti la mazzata in petto proprio quando non ce lo aspettiamo. «Sapevo di non voler fare un dramma puro e semplice sull’odio e il pregiudizio. Quando qualcosa mi sembra un po’ troppo semplice, mi piace portarci il caos. Ho sempre creduto che la commedia fosse il modo migliore per far sentire più a suo agio il pubblico. In Jojo Rabbit coinvolgo il pubblico con la risata, e quando ha abbassato la guardia inizio a inserirci questo carico di dramma che in questo modo colpisce maggiormente». Nel film si ride molto, ma si riflette anche. Si pensa al concetto di amore, accettazione, apertura mentale. Questo perché Jojo, come ogni nazista convinto che si rispetti, deve odiare e combattere gli ebrei, strani mostri-vampiri che leggono nella mente e puzzano di cavoletti di Bruxelles. Ma quando il bambino scoprirà che in realtà la madre sta nascondendo proprio una ragazza ebrea nella sua soffitta, tutto il mondo in cui crede verrà stravolto finché non sarà stesso lui a dire che, in fondo, gli ebrei “non sono poi così male”. È incredibile dunque pensare a come sia facile vedere e pensare con gli occhi e la mente di qualcun altro, e quanto sia difficile cambiare le proprie idee quando si fa parte di un gruppo che ci contagia e ci spinge a omologarci. E come possiamo biasimare Jojo se, in un periodo nel quale la propaganda nazista era ovunque in Germania, il modello positivo da cui trae ispirazione è un Hitler immaginario? Un Hitler, a proposito, interpretato dal regista stesso e reso ancora più goffo e ridicolo di quanto fatto da Charlie Chaplin ne Il grande dittatore. Non a caso mi è venuto in mente questo paragone: Chaplin e Hitler nacquero nello stesso anno, nella stessa settimana dello stesso mese, aprile del 1889 ed è anche per questo che la sua parodia, rimasta nella storia, non è assolutamente casuale. Nel suo film Chaplin porta i gesti del dittatore fino all’esasperazione: i suoi discorsi politici sono senza senso, il suo tono di voce e i suoi incontrollati eccessi d’ira vengono scimmiottati da uno degli attori più brillanti di tutti i tempi. Allo stesso modo Taika, anche se con fare più leggero, rende Hitler un grande amico con cui giocare e passare le proprie giornate, a cui chiedere consiglio e con cui mangiare unicorni. Perché ciò che viene visto con gli occhi di un bambino, non può mai essere crudele. Lo stesso Taika ha affermato: «Mi sono sentito strano anche se il personaggio del mio film non è cattivo, ha il cervello di un bambino di dieci anni perché viene fuori dalla testa di Jojo. Si è trattato comunque di un momento triste, urlavo al gruppo di lavoro sul set vestito da Hitler, sembravo Charlie Chaplin ne Il Grande Dittatore». Essendo la madre di origini ebraiche, il regista si sarà preso una bella rivincita nell’interpretare il dittatore a modo suo. Egli stesso ha affermato di non aver fatto alcuna ricerca su di lui. D’altronde tutti sappiamo che tipo fosse quell’Hitler, e dunque voleva solamente crearne una sua interpretazione personale. E mentre la madre Elsa è impegnata a fare “quello che può” contro l’avanzata dell’ignoranza nazista e con un padre al fronte di cui non si hanno notizie, Jojo dovrà iniziare a fare i conti con la realtà della guerra, a tratti terribile, ma nel film anche surreale ed esilarante al tempo stesso. Basti pensare ai membri della Gestapo che ripetono Heil Hitler all’infinito per salutarsi o al comandante Klenzendorf che butta i suoi soldati in piscina per prepararli a un “possibile combattimento in acqua”. Insomma, possiamo dire che Taika Waititi non abbia scoperto l’acqua calda, perché come ho detto all’inizio, di film sul nazismo ne sono stati girati a valanghe. Dunque cosa lo distingue da tutti gli altri, e cosa gli ha permesso di vincere il Golden Globe? Non vi resta che guardarlo per scoprirlo. E vi assicuro che una volta visto non potrete fare a meno di rivederlo e di consigliarlo a qualcuno, almeno una volta. www.pressreader.com/italy/corriere-della-sera-la-lettura/20191117/282132113275816 www.youtube.com/watch?v=7UYT7sofcR8 www.cinematographe.it/news/jojo-rabbit-taika-waititi-imabarazzato-ruolo-hitler Share Tweet Share... Read more...Sanremo ’20: l’altra faccia del talento, un articolo di R. Cipro || Threevial Pursuit11 Marzo 2020Sanremo ’20: l’altra faccia del talento di Rossella Cipro Il tempo passa, le cose cambiano. Ricordo quando, da bambina, Sanremo era un evento. In famiglia, ogni sera, si guardava la musica. Tutti insieme si cantava, una volta imparate a memoria le canzoni. Ricordo che mi sarebbe piaciuto guardarlo prima dell’avvento del nuovo secolo, per capire com’era, se era diverso o se è sempre stato la stessa storia. Tra tutto io ricordo Dolcenera. Ricordo ritmi travolgenti e musica orecchiabile. Ricordo testi interessanti, scene emozionanti, a tratti commoventi. Ricordo il duetto di Ficarra e Picone sulla Sicilia, gli interventi seri e le frecciatine politiche. Ricordo colpi di scena, la lettera di un operaio, un uomo appeso al corrimano di uno dei soppalchi. Ricordo Vessicchio e Riccardo Cocciante. Ricordo che poi il tempo è passato, quella bambina è cresciuta e ha smesso di guardare Sanremo. Dopo anni, nel 2020, Amadeus arriva a condurre il Settantesimo Festival della Canzone Italiana. Confesso che era il mio conduttore preferito all’Eredità, ideata e condotta da lui dal 2002 al 2006, e che l’ho poi rivalutato scoprendo che dirigeva un programma talmente imbarazzante che – ho controllato – non figura neanche più nella sua carriera televisiva. Ciononostante, ho sempre stimato quell’uomo, e questa era la sua rivalsa, ne ero certa! Ma nessuna rosa è senza spine e nessun uomo è senza peccato. Così Amadeus fa un passo indietro e si tira addosso la pioggia di critiche del popolo femminista che urla al boicottaggio. Non che non fossi arrabbiata. Certo che lo ero. Nessuno si deve permettere di pensare che una donna è donna solo se sa stare un passo indietro rispetto all’uomo. Lui lo ha fatto e io ci sono rimasta male. Nonostante ciò ha superato l’aspettativa della percentuale di ascolti, che si è rivelato il più alto dal 1999, ed è successo proprio perché ci siamo rimasti male. La curiosità mi ha sovrastata e così mi sono approcciata in modo diverso a questo evento, e l’ho guardato. Mi sono detta che se volevo capire quell’uomo, Amadeus, dovevo guardarlo mentre realizzava il suo sogno, mentre realizzava il sogno di ogni conduttore televisivo. L’ho visto così felice! Forse un po’ impacciato a volte, non sempre a suo agio e non sempre pronto a fronteggiare l’imprevisto, ma era naturale. Quel modo naturalmente inconscio che abbiamo tutti di comportarci, quando abbiamo una responsabilità sulle spalle e la consapevolezza di aver raggiunto l’obiettivo, di aver vinto; e siamo talmente contenti che, come un assetato che regge finalmente un bicchiere colmo d’acqua, con mani tremanti, rischiamo di eccitarci talmente tanto da riversare tutta l’acqua a terra, e restare all’asciutto, con i morsi della sete. Come quando siamo pieni di passioni e queste escono senza che alcuna maschera riesca a controllarle. Photo by Ansa/Riccardo Antimani Alla fine però in soccorso del nostro Amadeus è arrivato lui, il vero protagonista di questo Sanremo 2020: Rosario Tindaro Fiorello. Entra in scena e stravolge, coinvolge, riavvolge. Il conduttore sembra lui, l’Ariston è tutto suo. Se la balla e se la canta e a ogni pausa, in qualsiasi momento di morte tra una canzone e l’altra, compare e intrattiene. Ed è molto bravo a farlo. Ha lanciato frecciatine a destra e a manca a partire dalle critiche ad Amadeus, alle sardine, alla Rai e soprattutto al pubblico. Con “La classica canzone di Sanremo” ha detto tutto, e non c’era altro da dire. Una brano sul tipo di canzone che a Sanremo vince sempre: apolitico, senza critica, che parla d’amore e di sentimento. E infatti, per restare su questa linea, la censura del videomessaggio di Roger Waters, che doveva andare in onda nel corso della prima serata, prima dell’intervento toccante di Rula Jebrael, giornalista e scrittrice palestinese, è stata vista come una limitazione di libera espressione. Non voglio addentrarmi molto nell’argomento, o perderei il punto. Ma c’è chi dice che sia stato a causa dell’orientamento filopalestinese di Roger, altri che era una questione di tempistiche e di scaletta. A voi le considerazioni. Io in fondo voglio solo far emergere le differenze tra un festival della canzone e un karaoke al Red Garter. Sì, perchè, tra tante belle voci, tanta tecnica e tanto ritmo, ciò che è rimasto nella mente dalle gente è “la musica, e il resto scompare”. O quasi. Perché poi a restare è la tutina di Achille Lauro e tutti i capi usati nella sua sfilata. È Miss Keta e il suo duetto con Elettra. Imbarazzante, dico davvero. È il passo indietro di Bugo e non il testo di Junior Cally o Levante. Alla fine comunque ha vinto Diodato con la classica canzone italiana, e ha trionfato Fiorello e hanno avuto la loro ultima falsa gloria i Ricchi e Poveri. Non c’era contenuto sociale, se non la questione del femminicidio che è stata sottolineata e rivangata per tutte e cinque le serate. Il fatto ha raggiunto il culmine con la comparsa in scena di sette artiste italiane: Fiorella Mannoia, Alessandra Amoroso, Giorgia, Gianna Nannini, Elisa e Laura Pausini hanno presentato il loro concerto “Una, nessuna e centomila”, un’idea per raccogliere fondi per la campagna contro la violenza sulle donne. La cosa che mi ha sorpreso è che non hanno cantato nemmeno una canzone. Hanno pronunciato una frase a testa. Era così triste e scontato, che ha perso il suo senso e ha preso una forma che è la stessa che abbiamo dato all’amore: quella di un gioco per bambini, un gioco semplice e sconsiderato. Un gioco che però è pericoloso, ma questo nessuno vuole saperlo, nessuno vuole ammettere quanto dolore genera un amore che diviene ossessione. Per questo quelle donne non hanno cantato in pubblico, perché al pubblico non era permesso scoprire la gravità della violenza perpetrata verso un altro essere umano, sopratutto se è una donna, che è indifesa, nuda, senza armi per fronteggiare l’enorme esercito della tradizione secolare, quella solita, quella patriarcale, che lascia impronte indelebili nell’istruzione, nel lavoro e nella società. Per questo alcune donne ritagliano il loro spazio, lontano dal coro. Ma non è di questo che voglio parlare. Era del talento che volevo scrivere. O meglio, della mancanza di talento e dei vuoti senza senso, dei silenzi imbarazzanti, delle voci che non suonano, delle note che si alzano per coprirle, del coro che cerca di salvare l’altra faccia del talento. Quel talento che non vedi ma che attecchisce, che va di moda e che attira l’attenzione. Quel talento che non è altro che un idolo, un simbolo, una figura, un gesto caratterizzante, un nuovo disco in uscita e un tour nazionale in partenza, un sacco di soldi da guadagnare. Nessun brivido ha attraversato la mia pelle ascoltando le loro voci, perché non stavano cantando. Nessuna sensazione ti pervade se le ascolti a occhi chiusi. La musica di questo talento esiste solo in funzione dello spettacolo che figurativamente riesce a mettere in scena. Puoi anche cantare in modo pessimo, ma se sei un uomo con trucco e tutina aderente, o una donna con tette enormi e un vestito aderente, quindi, se metti un vestito aderente, allora tutti dimenticheranno la tua voce e ricorderanno solo la tua immagine, e forse qualche nota, ma nient’altro. Ovviamente scherzo sul vestito aderente. O almeno, lo intendevo come una metafora, per dire che se dai spettacolo e rompi la consuetudine di quello che si presenta agli occhi, che sono gli organi con cui per primi ci approcciamo allo spettacolo della creazione e dell’arte, tutto il resto viene percepito in secondo luogo. Ecco perché ha vinto Diodato, perché non stonava con le aspettative delle persone, non era né più né meno di quello che doveva essere: la classica canzone di Sanremo. La classifica ufficiale è giusta e tiene conto del suono, della voce e delle parole, ma ciò che ricordiamo non è la classifica, né le belle parole, né Amadeus. Per questo, alla fine, Sanremo 2020 lo ha vinto Achille Lauro. Share Tweet Share... Read more...Patrick Zaki ve lo ricordate? Un articolo di R. Dell’Ali || Threevial Pursuit4 Marzo 2020Patrick George Zaki ve lo ricordate? di Roberta Dell’Ali Ciao belli de mamma, come ve la passate? State in para per il Coronavirus o ve ne state fottendo? Pensate alle vostre tragedie personali o siete preoccupati per la borsa che scende a picco? Vi rode il culo che la potenziale pandemia abbia bloccato svariate cose della vostra vita o siete felici di potervela grattare (la pancia eh) senza dover dare giustificazioni? A me, personalmente, rode un sacco. Mind the gap between the train and the platform In questo momento sono in veranda, fumo una sigaretta e mi chiedo come esaudire il proposito che circa due settimane fa mi ero data per questo THREEvial Pursuit, ossia scrivere sulla vicenda Zaki. Andrea, per la precisione, ha detto: «Sarebbe giusto avere un pezzo su Patrick» ed era il 17 febbraio. Solo tre giorni dopo sarebbe arrivata la questione Coronavirus, prepotente, a invadere i media e le bacheche e i post, che fino al 20 febbraio erano ancora dominati da uno straziante Giulio Regeni che abbraccia Zaki. Dal mio punto di vista le due vicende sono estremamente intrecciate. CALMI! Non sto per avanzare una teoria complottista. È solo che sono stata a Bologna fino al 18 febbraio e, in quei giorni, sono andata alle manifestazioni per Zaki. Poi sono andata a Milano, dove sarei dovuta restare un mese per un corso di digital marketing (lo so, può creare dei sospetti sulla genuinità della mia persona, ma io questo non creto). Ho fatto i primi due giorni di lezione e, nel mentre, confabulavo tra me e me su come/cosa potessi scrivere riguardo Zaki. Comunque sia, il 20 febbraio, dalla sera alla mattina, la potenziale epidemia del Coronavirus è arrivata in Italia ed è entrata nelle conversazioni e negli smartphone di chiunque: che il mood fosse moriremo tutti o ma sei scemo è solo un’influenza, cambia poco. A Rogoredo i treni per Bologna erano stati cancellati, riuscire a tornare è stato abbastanza rocambolesco. Flashmob per Zaki (Bologna 2020) Il lunedì seguente non sono tornata a Milano, la mia vita si è riorganizzata a guisa di ordinanze e la riflessione su Zaki è continuata attraverso un’attenzione mediatica drasticamente diminuita. Di trend e di appeal Per quanto mi costi dirlo, una buona parte della riflessione alla base di questo articolo parte proprio dalla roba di digital marketing milanese (che continuo a fare su Skype: una cosa da matti, credetemi). A seguito di una serie di lezioni con professionisti del settore ho acquisito alcune nuove consapevolezze rispetto all’intorno della mia individualità. La prima, di rilevanza relativa, è di ordine linguistico e si basa sul fatto che il mondo del digitale sembra avere la necessità di esprimersi con termini urticanti come “vision”, “business model”, “experience”, “design thinking” e menate varie (capisco che suona meno figo, ma perché devi dire main activity o team work, se puoi serenamente dire “attività principale” e “lavoro di gruppo”?). La seconda consapevolezza venuta a galla è un pelo più seria e riguarda l’approccio di una come me, che del marketing non sa una cippa, ad alcuni concetti cardine di questo strampalato universo. Parlo di cose come trend e appeal. Qui potrei far partire lo spiegone della vita, ma ammetto di non esserne capace e mi limito a riportare una esplicativa conversazione avvenuta qualche giorno fa. «Hey Robe’, ricordi quel lavoro che t’avevo fatto vedere l’altra volta? Poi l’ho mandato e m’hanno detto che l’intro è pallosa. Adesso l’ho fatto più ritmico ed esaltante, ma non so, ho la sensazione che stiamo andando nella direzione sbagliata. Guardalo un po’». «Ma come?! L’intro ci piaceva un sacco! Però dai, questo è effettivamente più accattivante e dinamico. In che senso “stiamo andando nella direzione sbagliata”? Non ti seguo». «Sì okay, ma io volevo fare una cosa calma. Sono anni che mi dicono questo e quello e quell’altro, mi aspettavo solo una maggiore sensibilità narrativa!» «Calmino compa’, io sono qui da giorni a sentire quanto sia importante l’appeal del prodotto. È il 2020, l’attenzione è minima, il capitalismo ha trionfato ed esistono mezzi di diffusione per cui non puoi mai dimenticarti dell’appeal» [auch, ma l’ho detto veramente?] «Maddai, questo appeal molto commerciale sta fallendo, sono evidenti tutti i limiti di questo sistema. Non sarebbe male che la gente ritornasse a cercare lo stimolo da sé: guarda anche ora che sta succedendo. Tutti questi titoloni, servirebbe più calma nel narrare le cose». La conversazione non la riporto tutta ovviamente, anche perché ha poi divagato, com’è normale che sia. Però sì, è evidente che i principi della comunicazione si siano adattati alla nuova tecnologia che trova forza proprio nei concetti di appeal e trend. In un certo senso mi vien da dire che è sempre stato così. D’altro canto la velocità e continuità con cui avviene il rimescolamento delle carte impone la subalternità, sostanzialmente arbitraria, di alcune questioni rispetto ad altre. Questo ragionamento è lo stesso che sottostà a un’affermazione diffusissima sui social ultimamente, che più o meno fa così. «Ci stiamo agitando tanto per il Coronavirus, quando il cambiamento climatico fa morti da un sacco di tempo e nessuno se ne è preoccupato in questo modo». Già, nulla di più vero. Le urgenze nel mondo sono molte e simultanee. Penso alla guerra turco-siriana con bombardamenti, esodi e morti à gogo. E penso ovviamente al quasi silenzio sceso su Zaki, ancora in carcere. Regeni, Zaki e tutti gli altri “Patrick George Zaky, studente del master internazionale Erasmus Mundus ‘Gemma’ in Women’s and Gender Studies, è stato arrestato la scorsa settimana dalla polizia egiziana. Il 22 febbraio è stata fissata l’udienza in cui si deciderà per un suo eventuale rilascio. In qualità di rappresentati degli studenti e delle studentesse dell’Università di Bologna lanciamo un appello a tutta la comunità dell’Alma Mater, alla cittadinanza e a tutti coloro che vogliono far sentire la propria vicinanza.Lunedì 17 febbraio alle 18:00, ci ritroveremo davanti al Rettorato, in via Zamboni 33, per poi spostarci verso Piazza Maggiore. Per manifestare la nostra solidarietà a Patrick e chiedere con forza che i suoi diritti vengano rispettati e che possa tornare al più presto a frequentare le aule universitarie.” Le righe qui sopra sono un copia incolla dall’evento Facebook che, appunto, il 17 febbraio invitava la comunità meticcia bolognese al corteo di solidarietà a Patrick Zaki. La partecipazione a livello numerico è stata buona, ma i toni del lungo serpente umano non hanno corrisposto alla presenza fisica. A esser sinceri sono stati un po’ mogi, poco convinti e convincenti. Arrivati in piazza Maggiore il problema più grosso è stato la dispersione acustica, che è culminata in un’intonazione pallida di Imagine, del buon Lennon. Non è durato molto il tutto, alla fine si è librato un coro moderatamente arrabbiato: PatrickLibero! ParickLibero! PatrickLibero! Mentre di lunedì sera, rimbombava dal basso la libertà negata di Zaki, sotto una finestra del primo piano del palazzo comunale, spiccava ancora uno striscione appeso lì ormai da qualche anno: un pezzo di stoffa giallo, un po’ sbiadito, che chiede, urlando in grassetto “Verità per Giulio Regeni”. Finito il corteo, io e un po’ di amici siamo passati a uno spritz molesto e riflessivo: Regeni, Zaki, quanti altri? La realtà dell’Egitto è complessa e insidiosa. Qualcuno mi chiede cosa ne penso, in particolare del fatto che Zaki non sia un cittadino italiano e, nonostante ciò, ci sia molto movimento. Non ricordo cosa rispondo con esattezza, ma tiriamo in ballo tutto: l’entità dei diritti umani, la loro violazione, la necessità di proteggerli, arriviamo alla questione Unibo e Zaki, Cambridge e Regeni. Qualche settimana fa, prima che il caso Zaki esistesse, Pif è andato a riprendere la bici di Giulio Regeni a Cambridge e ne ha approfittato per sondare un po’ il terreno. Gli studenti dell’università inglese alla domanda «Do you know the story of Giulio Regeni?», rispondevano mediamente «No, I’m sorry». Agghiacciante, non vi pare? All’inizio c’era il suo nome su una bacheca, che adesso è vuota. C’era anche un memoriale, very small, in biblioteca, un piccolo tavolo con candele e un libro della commemorazione sopra: non c’è più nemmeno quello. Comunque esiste una Giulio Regeni Room e, in programma, erano fissati un paio di eventi commemorativi, uno organizzato da Amnesty e l’altro dall’università. Stando a quanto detto da una studentessa italiana, che Pif ha incontrato casualmente a Cambridge e che conosceva Regeni, quella di Giulio «è una cosa molto controversa e loro [gli inglesi] il controverso tendono un po’ a nasconderlo». Pif, durante la trasferta, avrebbe voluto incontrare la professoressa che ha mandato Giulio Regeni in Egitto e che non ha aiutato la magistratura italiana nelle indagini. La professoressa Maha Mahfouz Abdel Rahman comunque non c’era e l’incontro non è stato possibile. Il 9 febbraio, di domenica sera, c’è stato a Bologna in piazza Maggiore un primo presidio organizzato da Amnesty International e da Unibo. Poca gente in realtà, un cerchio di uno o due centinaia di persone, gli amici di Zaki e la sua professoressa. La promessa è stata: «Non ti lasceremo solo». Gli spritz continuano ad arrivare, la chiacchiera procede e finiamo a parlare di tutti gli altri, tutti coloro che si trovano in condizioni simili a quelle di Zaki, che non hanno nome per noi, ma che certamente esistono e subiscono le conseguenze di una vita sotto dittatura. Eclissi di lune e di soli Quando, il 17 febbraio, ho googlato sulla barra di ricerca “Patrick Zaki”, è venuta giù una cascata di notizie, mille articoli e innumerevoli aggiornamenti. Ad oggi, i comunicati risalgono mediamente a tre giorni fa, sono pochi ed è chiaro che l’attenzione mediatica si è spostata su altro. M’era venuto in mente di ripercorrere la vicenda di Zaki dall’inizio, dal 7 febbraio, quando all’arrivo all’aereoporto de Il Cairo è stato sottoposto a diciassette ore di interrogatorio e torture, alle ultime notizie, che ci riferiscono un trasferimento alla prigione di Mansoura. Solo dopo una settimana i genitori hanno ottenuto il permesso di vederlo. Pare che Patrick stia bene anche se non ha la libertà di andare al bagno quando gli serve né di leggere i suoi libri. Ma non lo farò, non lo ritengo necessario quanto ricordare le accuse che pendono su Patrick: “diffusione di notizie false”, “incitamento alla protesta” e “istigazione alla violenza e ai crimini terroristici”. Ha scritto dei post su Facebook e studia a Bologna, il corso di studi è “Women’s and Gender Studies”. Inoltre è gay: niente di grave a pensarci, eppure la dittatura è un luogo oscuro dove non è concesso a un individuo di essere. Non so se avete presente quell’estratto da un telegiornale egiziano che ha girato per un po’, dove il presentatore si è soffermato sulla definizione di omosessuale. Mi sono chiesta se davvero fosse una cosa così lontana dalla coscienza comune la libertà sessuale, tanto da meritare una spiegazione live. Comunque, secondo Suleiman Wahdan, il vicepresidente del Parlamento egiziano, se Patrick avesse diffuso notizie false sull’Europa, questa avrebbe proceduto all’arresto, come è successo in Egitto. Anche questo io non creto. Cioè non avremmo più posto nelle carceri di qualunque stato europeo. Al di qua del mar Mediterraneo, nel bene e nel male, il diritto all’espressione esiste. Non so bene quale sia l’intento di tutte queste parole che ho scritto. Potrebbe trattarsi delle perenni eclissi di urgenze mediatiche che si succedono: per cui prima c’era Patrick, oggi c’è il Coronavirus e domani chi lo sa. Potrebbe trattarsi anche della stortura insita nella nostra percezione dell’universo circostante, per cui le cose sembrano avere davvero valore finché sono in prima pagina. Il trend e l’appeal delle notizie dovrebbero far riferimento non al numero di click, ma alla necessità di informare su fatti cogenti e attuali, di rendere il lettore/spettatore cosciente del suo intorno, fornendogli i dati necessari per trarre le giuste conclusioni. Alla fine, però, in questa società perennemente immatura dove è difficile sapere cosa si farà da grandi anche quando grandi già si è, io cosa voglio lo so. Io voglio Patrick libero, governi giusti, cittadini coscienti e un’informazione che trasmetta le storture connaturate agli eventi, senza aggiungerne altre decidendo beceramente cosa sia degno e cosa no. Ma si sa, l’erba voglio cresce solo nel giardino del re. Share Tweet Share... Read more...I nuovi mostri, un articolo (horror) di B. Bendinelli || Threevial Pursuit26 Febbraio 2020I nuovi mostri (Quando l’horror è a casa nostra) di Benedetta Bendinelli Cosa ti spaventa di più, un virus mortale o uno sconosciuto in casa? Probabilmente una combinazione delle due cose, tradotta nella condivisione forzata di uno spazio che chiamiamo casa. Un virus mortale e uno spazio promiscuo in fondo hanno molto in comune. In entrambi i casi l’aria diventa pesante, portatrice di sconforto e di malattia. Lo spazio a disposizione che pian piano si riduce è un focolaio di paranoie e batteri. Tra un Corona Virus e un Corona Fabrizio in casa, probabilmente non sapremmo chi scegliere. Del resto il contesto sociale e politico in cui navighiamo adesso è un chiaro esempio di come sia diventato insopportabile per l’uomo il dover mettere a disposizione degli altri il proprio nido, le proprie cose, il proprio porto sicuro. Quello che ci terrorizza oggi è qualcosa di invisibile, qualcosa di evanescente come un fantasma, spettrale come il più terrificante dei boogeyman; e la paura non è più paura ma è più simile al fastidio. Volendo abbozzare una grossolana analogia si pensi che l’immigrazione (o la ‘migrazione’ se parliamo al presente) sia la sottocategoria cinematografica chiamata “home invasion”, dove il fenomeno storico è un film e il genere è l’horror. Siamo molto lontani dalla tradizionale espressione del terrore alla Lucio Fulci o da quella ancor più teatrale di Romero. Profondo Rosso ci fa sorridere, l’Esorcista sembra nato apposta per diventare un meme. E così, seguendo il flusso sanguigno del genere, sono cambiate le paure, le ansie, le reazioni. Il caro vecchio zombie – o il più classico gatto nero – è stato sostituito prima da entità sconosciute e malefiche (penso ai primi duemila con The Blair Witch Project e Paranomal Activity) e poi da qualcosa di più tangibile, di più ‘disturbante’ (traducendo alla lettera un aggettivo caro alla critica inglese) come l’intrusione non gradita di sconosciuti (vedi The Strangers, You’re Next o la più recente versione di Funny Games). In un certo senso la paura – quella cinematografica – ha smussato gli angoli, ha nascosto molto sangue e ha abbassato la voce. Non tanto per rendersi più presentabile quanto più per assecondare una tendenza generale a una psicosi silenziosa – perché se tutto è stato detto e tutto è stato fatto allora anche il linguaggio dell’horror dovrà trovare nuovi strumenti di comunicazione. Possiamo dunque relegare una categoria alla sua sola espressione estetica? L’horror è soltanto sangue e violenza oppure può camuffarsi sotto altri panni all’apparenza più candidi? I nostri nonni temevano i vampiri e le streghe. I nostri genitori gli incontri ravvicinati del terzo tipo. A noi viene un infarto se qualcuno viene a bussare alla porta (o a suonare il citofono). L’orrore moderno è un vaso di Pandora senza fine, un contenitore di paranoie scintillanti, tutto attrae e tutto spaventa. In questo modo la narrazione dell’horror ha trovato canali di comunicazione che prima non esistevano. Ha scovato terreno fertile dove un tempo il seme della paura non riusciva a germogliare. Penso a Midsommar, con i suoi prati verdi e le corone di fiori. E poi penso al pluri inflazionato Parasite, che è un ottimo esemplare ibrido che raccoglie varie sfumature di genere: dalla commedia al dramma e poi dal thriller fin quasi all’horror – con tutte le sue variazioni sul tema. Il film di Bong Joon-ho racconta molto bene la dinamica dell’invasione di campo – subita o perpetuata – e riesce in maniera elegante, ma sempre disturbante, a generare una nuova forma di tensione che si distacca da quella classica, immortalando quella che oggi come oggi sembra essere la paura più grande: l’intrusione. Parasite parla anche di frustrazione sociale, di una guerra afasica tra successo e fallimento. Racconta molto altro ancora con un quadro in scala 1:1000, perché la casa – con le nostre quattro mura – non è altro che un piccolo universo. Ma di questo ne abbiamo già ampiamente parlato. Infatti ancora prima di Parasite, nel 2018, Time Share (Tempo Compartido) ha raccontato una vicenda familiare dai risvolti terrificanti, proponendo una storia inquieta che fa sorridere e a tratti terrorizza. Sebastián Hoffman, scrittore e regista del film, è un brillante autore messicano che aveva già calpestato i tappeti dei maggiori festival indie internazionali, primo tra tutti il Sundance Festival dove nel 2013 debutta con Halley. Dopo il primo horror dai confini ben delineati, Hoffman cambia tonalità e registro, e con Time Share sembra quasi di partecipare a un party psichedelico dove i corridoi labirintici conducono a infinite porte colorate dietro le quali si nascondono oscuri scenari e misteriosi segnali; ricorda un più loquace Gaspar Noè che strizza l’occhio a J.C. Ballard. Eva e Pedro sono una giovane coppia in vacanza e insieme al loro figlio approdano all’Everfield, un gigantesco complesso di multiproprietà appena acquisito da quella che appare essere una spietata società americana. La tranquillità dei tre è immediatamente sconvolta dall’arrivo di un’altra famiglia che sembra aver prenotato lo stesso appartamento. L’errore del resort viene preso alla leggera e così i responsabili dell’accoglienza propongono alle due famiglie di condividere lo spazio, una soluzione che se accettata dai clienti comporterà succosi vantaggi. Abel, il padre portavoce della seconda famiglia, sembra accogliere di buon grado la proposta. Al contrario Pedro si adopera subito per risolvere la questione e mantenere l’utilizzo esclusivo della proprietà. Le differenze tra i due nuclei familiari sono subito palesate. Da una parte Eva e Pedro dalla più giovane frangia borghese, mentre dall’altra ci sono i ‘sempliciotti’ (e più numerosi) guidati dallo scamiciato Abel. Lo scontro di classe al centro della storia si trasforma subito in un’intricata matassa nera (o meglio: noir), anticipata anche da un prologo enigmatico che mostra un‘altra coppia chiaramente traumatizzata. Le due famiglie sono dunque costrette alla convivenza e alla condivisione di abitudini e attività vacanziere che illuminano a piena luce le profonde discrepanze tra le parti. Pedro teme una sorta di contagio da parte degli altri che potrebbero – secondo lui – abbassare il livello IQ del figlio; li disprezza e si fa disprezzare da tutti. La diffidenza di Pedro verso quella che – secondo i suoi parametri – può essere definita clientela di serie B, va oltre la sottostima di una categoria sociale (la classe operaia? Il popolo oppiato?) e oltrepassa il pregiudizio fino a raggiungere la consistenza acida della paura, quella vera e propria. Abel infatti si insinua di prepotenza dentro i fatti di Pedro. Lo costringe a un entusiasmo fasullo mentre lo scenario intorno a loro esplode in un vortice di cocktail, cene, giochi di ruolo e piscine sovraffollate. La nausea che sentiamo è un fastidio generato da tutti i partecipanti a questo gioco al massacro, un massacro silenzioso che utilizza come arma di distruzione di massa la spersonificazione e l’annichilimento delle umane espressioni, riducendo ogni gesto e ogni intenzione a un sistema ben calibrato di acquisizione dati. Pedro sembra essere l’unico a rendersi conto delle reali intenzioni del mostro Everfield ma una parallela microstoria smaschera finalmente i sotterfugi dell’azienda, gestita da un insolito RJ Mitte (il ragazzo dalle mille colazioni di Breaking Bad) che mira alla manipolazione mentale sia dei clienti che dello staff. Gloria e Andres vivono e lavorano da anni nel complesso di multiproprietà. Il loro matrimonio è ora messo in crisi non soltanto dalla noia e dalla subdola prigionia ma anche dalla loro diversa ambizione. Mentre a Gloria viene offerta una posizione rilevante all’interno dell’azienda, Andres resta bloccato all’angolo con scarse possibilità di crescita. Un’altra guerra fredda che esplode, altri corpi che si lacerano sotto schegge di sogni infranti e fallimenti che si aprono come piaghe infette. La paura, di nuovo, non è un mostro dagli occhi rossi ma una soffocante sensazione, uno spirito che soffia sul collo e sussurra parole inquietanti. Le stesse parole che pronuncia il responsabile delle vendite (RJ Mitte) durante una speech motivazionale per i nuovi assunti. Nella loro mente dipingeremo un quadro che non rappresenta chi sono, ma chi diventeranno. La generazione dei trentenni di oggi, forse più della altre, ha convissuto con questo mostro sotto il letto per notti intere, per anni e anni, per poi rendersi conto che l’orrore dell’arrivismo è solo uno spauracchio e il fallimento è una cantilena che ronza negli orecchi di tutti. La paura non fa paura – anche in questo film – la paura da fastidio, è qualcosa d’ingombrante, come una preoccupazione o una fobia cronica. Il classico registro narrativo ed estetico dell’horror vuole che sia un’entità oppure un particolare personaggio ‘cattivo’ a sterminare corpi e menti. Eppure esistono centinaia di altre umane circostanze che possono essere definite orrorifiche. L’impiegato, l’avvocato, il medico e il banchiere e poi il matrimonio, la vacanza, la casa al mare e il mutuo da pagare sono stati e sono ancora pugnali conficcati nelle orecchie. Sono lame sottili che lavorano sotto pelle fino a lasciare soltanto polvere di ossa e cenere di speranze. Andres e Pedro in qualche modo sono i paladini di una giustizia umana, una giustizia che vorrebbe vedere autenticità e libertà a governare la vita. Eppure sono colpevoli anche loro – lo sono tutti in questa storia – di eccessiva manipolazione delle proprie e altrui intenzioni. Tornando a noi: casa nostra non si tocca e chi lo fa rischia grosso. Questo è l’orrore che vediamo in molte storie contemporanee. E anche in Time Share il mostro non è uno soltanto ma sono tutti e sono addirittura coloro che abitano la propria dimora. Questo è un film vasto, che ficca il naso in ogni angolo della casa, in ogni tasca e nei più segreti anfratti della personalità. L’ansia che provoca il luogo / non-luogo delle multiproprietà, propagandato anche da una pubblicità stomachevole, si unisce infine a quello che è stato il primo trigger point del film: la condivisione. Il furto dell’intimità casalinga, la perdita della proprietà e (perché no) dell’identità, sono tutti temi cari al nostro vissuto e al nostro presente. E se una volta la chiave di lettura cinematografica di queste tematiche era perlopiù drammatica, adesso tutto può trasformarsi in una vicenda dai risvolti macabri. Come un vero e proprio horror, dove anche Il giardino dei ciliegi sarebbe un bagno di sangue. Share Tweet Share... Read more...Parasite: smells like poor spirits, un articolo di C. Francioni || Threevial Pursuit19 Febbraio 2020Parasite: smells like poor spirits di Chiara Francioni Parasite di Bong Joon-hu Parasite è l’ultima fatica di Bong Joon-hu, talentuoso cineasta sudcoreano già noto in occidente per la regia di Snowpiercer (forse il suo lavoro più conosciuto dal grande pubblico), e grazie al clamoroso successo guadagnato ha di fatto segnato la ribalta internazionale della cultura hallyu, oltre che un evidente miglioramento in fatto di gusto collettivo. A ogni modo, di tutta l’aurea mistica che circonda questo gioiello della settima arte, devo però confessare che è stato il titolo a conquistare, per primo, l’inespugnabile fortezza del mio interesse: Parasite. Mi sono infatti domandata: chi sono i parassiti di cui vuol parlarci Bong Joon-hu? Lo spaccato di realtà oggetto della satira sociale di cui andiamo discorrendo è quello della contemporanea Corea del Sud, terra non troppo distante dalla schizofrenica tirannide di Kim Jong-un e allo stesso tempo esempio di modernità e caccia sfrenata al progresso. Così, sullo sfondo di un tessuto sociale che ricorda molto quello occidentale, al punto da rendere tutto piuttosto familiare, assistiamo alla messa in scena di una macabra commedia, destinata a trasmutare in tragedia, attraversando in pratica tutti gli stadi della drammaturgia shakespeariana. Tutto comincia all’interno di un seminterrato situato nel cuore avvizzito di un quartiere popolare. Qui vivono i Kim: famiglia composta da un padre e una madre ormai da tempo disoccupati e da due figli incapaci di avere la meglio sul rigido sistema di reclutamento universitario. Sono poveri, privi di mezzi di riscatto, ma carichi di risentimento per l’ingiustizia sociale di cui si sentono vittime. Ci spostiamo quindi sulla vetta di una bella collina, dove si erige la prestigiosa villa dei Park, gioiello dell’architettura moderna. Il capofamiglia è un ricco uomo d’affari che può agevolmente permettersi di mantenere la giovane e bella moglie nullafacente e i due figli, il più piccolo dei quali connotato da una traboccante vivacità infantile che preoccupa i genitori, spaventanti da qualsiasi comportamento possa definirsi “sopra le righe”. Una delle scene iniziali di Parasite In estrema sintesi: poveri, da un lato, e ricchi dall’altro, rappresentati in modo essenziale in quella che sembra essere l’anticamera di un’inevitabile lotta di classe. La contrapposizione tra le due fazioni viene esasperata anche grazie al simbolismo della geometria. I Kim, infatti, vivono sotto il livello del mare, mentre i Park lo dominano dall’alto. E allo stesso modo le abitazioni delle due famiglie ne raccontano lo status sociale: l’indigenza dei Kim è rappresentata da spazi stretti e consumati, mentre il benessere dei Park è reso evidente dalla loro villa open space, attraverso la quale i suoi abitanti possono dimostrare al mondo di apprezzare l’arte, a prescindere dell’effettiva conoscenza del suo linguaggio. I poveri di questa storia non sono però dei disperati, sono invece animati da un forte spirito di rivalsa che riescono a tradurre in un arguto piano, ordito ai danni dei ricchi, grazie al quale finiscono per infiltrarsi nel loro tessuto domestico, facendosi tutti quanti assumere sotto mentite spoglie come collaboratori domestici dei Park. È quindi il momento della massima di comune esperienza, già sfruttata dagli autori sin dai tempi della commedia classica (il servus callidus plautino ti dice qualcosa?), secondo cui i poveri sono disgraziati ma scaltri e l’audacia di un buon piano risulta spesso essere più redditizia di soldoni sonanti. È il piano il protagonista di questa fase della narrazione, in cui tutto fila liscio in favore dei Kim, che sanno sfruttare intelligentemente le fobie e le ossessioni della classe dirigente, come la preoccupazione per il giudizio altrui, l’ipocondria e l’ossessione per il controllo. All’estremo opposto della scaltrezza dei Kim, c’è invece l’eccessiva ingenuità dei Park, tipica di chi non ha mai dovuto davvero difendersi dal prossimo in vita propria. Significativa in tal senso è la scena in cui il piccolo di casa fa notare alla madre che tutti i nuovi collaboratori domestici hanno il medesimo odore, senza che la donna ne tragga alcuna indizio. Anche l’odore è un tema importante in questo contesto. Viene infatti più volte sottolineato che i poveri hanno un cattivo odore, proprio come chi prende la metropolitana (dirà a un certo punto il Signor Park). Mi domando se, a questo punto, ci siano elementi sufficienti per provare a dare la risposta alla domanda di cui si diceva poc’anzi, che probabilmente adesso starà stressando anche le tue meningi: chi sono i “parasite” in questa storia? Sono forse i poveri, incarnati dai Kim, che sottovalutano i ricchi definendoli superficiali e naif? E che, trovandosi arresi, cercano di trarre giovamento dall’altrui benessere? O sono i ricchi stessi, rappresentati dai Park, che mal sopportano i poveri, giudicandoli sguaiati e impregnati di cattivo odore? In definitiva, con il loro stile di vita, consumano le opportunità di riscatto dei disperati, costringendoli a stagnare in un perpetuo stato di indigenza. Entrambe le risposte sono possibili, ma nessuna delle due mi sembra soddisfacente: troppo scontate e di certo questo aggettivo non si addice a Bong Joon-ho. *** spoiler alert *** Se non hai visto Parasite, potresti voler rimandare la lettura di questa seconda parte dell’articolo a dopo la visione. Se vuoi proseguire ugualmente, sei il benvenuto. Da qui in poi la storia entra nel vivo e il precario equilibrio raggiunto dai Kim, irrimediabilmente destinato a crollare sin dalla sua genesi, inizia a vacillare quando gli astuti impostori scoprono che la casa in cui si sono infiltrati nasconde un oscuro segreto. Per scovarlo, i protagonisti dovranno scendere nuovamente in basso (la geometria che ritorna) e introdursi in uno spazio ancora più angusto del loro seminterrato: lo scantinato che l’architetto, in preda al terrore paranoico condiviso da molti connazionali e legato alla minaccia di un’imminente invasione militare, ha cautelativamente realizzato sotto le fondamenta della sua opera d’arte. All’interno vive un uomo, nascostosi lì anni prima nell’intento di sfuggire agli strozzini grazie all’aiuto della moglie, ossia la ex domestica dei Park, fatta ingiustamente licenziare proprio dai Kim nell’ambito del loro geniale piano. In uno scenario di matrice marxista questo potrebbe assurgere a snodo fondamentale: il momento solenne in cui emerge, nella sua ineluttabile necessità, la volontà di rivoluzione, spingendo gli oppressi a unire le forze per sovvertire l’ordine sociale ed economico. Eppure, nell’impianto narrativo di Parasite non accade niente di simile. Piuttosto, in seguito al ritorno della ex domestica, intenzionata, insieme al marito, a rivendicare la precaria sicurezza che la vita alle spalle dei Park aveva donato alla sua famiglia, la trama subisce un netto twist. Si assiste, infatti, a una inaspettata e sanguinaria guerra tra poveri, che avanza in un brutale susseguirsi di attacchi e controffensive senza che i ricchi ne abbiano mai effettiva contezza. L’obiettivo?Guadagnarsi il ruolo esclusivo di intruso, evitando che il proprio segreto venga rilevato ai Park. La tensione inizia a crescere, dando vita a un climax fatto di macabro sarcasmo, a tratti sconfinante nel grottesco, capace di strappare risatine ma anche qualche respiro. Non si assiste, dunque, al profetizzato avvento dei prolet dell’epopea orwelliana, bensì alla degenerante espressione dell’istinto di sopravvivenza che porta i Kim a difendere, con le unghie e con i denti (e non solo) lo status fraudolentemente guadagnatosi. Una lotta che non può non comportare costi per entrambe entrambe le fazioni, e che darà il colpo di grazia al sofisticato piano architettato dai protagonisti. Sono proprio le parole che il padre impostore rivolge al figlio a farci capire quanto tutto questo sia tristemente vero. “Sai qual è l’unico tipo di piano che non può fallire? Nessun piano … Se fai dei piani la vita non va mai nella direzione sperata. Se non lo fai, niente può andare storto”. Tutto è quindi dovuto, per lo più, al caso: i ricchi sono ricchi principalmente per contingenza, così come i poveri sono poveri per la stessa motivazione. Quest’ultimi sono infatti costretti, loro malgrado, a subire l’eterno ritorno della loro sventura, mettendo da parte il rancore verso i benestanti che, in fin dei conti, non necessariamente sono la vera causa della loro sofferenza. Una rabbia che finisce per essere sfogata verso chi è più facile da fronteggiare, ossia i propri simili. Tuttavia, non sono i poveri i nostri parassiti, o almeno non lo sono più dei ricchi che sulle spalle dei poveri costruiscono ville imponenti. Pertanto il vero parassita di questa storia, talmente rilevante da guadagnarsi addirittura una menzione d’onore nel titolo, deve per forza essere un altro. Locandina di Parasite Il parassita non può che essere la deriva decadente del capitalismo. Tutto torna, in effetti, e non potrebbe essere più lampante (soprattutto se hai familiarità con la filmografia di Jong Boon-hu). La lettura dell’ordine sociale che ha imperato tra le menti illuminate degli intellettuali a partire dalla fine del XVII secolo, basata proprio sul principio di contrapposizione tra classi emerso in tutto il suo splendore con la rivoluzione illuministica dei francesi, trova qui il suo collasso. Non ci sono più strategie volte al trionfo della giustizia sociale e alla massificazione del benessere, ma solo un basilare bisogno di sopravvivere. L’impeto che muove gli oppressi è quello dell’autoconservazione: l’assetato bisogno di prendersi quello che il destino, terribile demiurgo, ha negato loro, donandolo ai ricchi senza che questi abbiano fatto niente di speciale per meritare cotanta abbondanza. Ma lo stesso concetto di povertà deve essere riletto: non miseria, bensì mancanza relativa di risorse. Quello stato che non è tipico delle popolazioni che abitano le zone più disagiate del pianeta, bensì di chi si trova, spesso suo malgrado, alla base della piramide sociale del nostro progredito mondo moderno: primi tra tutti i disoccupati. La velenosa infezione innescata dall’estremizzazione dei capi saldi del capitalismo e della società consumistica, ha tragicamente riscritto il dna della lotta di classe. Le risorse a cui si aspira non sono più solo quelle necessarie a soddisfare i bisogni primari, ma anche e soprattutto quelle indispensabili per accaparrarsi i bisogni indotti. Il nemico, quindi, non è più solo chi di tali risorse ne ha in abbondanza, ma anche colui che, trovandosi nella medesima condizione di indigenza, si pone come pericoloso rivale nella corsa all’oro farlocco del XXI secolo. Un parassita, la deriva capitalistica, che ha trasformato le menti e che continua a crescere, ben oltre quelli che sarebbero potuti esserne i naturali confini, e che rischia di trasformare la società nello stato di natura che Hobbes aveva invece contrapposto a essa. O almeno così sembra volerci dire Bong Joon-hu. Triste? Sì. Evitabile? Mi auguro. Ma non è questa la sede per proporre strategie volte ad assicurare un’equa redistribuzione della ricchezza. Qui si parla di arte, di finzione, insomma. E infatti probabilmente ci fingiamo intellettuali, speculando sul significato profondo di un film. Certo è che se un messaggio deve passare è meglio che sia quello più edificante. Ad esempio non vorrei che di tutto questo pezzo vi arrivasse solo la considerazione che i poveri puzzano. E, a proposito di messaggi, chiuderei con il più recente dei moniti lanciati da Bong Joon-ho che, di ritorno in patria dopo l’esperienza losangelina degli Oscar, ha salutato gli acclamanti giornalisti così. “I’ll diligently wash my hands from now on and partecipate in this movement to defeat coronavirus”. Sempre satirico, sempre sul pezzo, semplicemente geniale. Precisazione da snob: ho visto Parasite in lingua originale con i sottotitoli in inglese, pertanto il virgolettato è frutto di quella che oserei definire come la mia umile traduzione non letterale. Ma il senso è quello. Share Tweet Share... Read more...Bluagata: l’urlo della Generation Y, un articolo di A. Biagioni || Threevial Pursuit12 Febbraio 2020Bluagata: l’urlo della Generation Y di Andrea Biagioni Sono le undici di una fredda mattina dicembrina. Il cielo è terso, l’aria pungente. Sarà che mancano appena due giorni a Natale, ma questo lunedì mi appare lento, languido nei movimenti e negli occhi svogliati delle persone che mi sfilano davanti mentre aspetto il secondo caffè della giornata. In verità, non è solo il caffè che sto aspettando. Tra qualche minuto salirò su un’auto che mi porterà a Villa Basilica: un passo dalla Collodi di Pinocchio, poco più di una decina di chilometri dal bivio che separa Gragnano dal centro di San Martino in Colle e al centro del quale sorge una roverella di circa seicento anni. Ha il tronco largo quanto l’abbraccio di quattro persone e una chioma medusea, selvaggia e tortuosa che sembra abbracciare a sua volta tutto l’ambiente circostante. Sarà per questa sua forma inquietante e attraente, semplicemente diversa, che in tempi oscuri il popolo ha immaginato i suoi rami come lo scenario ideale per la celebrazione di sabba infernali, creando così il mito della Quercia delle Streghe. Non sto divagando per spirito di supponenza. Questa non è una digressione fine a sé stessa. Questa quercia ha un forte legame con ciò a cui sto per partecipare. È lei infatti che si staglia sullo sfondo di ogni concerto dei Bluagata. È sotto di essa che la band ha girato il video Mother / Ghost, primo singolo tratto dall’Ep The Disguises of Evil. Tra poche ore invece saremo sul set per le riprese del secondo video, Father / Poison. Dico saremo, perché inspiegabilmente mi ci sono ritrovato coinvolto anche io in questa storia. Dovrò infatti interpretare la figura tirannica del padre padrone. O perlomeno della sua ombra, come verrò a scoprire più avanti. Non so come sia loro venuta in mente questa follia. Non so se sia nata per gioco o cos’altro. So solo che un giorno ho ricevuto un vocale su Whatsapp, in cui mi si annunciava che sarei stato il loro antagonista in Father / Poison. Io, che ho due soldi di regia e uno di recitazione. In ogni caso, non potevo dire di no. Un po’ perché il mio ego già si scaldava all’idea. Un po’ perché sono affascinato dal progetto musicale di questi cinque soggetti che conosco da quasi una vita. Con alcuni di loro sono cresciuto. Con Folco e Alessia per esempio, rispettivamente chitarrista e cantante della band, ho condiviso sogni e ferite, successi e delusioni, risate, lacrime e sangue, ma soprattutto idee. Federico invece l’ho visto letteralmente crescere, da bambino che era, come uomo e come batterista. Con Lorenzo, bassista da strapazzo, è stata una bella giostra di bevute e partite viste al pub, deliranti lezioni universitarie e scambi intellettuali, cinematografici e musicali di non poco valore. Margherita, l’altra cantante, l’ho conosciuta in realtà appena due anni fa, ma se mi dicessero che è sempre stata lì, risponderei che è la verità. Eppure il fascino che mi attrae verso la musica, le parole e in generale verso l’idea che si annida nel profondo animale del progetto Bluagata non è legato a un sentimento di parte. Non li ascolto, perché sono amici e quindi li devo ascoltare. Non mi piacciono, perché devono piacermi, anzi. Sono sempre stato critico quando ho potuto, forse più critico di altri sia ora che in passato, e proprio perché sono miei fratelli e mie sorelle, conosco e apprezzo la loro intelligenza e quindi pretendo da loro più di quanto pretenderei da altri. Per questo, se sono qui oggi per fare un pezzo della loro strada, non lo faccio perché lo devo fare. Lo faccio perché sono curioso. Anche se ne abbiamo parlato in lungo e in largo, ci sono ancora molti aspetti che devo capire e che loro non possono spiegarmi perché fa parte del lato ineffabile della creazione. C’è qualcosa all’interno di esso che nemmeno l’artista riesce a definire, perché spesso è l’artista stesso a esserne inconsapevole. Io voglio capire l’inconscio del loro processo creativo e posso farlo solo entrandoci dentro. Come un’ombra appunto. Intanto siamo arrivati a Villa Basilica. Ci presentiamo finalmente sul luogo del misfatto. Ci accoglie in casa sua mauchi, regista del video e curatore grafico e fotografico del progetto. È uno di quei personaggi su cui potrei scrivere un intero THREEvial. Lo vedi e hai l’impressione di trovarti davanti all’archetipo del visionario. Ad attenderci c’è anche Teresa, che non è solo una make up artist perché due mani come quelle, capaci di tirar fuori da un volto l’inespresso dell’anima di chi quel volto possiede, sono il frutto di un genio degno dell’arte pittorica. Iniziamo il briefing. Io ascolto e nel frattempo non posso fare a meno di analizzare il percorso che li ha portati tutti fin qui. Mi rendo conto che quello che i Bluagata hanno deciso di affrontare è qualcosa di diverso, di non scontato. Sinceramente, neppure io che li conosco da vent’anni o quasi, avrei mai sospettato che fossero così pazzi da spingersi fino a questo: a cercare di emergere dalla massa, non facendo niente di quello che ci si aspetterebbe da una band nel panorama musicale italiano, dove l’originalità è solo una facciata sotto cui si nasconde l’usato sicuro. Perché se da quel panorama escludiamo il cantautorato, questo paese è musicalmente parlando la terra dei wannabes. Siamo invasi da wannabes wannabes del grunge, wannabes dell’hip hop, wannabes del metal e dell’hardcore, wannabes dell’elettronica e della trap. Non a caso siamo la terra delle cover band. Invece, i Bluagata hanno fatto una scelta complessa. Non hanno scelto un genere. Hanno preso le influenze e conoscenze musicali di ognuno dei propri componenti e la loro voglia di sperimentare, miscelandole. Non si fa punk o metal, non si fa pop o britpop, non si fa elettronica, non si fa cantautorato. Hanno scelto un non genere, che può essere solo loro e dove si può fare tutto, che rischia di voler dire niente se si incastrano male i pezzi che si hanno a disposizione. Mentre il briefing si conclude e s’inizia ad allestire il set, mi scopro a pensare proprio a questo, ovvero al fatto che in fondo l’arte sta tutta nella capacità dell’artista di trovare i giusti incastri. E ciò che mi stupisce dei Bluagata è la cura e la lucida consapevolezza nel posizionare i tasselli del loro personalissimo e immenso puzzle. I primi due lavori in studio, ovvero Sabba e The Disguises of Evil, le canzoni al loro interno, i video che le personificano, i live, la presenza scenica della band all’interno di essi, sembrano frammenti di un quadro complesso che pezzo dopo pezzo svelano ognuno un dettaglio, una parte del tutto: sia essa un oggetto, un volto o una scena. Sono quelle porzioni che nella ricostruzione di un puzzle si completano e si mettono per il momento da parte, in attesa che altre se ne formino e si possa finalmente arrivare al punto finale di collegarle tra loro per poter ammirare l’opera compiuta. Il progetto Bluagata è un elogio alla lentezza, alla pazienza in un’epoca in cui il mercato ha reso la frenetica corsa verso il successo il fulcro della creazione artistica, depotenziandone il messaggio. Invece, nei testi di questa band (e se una classe della scuola media “Convenevole da Prato” li sta studiando, un motivo ci sarà) il messaggio non solo c’è, ma ti prende pure a schiaffi, anche quando la musica ti fa ballare. Le loro parole sono allo stesso tempo un atto di accusa e di ribellione. L’ho capito ascoltando Church / Revenge, terzo brano di The Disguises of Evil. Ripensando al secondo verso di questa canzone, mi sembra di riuscire a cogliere quell’ineffabile che muove il motore interiore di questi artisti e di cui probabilmente anche i Bluagata stessi sono inconsapevoli. “I never thought my beauty’d be like a stone for you” canta Alessia. Sin dalla prima volta che l’ho ascoltata, quella frase me ne ha rammentata un’altra. Vandalism: beautiful as a rock in a cop’s face. Era l’adesivo che ha campeggiato per anni sulla chitarra di Kurt Cobain, mio primo amore musicale. In quella frase più che l’invito alla sassaiola, era sintetizzato il malessere di un’intera generazione, l’allora Generation X, contro un sistema autoritario che aveva deciso di mettere ai margini della società chiunque avesse una propria identità: un’identità diversa da quella comunemente accettata e consentita. Quel verso di Church / Revenge ha la medesima potenza espressiva. In esso c’è tutta la rabbia di una donna svilita dal bigottismo di un’istituzione morale che di morale ha ben poco, e che si riallaccia al concept del precedente album Sabba, dove ogni canzone era dedicata a una donna processata e condannata dall’Inquisizione e da una società oscurantista, che appare più simile alla nostra di quanto immaginiamo. È la stessa rabbia che proviamo in decine di milioni di fronte allo schiavismo legalizzato del mercato globale e che Worth / Slave esprime con puntale ferocia. È la voglia di smascherare le debolezze e le prepotenze che manovrano le azioni e i sentimenti di figure che siamo abituati a considerare benevole, ma che celano sotto la veste del proprio ruolo sociale la negatività frustrata della propria inettitudine e una perfida o indolente soddisfazione nel vedere i propri figli fallire così come loro stessi hanno fallito (Mother / Ghost e Father / Poison). Infine, è il disprezzo del masochismo che la razza umana perpetra su se stessa, cercando quasi ossessivamente il modo più lento e doloroso di annientarsi e di annientare l’ambiente che la circonda (Freedom / Treason). In definitiva, il processo concettuale dei Bluagata è il perseguimento di una rivoluzione intesa nel senso primordiale del termine, ovvero come capovolgimento di un sistema sociale malato che un manipolo di tiranni di bassa lega vuole farci credere essere ben congeniato, giusto e immutabile. E vuole pure convincerci che se c’è qualcosa di sbagliato al suo interno, quel qualcosa siamo noi perché non siamo abbastanza “devoti alla causa”. Invece noi non siamo altro che una generazione stuprata. Una generazione resa schiava e vittima dalla cecità di chi prima di noi ha lasciato dietro di sé solo macerie sociali, non mantenendo le promesse fatte. In un’espressione, noi siamo la Generation Y (anche se adesso vogliono schifosamente chiamarci Millennials). Ora capisco perché i Bluagata hanno deciso di affrontare un simile percorso. Soprattutto, capisco perché hanno pensato che fosse arrivato il momento di abbattere i generi, sia musicalmente che concettualmente parlando: perché sono stanchi e incazzati, come tutti noi. E questo li ha resi ambiziosi. Chi ha davvero grandi ambizioni, non accetta compromessi. O si fa alla sua maniera o niente. Gloria o fallimento. Non esiste nient’altro, nessuna via di mezzo. Non so fin dove arriveranno, se riusciranno a soddisfare queste ambizioni, ma comunque vada almeno ci avranno provato. Avranno provato a essere l’urlo di una generazione. E ci vuole coraggio per questo. Per il resto, io non sento di avere altro da dirvi. Ho scritto fin troppo. È tempo di riprese per me, adesso. Non pretendo né di convincervi dei miei deliri né di influenzarvi. Ascoltate, vedete e giudicate voi. Non sono io che devo spiegarvi qualcosa, siete voi che dovete comprendere. Io sono solo un’ombra. E adesso si va in scena. Father / Poison Share Tweet Share... Read more...La meditazione ai tempi dell’Ikea, un articolo di S. Natali || Threevial Pursuit5 Febbraio 2020La meditazione ai tempi dell’Ikea di Sara Natali Una sera sono stata a un incontro sulla meditazione con un lama (maestro) buddhista, al quale eravamo invitati a porre delle domande. Poiché nessuno osava rompere il ghiaccio, ho alzato la mano e ho chiesto: «Cosa fare con la rabbia durante e/o dopo la meditazione?» Devo premettere che io e la meditazione ci conosciamo da appena due anni: sono quindi un’utente inesperta di questa pratica e, dopo una full immersion durante il mio ultimo viaggio in Oriente, sono ormai alcuni mesi che l’ho accantonata. Una delle ragioni di questa decisione è proprio la sensazione di rabbia che spesso nasceva in me dopo la pratica. Ogni volta che mi sedevo a meditare, infatti, speravo di calmare la mente – badate bene, dico proprio “sperare” – perché so che non dovremmo “volere” qualcosa meditando, ma al contrario essere neutri: non riuscendo a esserlo credo che, inconsciamente, io ritenga meno grave “sperare” che “volere” la calma. Spesso mi accadeva di cominciare la meditazione con una buona attitudine positiva e finivo spossata, nervosa e frustrata; e poiché giudicavo queste sensazioni inappropriate, mi arrabbiavo. Quindi ho lasciato da parte la meditazione per un po’, dicendomi che forse per il momento non era cosa per me. Ecco perché, quando mi è stato proposto di partecipare a questo incontro, mi sono detta che sarebbe stata l’occasione buona per avere una risposta da qualcuno che se ne intende. Devo ammettere che la sera stessa ero un po’ scettica, temevo che non avrei ottenuto granché da questo lama, non più di quanto posso aver ottenuto in passato da altri esperti meditatori, guru o guide spirituali. E infatti, come volevasi dimostrare, alla mia domanda, il lama replica sfoderando i cavalli di battaglia della filosofia buddhista come: La rabbia è un riflesso dell’ego e l’ego è il tuo nemico.Non dare importanza alla rabbia, ma focalizzati sull’oggetto della tua meditazione.Ci vuole pazienza e molta pratica.Ci vuole molta, molta pratica.I risultati positivi che tutti sperano ottenere dalla meditazione si ottengono dopo anni e anni di pratica.La rabbia è un sentimento malvagio che inoltre distrugge il karma buono, quindi non ti conviene nutrire la tua rabbia.Per sconfiggere la rabbia, e quindi l’ego bisogna praticare l’amore compassionevole. A questo punto la prima cosa che mi è sorta spontanea pensare è stata un molto shanti: “Grazie al cazzo”, ma anche: “Ok, benissimo, questo è quello che teoricamente dovremmo fare, e ne afferro completamente la giustezza; ma mi scusi signor lama, per la maggior parte di noi esseri umani questa rabbia, per quanto sbagliata possa essere, è pur sempre presente, e trovo molto riduttivo incollarle sopra una grossa etichetta rossa con su scritto ‘CATTIVA’ e riporla nello scomparto Cose Brutte dell’Ego. Personalmente credo che già l’atto stesso di definire una cosa come “giusta” o “sbagliata” provochi nell’individuo che si sta adoperando per star meglio con sé stesso e con il mondo, un sentimento di frustrazione e di colpevolezza, perché non soltanto si trova a constatare che la rabbia c’è e resta lì, ma che oltretutto è sbagliata. Inoltre, a questo individuo, consapevole di avere un problema con la rabbia che magari ne soffre pure, gli rincarano la dose dicendogli che oltretutto si sta sputtanando il karma. Non vedo come questo approccio possa generare un progresso positivo nella mente dello sventurato. Per questo ce l’ho un po’ con il pensiero buddhista, perché fa sembrare facile e scontato ciò che per la maggior parte di noi occidentali non lo è affatto. Già ci aveva provato qualcun altro dicendoci di porgere l’altra guancia a colui che reca l’offesa e onestamente non ha fatto una bella fine. Non dico che l’amore, il distacco dall’ego e accettare la realtà così com’è sia sbagliato o impossibile da mettere in pratica. Anzi, penso che sia giusto e nobile, anche se personalmente sento di essere “umana troppo umana” per riuscire nell’intento. Cari miei Lama, so che a voi sembrerà strano, ma per la stragrande maggioranza della popolazione mondiale i sentimenti brutti e cattivi ci sono, e in genere sono il riflesso di qualcosa di più profondo, quindi penso che valga la pena indagarci un po’ sopra piuttosto che ignorarli. In parole povere, l’insegnamento buddhista è molto saggio e molto bello, ma difficile da applicare per un principiante, o un principiante particolarmente nervoso. Poco tempo fa mi sono ritrovata a leggere un libro che per me è stato liberatorio. Lo scrittore è Fabrice Midal, un filosofo francese, e il libro s’intitola Foutez vous la paix! che è un modo colorito di dire “datevi pace”. In questo libro Midal, che pratica e insegna meditazione da più di vent’anni, sdrammatizza questa pratica riducendola alla semplicità assoluta che è: “Sii ciò che sei in questo preciso istante in questo posto, senza controllare niente e senza giudicare niente”. La meditazione, secondo Midal non deve essere vista come un magico strumento con effetti calmanti, o un antidolorifico. Oggigiorno siamo così schiavi dell’iperproduttività, della velocità, del multitasking, che ci aspettiamo che anche la meditazione ci dia dei risultati immediati. Solo che la meditazione non si basa sul trasformare, ma sull’accogliere, e in primis bisogna accogliere noi stessi. Ecco perché storco il naso quando la si vuole inserire in uno schema fatto di regole, tempistiche e traguardi. La meditazione non dovrebbe aggiungere né togliere niente a quello che già c’è. Tutte cose che, a conti fatti, saggi, guru e lama sanno sicuramente meglio di me. Ma allora perché, sebbene essi ci forniscano gli strumenti, spesso non si riesce ad afferrarne il mistero? La risposta che sto per darvi è personale e ci sono arrivata gradualmente: perché non c’è un’unica via. Crediamo che coloro che sono arrivati in fondo al mistero dell’esistenza (oggetto ultimo di riflessione e meditazione) ne detengano anche la chiave, che da semplici esseri terreni quali siamo riduciamo al segreto della felicità. Cerchiamo, io per prima, di trovare una logica in un qualcosa che trascende ogni logica. Cerchiamo fuori di noi conferme a verità che ci appartengono già, ma che non abbiamo il coraggio di accogliere come nostre. Allora deleghiamo qualcuno o qualcosa di più autorevole per farlo al nostro posto, per approvare o smentire le nostre idee, per guidare le nostre prossime azioni. E quando queste autorità falliscono, quando qualcosa non funziona, allora sorge la frustrazione, e poi la rabbia. Ma la rabbia altro non è che la paura mascherata; la paura di accorgersi che in questo percorso interiore siamo soli e responsabili delle nostre scelte e della nostra felicità. Quando ci se ne rende conto per la prima volta si apre un baratro di terrore e senso di libertà. Prendiamo questo esempio: ogni essere umano deve montare un mobile; ognuno ha in dotazione i pezzi, tanti, tantissimi, e alcuni veramente piccoli e astrusi, e l’immagine del modello finito, ma niente istruzioni. La faccenda sembra complicata ma tu non vuoi arrenderti davanti alle difficoltà, e decidi quindi di cominciare a montarlo a occhio. Dopo innumerevoli tentativi, i risultati non ti soddisfano per niente: il mobile non assomiglia affatto all’immagine finale. Ti chiedi se sei in possesso dei pezzi giusti, o se tu non stia piuttosto saltando qualche passaggio. Decidi di sbirciare quelli vicino a te per vedere a che punto sono: stessa identica situazione. D’un tratto capisci: il tuo mobile, così come quello degli altri, non potrà mai assomigliare all’immagine compiuta, perché i pezzi sono sempre diversi e le istruzioni non esistono. Ogni essere umano ha la responsabilità di creare il suo mobile, e la scelta dei pezzi da utilizzare degli incastri spetta solo a lui. In fondo, se penso a cosa posso imparare da questa famosa rabbia è di non accettare che siano gli altri a dirmi cosa sia meglio o peggio per me, perché nessuno è me eccetto me, ed è proprio laggiù in fondo la vera saggezza. Share Tweet Share... Read more...Sardine: roba da millennials, un articolo di R. Dell’Ali || Threevial Pursuit29 Gennaio 2020Sardine: roba da millennials di Roberta Dell’Ali Annunciazio’ annunciazio’ Signori e signori, ragazzi e ragazze, bambini di tutte le età: l’Emilia non s’è legata. Voglio un B-O-A-T-O! Cos’è, voi lo davate per scontato? No, perché qui noi ci stavamo cagando sotto. Noi, piccolo esercito di fuorisede, ospiti di mamma Bolo, sempre buona e sempre casa. Il 26 gennaio è stata una domenica pesantissima per noi, pigra e misantropa, comunemente chiamata pigiamenica, tutta votata al distrarsi da quello che stava accadendo fuori: le regionali, elezioni per cui noi – domiciliati a Bologna, ma non residenti – non avremmo potuto votare, elezioni per cui noi siamo scesi comunque in piazza a manifestare. Sapevamo di non avere il potere di cambiare materialmente le sorti, ma sappiamo di fare parte di questa città che ci fa respirare e che respira tramite noi, studenti che ne riempiono le vie e ne fanno vociare i portici la notte. L’intera giornata di domenica è passata in una paranoia così densa da indurci, di sera, a impastare e sfornare pizze, poi abbiamo giocato con Cards Against Humanity, che almeno fa ridere, e atteso trepidanti che Mentana arrivasse e ci dicesse qualcosa con tutti quei suoi sondaggisti, opinionisti e giornalisti. Dalle 23.00 alle 2.15 ho tenuto gli occhi fissi sul piccolo schermo del mio computer. Ma ti immagini che schifo se domani apri gli occhi e Bologna è leghista? La domanda è rimbombata in loop per ore, fino a quando hanno annunciato la terza previsione con un margine di errore minimo e hanno dichiarato la vittoria di Bonaccini; saranno state le tre meno un quarto quando ho sentito tutto il mio corpo cedere e crollare su sé stesso. Mi sono ritrovata la mattina dopo accasciata sul letto, tutta storta, col pc ancora sulle gambe e completamente avviluppata nel mio morbido plaid rosso cinigliato. Il timore più grande era quello di svegliarmi e sentirmi come era già successo nel lontano 2016, quando stavo a Londra e, un giorno di giugno, il sole s’è alzato coperto dalle nuvole e da un bel “sì” alla Brexit. Avevo paura di ritrovarmi di nuovo spiazzata e incredula, ma qui in Emilia Romagna, nel 2020, per fortuna, splende ancora il sole e il cielo del lunedì mattina è terso. Anche se, certo, la vittoria di Bonaccini il problema lo argina ma non lo risolve. Gli unici commenti che mi sento di fare sulla vicenda elettiva li lascio alla citazione di due messaggi ricevuti durante la nottata su Ziribipi, uno storico gruppo WhatsApp creato qualche anno fa dal primo nucleo d’amici bolognesi, giusto per non sottovalutare le alte percentuali a destra. Abbiamo prima l’amico MarcoBelliCapelli che così si pronuncia sulle elezioni della regione a nord. «Festa per l’Emilia ma lutto nazionale, piccio’! Siamo costretti a festeggiare il nulla». Poi c’è il mitico GioGi di Palieimmu che commenta alacremente: «Calabria, welcome to 1994 again». Entrambi secondo me c’hanno ragione, ma tra il nulla da festeggiare e Silvione immortale qualcosa di nuovo c’è. Parlo delle Sardine, le hanno messe in ballo sia Mentana che Ziribipi. La domanda più ovvia da farsi è quanto c’entrino loro con la vittoria di Bonaccini in Emilia: un onesto “abbastanza” mi sembra la risposta più appropriata. Credo, comunque, che non sia questo il dato essenziale riguardo ‘sti pesciolini qui. Bentornati in mare aperto Il 19 gennaio, dopo essermi ingozzata come un babbuino in osteria (vellutata di zucca con cuore di burrata e poi le dee Lasagne, che dio benedica e protegga le sfogline sempre!) io, la mia amica Prior e le nostre panze tonde tonde, siamo andate in piazza VIII Agosto, ché c’erano le Sardine. Alla prima manifestazione delle Sardine, avvenuta come è ben noto a Bologna il 14 novembre, io non ero presente. Infatti stavo in un altro corteo, quello che intendeva andare al PalaDozza, dove la candidatura della Bergonzoni veniva lanciata dal leader della Lega e la cui capienza (cinquemilacinquecentosettanta posti) era l’indice della sfida proposta da Sartori in piazza Maggiore: essere solo seimila sardine. Comunque il corteo nel quale mi muovevo non ha potuto fare molto altro che cantare, accendere qualche fumogeno colorato per far scena e camminare per ore: il Paladozza era completamente circondato da digossini, un numero così impressionante da spingere me e Ada, gloriosa Ada, a farci un selfie con la Digos che si stendeva dietro a perdita d’occhio. C’è stata una scena quel giorno che mi ha fatto tanto ridere e tanto bene: in pratica stavo aspettando un po’ di gente amica che usava il bagno in un bar di via Pitralata e me ne stavo appoggiata al muro, fumando una sigaretta. Nel mentre il corteo di giovani baldanzosi continuava a fluirmi davanti, fino a esaurirsi nella sua coda, cioè un plotone di agenti in tenuta antisommossa che se la chiacchierava e ghignava. Guardavamo questa sfilata armata io e una signora abbastanza in là con gli anni, che stava affacciata dal suo balconcino al primo piano. Lei continuava a guardare me e poi la Digos, poi ha fischiato in direzione degli agenti: «Fate i bravi, mi raccomando, ché son ragaSSi! Bravi ragaSSi!». Così gli ha detto e se n’è rientrata. Non so, ma ho sentito l’appoggio della signora, ho sentito il suo affetto e la sua preoccupazione per me, per noi, che non avremmo votato ma che siamo parte di questa città. Che non abbiamo possibilità di parola, ma l’obbligo di subire tutto. Come dicevo, il 19 gennaio io, Prior e la nostra squadra di fuorisede è sbucata da via Irnerio ed è arrivata in piazza intorno alle 15.30: stavolta non volevo proprio perdermela. Nonostante il pomeriggio fosse appena iniziato la piazza era già piena e, in giro, sembrava tutto un circo di pesci antropomorfi: c’erano un delirio di gente colorata a contrastare il grigiume celeste e sardine ovunque. Mentre iniziavamo l’operazione di sfondamento per sgusciare da qualche parte vicino al palco, mi guardavo intorno. i chiedevo se tutte quelle persone raccolte valessero qualcosa di buono davvero o se fossero lì solo per il concerto. La line-up faceva gola, diciamocelo. Ma davvero eravamo lì solo per la musica? No, non era la musica, ma la necessità di avere voce in un sistema livido e delirante che non lascia spazio a chiunque non parli la lingua della politica tradizionale (a tal proposito mi viene sempre in mente Propaganda Live: avete presente l’onorevole Barbazzi? Ecco, con scappellamento a sinistra!). Comunque l’attraversamento della pacifica marea umana è andato bene e, dopo un po’ di fatica e passaggi strettissimi, la posizione avanzata che speravamo di ottenere era stata raggiunta: una volta arrivata lì, ho cominciato a girare in un turbinio tutto strano di emozioni. A parte la banale questione di sentire la me sedicenne venire fuori con prepotenza a guisa di Modena City Ramblers, Afterhours e Marlene Kuntz, quel pomeriggio ho sentito qualcosa che non avevo mai conosciuto prima, ovvero la sensazione di fare parte di un intero. Una sensazione tanto viva da farmi essere avventata e spingermi, nel bel mezzo della faccenda, a mandare a Biagio un video della situazione, con allegato un messaggio che qui cito: ‘Oh Biagio, io sono qui e un pezzo ce lo scriverei’. Non avevo valutato quanto l’argomento fosse fuori dalle mie corde, totalmente persuasa che un senso così pieno di connessione non potesse non valere lo sforzo della comunicazione. Ed eccoci qui, ovviamente in merda con le parole, ma con la convinzione che davvero tutte le piazze italiane degli ultimi mesi andrebbero raccontate. Le piazze delle Sardine, dico, pesci meritevoli di aver risvegliato la voglia di esserci e aver ribilanciato la carica di odio avanzata con potenza nell’ultimo anno. Piazze variegate che vogliono dialogo, che forse non hanno una proposta politica avvincente, ma che concretamente intendono creare un linguaggio nuovo, attuale e capace di cogliere istanze diverse da quelle vigenti quarant’anni fa. La giornata in piazza VIII Agosto io l’ho trovata molto molto bella e, soprattutto, m’è sembrato che la sua realizzazione materiale non sia venuta meno da quanto i social (social sociali) sembravano raccontare: musica coinvolgente per tutte le età (dagli Skiantos a Marracash è simbolicamente potente il messaggio, no?), tanti interventi, molta poesia e una buona dose di comicità. In molti momenti mi sono commossa, un po’ perché c’ho la lacrima facile, un po’ perché ho trovato tanta bellezza nella riuscita di quella domenica; per esempio mentre migliaia di persone, tutte insieme in una fottuta piazza, ascoltavano un enorme Chaplin che così monologava. «Combattiamo per mantenere quelle promesse. Per abbattere i confini e le barriere. Combattiamo per eliminare l’avidità e l’odio. Un mondo ragionevole in cui la scienza ed il progresso diano a tutti gli uomini il benessere. Soldati! Nel nome della democrazia siate tutti uniti! » Bentornati in mare aperto. Così titolava l’evento delle sardine e, per come l’ho vista io, è stata una giornata di riflessione collettiva. S’è parlato di mafia, di integrazione, d’ecologia: temi solo sociali a quanto pare, non politici. Inoltre davvero quella piazza non è stata d’odio o contro qualcuno, a parte un coglioncello partito col «SalviniMmerda» prepotente e subito fermato perché proprio non era il caso: tutti i presenti erano concentrati ad ascoltare e ad esserci. A me sembra una grande svolta l’esserci, anche perché mi pare che stesse restando più nessuno a mantenere il focolare. Ma che ne so io del comunismo brutti scemi Se non vi secca, il racconto riguardante la domenica bolognese con le Sardine lo lascio un attimo da parte. Sì, perché vorrei invece inserirmi in una questione spinosa che, volenti o nolenti, le Sardine hanno rimesso in ballo: (rullo di tamburi..) i giovani e la politica! «Ah, voi giovani siete completamente disinteressati e inconsapevoli!» Quante volte l’ho sentito dire, davvero non saprei contarle. E forse è anche un po’ vero. Dico un po’ perché credo che la spiegazione dietro la situazione politica giovanile, senza bandiera e senza partito, sia sensibilmente più complicata di un semplice disinteresse o una superficiale inconsapevolezza. Ultimamente, per ragioni di ricerca e fascinazione personale, mi sono addentrata nella Bologna di fine anni Settanta: un giardino florido e magnifico infangato dall’ombra scura dell’eroina e della lotta armata. Qualche mese fa, mentre cercavo di svelare i meccanismi dell’editoria italiana a cavallo tra 1975 e il 1985, mi sono ritrovata a intervistare un editore sulla sessantacinquina, un signore originario di Carpi e studente del DAMS di Bologna nel 1977. Il buon M. mi ha raccontato cose superbe di giovani creativi e pieni di ideali, mi ha detto di una politica viva e partecipata che a un certo punto è sprofondata in una violenza paurosa e imperante. Riporto uno stralcio di intervista che commenta la deriva violenta della lotta politica e che trovo molto interessante. «La gente ha finito per chiudersi in casa, mettendo in moto quel meccanismo implosivo per cui le contraddizioni si sono risolte o con la violenza o con l’immersione nell’individualità. Allora dicevamo “il privato è politico”, ma quella situazione ha generato un altro paradosso, facendo diventare il privato il tuo mondo e la tua sfera di interessi. Così quelli che temevano la violenza si rifugiavano o nel privato o negli allucinogeni, costruendo uno spazio emotivo e personale che li proteggeva, ma che allo stesso tempo li isolava. Così la società contemporanea – una società in cui sorge un problema quando non si è né produttori né consumatori e in cui l’idea di mercato è l’unico motore dello sviluppo – risponde alla droga con l’espulsione sociale, alla violenza con la galera e all’immersione nel privato e nel personale con l’offerta di beni di consumo». Gli anni Ottanta, insomma, hanno avuto il grosso onere di far dimenticare, di allontanare quei giorni di scontro ideologico e di violenza. Direi che gli anni Ottanta ce l’hanno ben fatta, tanto che io sono nata in un mondo che il volto della politica lo conosce solo deformato. Io sono nel 1993: quattro anni dopo la caduta del muro e uno prima dell’ascesa al governo di Berlusconi. Sono nata mentre l’apoteosi dell’individualismo sbocciava. Tutto quello che voglio dire è che la mia assenza politica, la mia non scelta, la mia codardia e, se vogliamo, la mia ignoranza, forse non sono del tutto imputabili ai cinquantasette chilogrammi della mia persona. Pretendere partecipazione politica old style da una generazione nata sotto l’egida di una politica che è altro da sé stessa e cresciuta all’ombra di canale uno, sul sei, mi sembra un pelo ridicolo. Le Sardine sono state ampiamente criticate, in particolare per non essersi schierate: la neutralità è il grande peccato di quest’epoca, la mancanza di un partito è valutata grave carenza. Ma pensiamoci un po’ su, vi prego. Perché, nel bene e nel male, a partire da quell’inaspettatamente partecipato 14 novembre in piazza Maggiore, le Sardine hanno avuto il merito di ridare fisicità alla partecipazione e di parlare una lingua comprensibile anche per gli ultimi nati. Prima al telefono un vecchio amico ha detto una cosa che mi è piaciuta. « È possibile che delle sardine debba parlare solo gente di settantacinque anni?». No, effettivamente non è possibile e nemmeno giusto. L’accusa che ultimamente ho sentito muovere alle Sardine è anche quella di portare sul piatto temi sociali e mai politici. Mi chiedo, sono davvero tanto diversi o vicendevolmente controproducenti? Che senso ha parlare di tasse, decreti e leggi elettorali se poi la mafia non è un problema? Come faccio a scegliere un partito se tutto sta in mezzo? E, soprattutto, come minchia fate a darmi della comunista solo perché chiudere i porti mi sembra una stronzata? Io, che il comunismo non l’ho mai visto né conosciuto, se non sui libri perché in Russia è finita male, e che menomalechesilvioc’è. Rischio di generalizzare, me ne rendo conto. Mi servirebbe più spazio e più tempo, perciò vi invito a guardare questo video che hanno proiettato in piazza VIII Agosto dieci giorni fa e che, a me, m’ha fatto ridere e specchiare. All Photos by Graziano Marani Share Tweet Share... Read more...La Guerra dei trent’anni, un articolo di G. Bindi || Three Faces22 Gennaio 2020La Guerra dei trent’anni di Gianluca Bindi Luci svolazzanti, visi arrossati nell’era serale del sudore. Il buio, il fumo, il freddo e, in un angolo, anche l’alcol ingerito a partire dalle 2 di oggi pomeriggio. I fianchi delle ragazze mi serpeggiano in testa tramite le aperture oculari. L’odore di umido mi si appoggia in faccia, chiudo gli occhi per non incrociare quelli di altre persone. Wow, hanno messo i Green Day. A volte le discoteche rock sono peggio delle estati zoppicanti del reggaeton. Un disco rotto, mi ritrovo passivamente ad ascoltare una musica inceppata ai gusti e agli standard dei miei quattordici anni. Passivo perché realizzo che non ci si può ribellare a ciò che la vita ti propina davanti a occhi/orecchie/naso e quant’altro. Un po’ come non si può non subire i bagliori dell’ambulanza che sta soccorrendo un tizio che non è riuscito ad avere una bella serata. Oltre alla possibilità che i lampeggianti blu scatenino pure a me un attacco epilettico, realizzo d’un tratto, in un quadro più generale, che non posso oppormi a quello che è fuori di me. Me ne rattristo. Continuo a ballare in maniera automatica, con il giubbotto addosso e una botta strana che non va né giù né su, è costante, rimane lì ferma, esattamente a mezzo come l’ovosodo di Virzì. Ecco forse questa potrebbe essere una buona metafora per spiegare la modalità di esistenza in cui sono immerso. Infatti, la mia vita sembra un po’ diventata un ovosodo, un vagone in sosta su un binario morto della stazione di Borgo a Buggiano, che non va né a Firenze né a Viareggio. Rimane lì, fermo sulla rotaia. È come se sostasse per tempo indefinito sulle guide costruite apposta per permettergli il movimento, ma non facesse la cosa per cui in primo luogo è stato pensato: muoversi, appunto. Ed è grave, per quanto mi riguarda, soprattutto quando dovresti essere pronto per l’avvento imminente di una guerra. No, non la Terza Guerra Mondiale a cui Trump sembra tenere più della sua tinta di capelli, ma la mia personalissima Guerra dei trent’anni. Esatto: fra tre mesi avrò trent’anni e in questo momento mi sento leggermente impreparato a combatterli. Saranno ‘sti cazzo di Green Day che non mi vogliono proprio fare uscire i quattordici dalla testa; oppure, molto più verosimilmente, sarà il fatto che mi ritrovo a sbattere la fronte e i denti costantemente sul solito cazzo di muro, che sembra cambiare colori e fattezze, ma è sempre il solito cazzo di muro invalicabile che mi si para davanti nei momenti di stallo cosmico. Un muro a cui non posso oppormi e che, di conseguenza, mi fa posare gli occhi e le orecchie più del dovuto su una realtà che è diventata stantia. Movimenti sconnessi aritmici e inarmonici, lo sbattere delle palpebre, le spalle contuse con quelle di estranei con altre beghe in testa, a cui fanno finta di non dare attenzione almeno per una fottuta notte. Al contrario mio, evidentemente, perché pare che in questa notte maledetta mi sia partita la carrellata del decennio che sta per concludersi. Durante l’inverno di dieci anni fa fallivo l’ennesimo esame di una scelta universitaria a dir poco stupida, mi ribaltavo con la macchina a una rotonda, e allungavo le serate con fumate di gruppo sotto i portici a guardare la pioggia accompagnati dai Riders on the storm morrisoniani. Era proprio in quei frangenti che cercavo di stare nel momento, provando a percepirlo e riuscendo per un attimo a non pensarci troppo, a quel cazzo di momento, rovinandolo. Era l’alba del decennio, stavo per compiere 20 anni, e sentivo di poter fruire di una forza senza pari e di avere a portata di mano una serie di strade su cui utilizzarla dando forma ai miei futuri. Ero padrone dei miei destini, perché non ne avevo uno solo. Ne avevo molti e non volevo nemmeno sceglierne uno, perché poi dovrei per forza sceglierne uno, cazzo? Io li volevo tutti. Mi sentivo moltitudine ed ero affamato di avventure, di mostri e angeli. È stato anche il decennio delle carezze sottili, degli amori corti e infuocati, delle parole sussurrate piano all’orecchio, dei capelli scompigliati al mattino, dell’odore lunare di pelle leggermente sudata. Di vita che mi entrava senza sforzo in testa, senza per forza maledire i miei canali di senso. Non mi sentivo passivo nel ricevere tutto quel mondo, ma percepivo l’inebriante sensazione di averlo creato io stesso, di essere non più e non meno quello che mi ero meritato. L’aria era filtrata di Sole e giallo e arancione pesca. I sapori mi esplodevano in bocca e l’erba alta non mi irritava le gambe. Era anche il decennio del gelo, dei down bassi e disperati. Di quelli da non voler chiedere aiuto perché mi vergognavo di essere così inutile e schifoso al cazzo. I crateri che stavano forgiando la mia capacità di sopportazione e mi tempravano al mondo sono gli stessi che dieci anni dopo non mi fanno più sorprendere di nulla. La vita a (quasi) trent’anni è diventata l’infinita e pedissequa e ossessiva carrellata di cose già viste e sentite. Come i fottuti Green Day. Pensa a come ti sentiresti se per il resto del decennio vivessi la tua vita con i Green Day costantemente in sottofondo. Adesso, quasi all’alba dei trent’anni, i Green Day sono finiti. Non faccio più caso alla musica trascurabile da cui sono stati sostituiti. Forse dovrei concentrarmi su altre cose, tipo baccagliare qualsiasi essere dalle fattezze femminili mi passi di fianco, come fanno tutti gli altri, perché a trent’anni ci si sfoga senza sentimenti di sorta. Non penso che lo farò. Andrò passivamente a farmi investire dalla realtà da un’altra parte. A preoccuparmi su come armarmi per combattere ‘sta maledetta guerra e sfondare finalmente questo muro. O molto semplicemente andrò a letto, ché domani sarà una giornata in meno sul conto alla rovescia, realizzando quanto sia poco furbo combattere il tempo, guerra già ampiamente persa in partenza fin dalla nascita. Ma forse il giorno dopo aver compiuto trent’anni, mi accorgerò di essere esattamente quello che ne aveva ventinove appena un giorno prima. Forse il miglior modo di vincere la guerra dei trent’anni è non combatterla e andare avanti cercando di smuovere il vagone dal binario morto di Borgo a Buggiano con le proprie forze, un poco alla volta. E se proprio non si vuole muovere, provare a costruire nuovi binari. D’altronde, come salmodiava Giovanni Lindo Ferretti in uno degli incisi più taglienti della sua produzione musicale, l’unica cosa a cui puoi affidarti in questa casi è “l’instabilità che ci fa saldi ormai negli sradicamenti quotidiani”. Share Tweet Share... Read more...L’addio del “Chino” Recoba (pt. 2), un articolo di Cartavelina || Three Faces17 Gennaio 2020L’addio del “Chino” Recoba (pt. 2) di Cartavelina (Parte 1) La partita cominciò e Alvarito aveva ragione, erano troppo più forti degli avversari. E allora la nonna si focalizzò come promesso su Recoba: era distratto, non stava guardando in direzione del pallone. Forse era perso, in ricordi, forse si stava godendo, per l’ultima volta, il profumo dell’erba. Raccontò queste sue impressioni ad Alvarito e sul volto del bambino comparve un ghigno, chissà come stava elaborando, la sua mente, quelle parole. Il pallone, come se sapesse di dover omaggiare anche lui il Chino, si fece accompagnare, con un passaggio orizzontale, verso quei piedi che tante volte lo avevano coccolato. E Recoba fece Recoba, sempre però con quel suo ritmo da tanghero stanco, con quell’indolenza da calciatore anni ’50. Calzettoni alla cacaiola, sguardo da gringo che pensa a paesaggi lontani, con finta noia e indolenza accolse l’amica palla e iniziò un ballo dal sapore antico. Saltò due avversari che credevano di averlo stretto in una morsa mortale, del resto la palla ha sempre preferito lui ai molti. Mentre raccontava tutto questo ad Alvarito lui la interruppe. «Ti sembra triste?» «Perché lo dici?» «Non lo so, nelle tue parole sento tristezza». Donna Maria si rese conto di sentirsi davvero triste, non lo era all’inizio. Forse era quel modo diverso di vedere una partita, chiunque quando si approccia alla visione del gioco segue il fulcro dell’azione. Non guarda un unico giocatore, con le sue pause, le sue accelerazioni, nel caso del Chino poche. Si stava immedesimando in lui e lo aveva trasmesso al nipote. Dopo un’ora di gioco il Nacional era avanti nel risultato, il ritmo era blando e Recoba poteva far ancora vedere cose sublimi. Se il calcio fosse stato giocato sempre a quel ritmo avrebbe potuto giocare per altri vent’anni. Al 65′ Alvarito chiese alla nonna perché quel brusio. Lei non fece in tempo a rispondere, il suo posto venne preso dal signore che le aveva passato, in precedenza, un fazzoletto. «Calcio d’angolo per noi». Ora per la grande parte dei tifosi questa sarebbe una bella notizia ma niente per cui strapparsi i capelli. Però se in campo a difendere i tuoi colori c’è Alvaro Recoba, detto il Chino, allora la prospettiva di un angolo a favore cambia subito. Perché potresti essere uno dei fortunati che possono assistere dal vivo a un gol olimpico. Il gol da calcio d’angolo si chiama così in Sudamerica, perché si rende il giusto omaggio a quello segnato dall’argentino Cesàreo Onzari contro la Celeste, campione olimpica in carica che replicherà la vittoria quattro anni dopo, il 2 ottobre 1924. Tornando a El Parque, Donna Maria sentì il suo cuore fare un mezzo battito di assestamento come a volersi uniformare a quello di tutti i presenti, guardò Alvarito e lo trovò con la testa in alto come se guardasse le nuvole, perso in pensieri a lei sconosciuti. Tutti i compagni di squadra guardarono Recoba, il Chino si stava incamminando a testa bassa verso la bandierina. Conscio che quantomeno doveva provarci, non poteva deludere i presenti. Come alla sua ultima apparizione con l’Inter. Partita contro l’Empoli, ci provò e uscì il gol olimpico. Per accomiatarsi senza rancori, come un signore d’altri tempi che non può abbassarsi a provare fastidi. Con quel gol lasciò ai tifosi nerazzurri un’ultima perla, come a voler dire, “sarò stato indolente, spesso inutile ai fini del risultato ma se il calcio fosse solo risultato avrebbe davvero senso assieparsi dentro uno stadio? Non credo”. Rispetto al gol con l’Inter aveva qualche anno in più, taglio dei capelli sempre uguale ed era a casa. Fece una panoramica dello stadio, come a essere certo che avesse l’attenzione su di lui, e poi alzò la mano per chiamare un fantomatico schema. E gli venne da ridere, era un rituale di accoppiamento emotivo con le divinità del calcio. Andava preparato il terreno per un gol olimpico, bisognava far credere al portiere che ci sarebbero stati movimenti in area. Blocchi di qualche compagno per liberare il saltatore migliore. Il portiere avrebbe avuto un dubbio di difficile soluzione, fidarsi del braccio alzato e quindi lasciare sguarnito il primo palo o non abboccare ma rischiare che davvero poi la palla sarebbe stata scodellata in centro per un facile tap-in? E quasi sempre con lui i portieri facevano lo stesso sbaglio, stavano a metà strada. Provavano a salvarsi in entrambe le situazioni, gravissimo errore. Il Chino prese una breve rincorsa e colpì la palla con la delicatezza dei pochi. Quella compì una parabola beffarda e quando era a metà strada tra la bandierina e la porta, con tutto lo stadio immobile, l’unico che si alzò in piedi, braccia alzate e urlo forsennato, fu Alvarito. La palla, non curante, continuò la sua corsa andando a baciare distratta l’incrocio dei pali. Il tutto provocò due o tre particolari avvenimenti. Il portiere avversario si sentì morire, non per la testata data al palo nel goffo tentativo di salvare il non salvabile, ma perché era stato beffato. Lo stadio divenne un catino ingovernabile, qualcuno urlava smostrato come sotto effetto di allucinogeni di primissima qualità, qualcun altro si era alzato in piedi di scatto e poi si era lasciato cadere come colpito da un uppercut di un pugile non visibile, qualcun altro piangeva conscio che quello era un addio, la parabola della palla era un omaggio che il Chino aveva voluto fare al calcio. Calciatore non classificabile per le menti dei censori da scrivania, sempre pronti a boicottare la bellezza solo perché il loro animo non riesce a coglierla. E infine portò donna Maria a chiedere al nipote: «Come mai già esultavi, la palla non era entrata?» Rise Alvarito. «Essere cieco ha un unico grande pregio, devi sviluppare tutti gli altri sensi e te ne nasce uno ulteriore di cui voi non avete bisogno. Devi saper codificare l’elettricità che si sprigiona nell’aria prima di un grande avvenimento. Sai come l’odore di pioggia prima di un temporale? L’ho sentito nonna, la palla sarebbe entrata». Alvarito era felice, venne sollevato in aria dal signore che aveva dato a Donna Maria il fazzoletto. La partita non regalò molte altre emozioni, Recoba fece qualche tacco, si travestì ancora due o tre volte da illusionista e fece sparire e ricomparire il pallone a suo piacimento. Poi quando mancavano 5′ alla fine venne sostituito. Lo stadio si alzò in piedi, tutti, tranne Alvarito. Piangeva disperato, forse troppe emozioni. La nonna si preoccupò. «Alvarito, tutto bene?» «Perché nonna tutto ha una fine? Ci sono cose o persone che dovrebbero essere eterne, rassicurerebbe». «Tutto deve finire, così può fare il suo ingresso nel tempio dei ricordi». «Ma io non voglio ricordare le persone importanti, voglio viverle» replicò Alvarito. «Questo non è possibile, però non è una fine il fatto che qualcuno viva nei tuoi ricordi, sta a significare che ha lasciato un segno indelebile». Alvarito prese fiato, come se stesse per dire una verità dogmatica. «Io mi ricorderò per sempre del Chino e anche di te nonna che lo hai visto per me». Altre lacrime per Donna Maria. Recoba è stato un equivoco, la classe per essere il migliore ma non la voglia per farlo. A suo modo un sovvertitore dell’ordine costituito. In un mondo che pretende che ognuno miri a essere il primo in quello che fa, prevaricando chiunque pur di diventarlo, lui ha deciso di non seguire questa legge. Ha optato, inconsapevole, per seguire i dettami di Brecht e di stare dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati, aggiungo io, dai noiosi vincenti. Recoba è rimasto il bambino che portò la squadra in finale di un importante torneo nazionale giovanile a suon di gol e magie. Però il giorno della finale si dimenticò della partita e andò a pescare. All’intervallo i suoi compagni si trovavano sotto di tre gol, mandarono qualcuno a cercarlo. Si cambiò in macchina e nel secondo tempo segnò cinque reti. Che poi se non fossero stati i pesci sarebbe potuto essere un treno da perdere, una gomma bucata difficile da cambiare. Recoba è il manifesto artistico di una corrente pittorica che prevede la non realizzazione finale del quadro ma le pennellate devono essere dolci e di una bellezza accecante. Il suo calcio era così, indolente, volendo anche inconcludente però quando meno te l’aspettavi arrivava l’accecante bagliore. Come quel 31 agosto del 1997. Prima di Ronaldo, quello vero, con la maglia dell’Inter, e contro un Brescia che non ci stava e che si portò addirittura in vantaggio a San Siro, fu un giovanissimo Recoba a portare i tre punti per i nerazzurri e a oscurare l’esordio del Fenomeno. Calciatore di un tempo passato, mandato ai giorni nostri per ricordarci che stiamo sbagliando strada, che il calcio sta perdendo il lato ludico. Comprato da Moratti dopo che il presidente aveva visto un vhs. Perché Recoba, che piaccia o meno, non è mai stato il pezzo sbagliato di una squadra perfetta ma l’unico pezzo giusto di un calcio divertente in mezzo a tristi professionisti, in mezzo ai famosi “giocatori utili”. Sogni martoriati. E chi l’ha detto poi che i sogni vadano realizzati? Nel momento in cui riesci a farlo perdi belle storie da vivere nelle fredde notti solitarie e favole da raccontare al bar. Converrete che sarebbe un peccato. Cartavelina, 9 settembre 2020 Share Tweet Share... Read more...L’addio del “Chino” Recoba (pt. 1), un articolo di Cartavelina || Three Faces15 Gennaio 2020L’addio del “Chino” Recoba (pt. 1) di Cartavelina «Alvarito dove sei?» «In camera nonna, sto provando a vestirmi». A donna Maria le si strinse il cuore per quel “provando”: provava sempre a fare tutto da solo. Lo raggiunse, Alvarito l’aveva sentita arrivare, e rideva. «L’ho messa al contrario anche stavolta?» Una lacrima scese silenziosa e sinuosa sul volto di donna Maria. «Fammi vedere bene» mentì lei. Come si avvicinò al nipote, lui alzò la mano e guidato dai sensi più ignoti andò con l’indice a raccogliere la rugiada oculare della nonna. «Non piangere, oggi è una bella giornata, andiamo a El Parque a vedere l’ultima del Chino, devi essere i miei occhi, non dovrai perderti nessun particolare». L’anziana signora si ricompose, lo baciò in fronte e gli sfilò la maglietta che era al contrario. Uscirono di casa alle 12 e 37 minuti e si diressero a prendere il tram 23 che li avrebbe portati alla coincidenza con il numero 42, il quale dopo molte curve li avrebbe lasciati davanti a El Parque. Maria era sempre stupita quando camminava per Montevideo, era così dolcemente barocca. L’iperattivismo di Buenos Aires, sull’altra sponda del Rio de la Plata, qui non arrivava. Come se ci fosse una barriera invisibile a fermare il tempo. Ritmi più compassati, la modernità era passata, si era fermata, aveva lavorato e poi si era arresa di fronte all’impossibilità di togliere quel senso di curiosa blandezza agli uruguagi. Per tutto il tragitto donna Maria guardò il nipote che sorrideva, come se percepisse qualcosa a lei ignoto, e notò come tutti gli altri sensi cercassero di colmare il vuoto lasciato dagli occhi. Sfiorava con la mano, in maniera impercettibile, le persone che aveva intorno e a un certo punto strinse forte una sciarpa: sapeva che era del Nacional. L’uomo abbassò lo sguardo e iniziò a scompigliare i capelli ad Alvarito con fare bonario. Poi incrociò lo sguardo della signora Maria e lei lesse nello sguardo dell’uomo un misto di tristezza, dolcezza e di quell’imbarazzo che si prova quando si vorrebbe dire qualcosa ma mancano le parole per raccontare una tale complessità. Si limitò a prendere la sua sciarpa e a regalarla ad Alvarito, dicendogli che quella era sempre stata della sua famiglia, di padre in figlio, che era stata a Tokyo a vedere i ragazzi del Nacional vincere la Coppa Intercontinentale nel 1972. Si raccomandò di trattarla con rispetto e amore. Alvarito si fece scuro in volto. «Mi manca la vista, signore, non il cuore». L’uomo gli dette un pizzicotto sulla guancia e una lacrima rigò la sua pelle con la stessa struggente dolcezza con cui un’ora prima aveva rigato il volta di donna Maria. Scesero dal 42 e si trovarono davanti a El Parque, il gigante di cemento, ancora vuoto, che dopo qualche ora si sarebbe riempito di corpi, emozioni e, si augurava Alvarito e la nonna per lui, di gioia. Arrivarono al cancello di entrata del settore dei distinti, opposto alla tribuna, e si respirava nell’aria l’odore di salsedine portata dal vento. In quella stagione soffiava sempre un leggero soffio verso l’entroterra che lasciava nell’animo la voglia di lasciare tutto e salpare verso orizzonti inesplorati e mari sconosciuti. Vennero fermati da uno steward che con voce distratta li informò che ancora non potevano entrare, erano arrivati troppo presto. Donna Maria prese per mano Alvarito, che protestava rabbioso. Nello stesso istante in cui si voltarono per cercare un posto all’ombra dove smaltire l’attesa sentirono una voce rauca riprendere il maldestro steward. Era una voce a lei familiare, le risvegliò passate emozioni. Voltatasi, vide davanti a lei Alfonso, per tutti il Mono, Diaz ovvero lo storico massaggiatore del Nacional, per lei però era stato solo colui che le aveva fatto provare per la prima volta quella strana sensazione di smarrimento nel mondo. Quella sensazione che spesso con troppa facilità viene chiamata amore. Era da cinquant’anni che non lo vedeva ma la voce era già rauca ai tempi, non poteva sbagliarsi. «Maria, come stai?» Lei rimase in silenzio, occhi spalancati e espressione inebetita nel volto. «Sei te Maria, vero?» «Ciao Alfonso, sei…» «Si, la chioma ribelle ha lasciato spazio a questa piazzetta rugosa ma sono io». «Che piacere». La voce incerta nascondeva maldestramente le emozioni vissute che si risvegliavano come ridestate da un lungo letargo. Alvarito rideva divertito, percepiva che quella persona doveva essere stata importante per la nonna. Il silenzio, che rischiava di farsi imbarazzante, fu prontamente interrotto dal Mono che chiese chi fosse quel bambino che le stava accanto. Maria si riprese e presentò il nipote. Alfonso si abbassò, con qualche incertezza, per avere il volto all’altezza del piccoletto e lo freddò con un «per che squadra tifi?» La voce era amichevole, fintamente brontolona. Alvarito, che con una mano accarezzava il volto dell’anziano massaggiatore per immaginarne la fisionomia, si irrigidì, come un militare alla chiama mattutina, e sollevò la sciarpa che il tifoso gli aveva donato sull’autobus. «Tifo Nacional, signore. Sono un Bolsocharruista». «Bravo ragazzo, che dici se ti faccio entrare anche se non sarebbe ancora l’orario?» Alvarito si voltò verso la nonna, con aria speranzosa marcata ancora di più da quegli occhi così bianchi. Maria guardò il Mono Alfonso con sguardo grato e acconsentì. Entrarono nel Parque. Il gigante ancora dormiva, riposava per quel pomeriggio di calcio, per quell’addio al Chino Recoba, tornato a deliziare i palati dei suoi primi tifosi. La signora Maria guardava il prato verde e pensava alla sua giovinezza, al Mono Diaz. Lo aveva trovato invecchiato, appassito ma era solo una maschera. Quando aveva parlato aveva sentito ancora una voce viva, la voce di quel ragazzino capellone che le aveva rapito il cuore. Le tornarono in mente le serate passate sul Rio de la Plata a parlare del futuro, a raccontarsi sogni. A volte si tenevano per mano senza dirsi niente ma quel calore non lo aveva più riprovato. Le riaffiorò alla mente quella volta che il Mono le aveva chiesto se avesse voluto dare un’occhiata al passato e alla sua risposta affermativa le disse di alzare gli occhi al cielo. Lei non aveva capito subito, vedeva solo tante, troppe stelle. Diaz le disse che le stelle ci mostrano quello che sono state, la luce che vediamo è quella che hanno emesso milioni di anni prima. Era tutto sommato uno sguardo sul passato. E si ricordò che lo baciò, per farlo suo, per fare incetta di quella giovanile emozione. Non ricordava perché era finita con Alfonso, ma forse anche quella storia aveva avuto la stessa illusione di ogni altra, sua stessa conclusione e il suo peccato era stato quello di aver creduto speciale una storia normale . Si ridestò perché non sentì più la mano di Alvarito nella sua. Si guardò intorno e non lo vide. L’assalì un primordiale panico, la colse un senso di vertigine. Ripresasi, alzò lo sguardo e vide il nipote correre felice, guidato probabilmente da battiti di cuore e flussi emozionali, tra i gradoni dello stadio. Al richiamo il bambino si fermò subito e aspettò che la nonna lo raggiungesse. Si misero a sedere e parlarono del più e del meno, in attesa che cominciasse la partita. Lo stadio iniziava a risvegliarsi e i tifosi, formiche guidate da una laica fede, stavano occupando, inconsapevoli teatranti di un’opera che può essere buffa o tragica ma quasi sempre vera, l’immensità dell’impianto. Alvarito iniziò con le domande. Aveva una parlantina stordente. Chiedeva alla nonna di descrivergli tutto, volti, abiti, gesti. Era curioso di capire se quella positiva tensione che lui stava vivendo la stessero provando anche i suoi compagni di stadio. La nonna gli parlò di un uomo seduto due file sotto a loro che se avesse continuato a mordersi l’unghia del pollice si sarebbe ben presto cibato di se stesso, in un rituale antropofago che avrebbe lasciato segni tangibili su di lui. Poco più in là c’era una signora, grassottella, con due occhi strabuzzati fuori dalle orbite. Come se la pressione sanguigna stesse impazzendo in lei. La descrizione dei presenti fu interrotta da un boato. Alvarito capì, senza doverlo chiedere, che erano entrati i ragazzi in campo. El Parque ruggiva, gli venne in mente cosa si dice della Bombonera, casa del Boca Juniors. La Bombonera no tiembla, late. La Bombonera non trema, batte. El Parque quel giorno era uguale e lui trovava il tutto doveroso. Si salutava El Chino Recoba, era il minimo. «Nonna» «Dimmi Alvarito» «Non raccontarmi la partita, siamo troppo più forti, vinceremo di sicuro, sarà solo questione di tempo. Raccontami di lui, guardalo per me». Un’altra lacrima rigò la guancia di donna Maria, stavolta però fu seguita da due o tre compagne. La forza di gravità ebbe velocemente la meglio e non rigarono la guancia ma precipitarono al suolo come bombe, le sembrò di sentire anche il rumore. Crearono una mini pozzanghera tra i suoi piedi. «Va bene, sarà fatto» rispose. Fu assalita da un’ansia mai provata, lei sempre così equilibrata, padrona di se stessa. Aveva in sé le parole per vedere per lui? Insomma parlare con un altro che guarda con te è un conto, usare parole che rendano nella mente di chi non vede un’immagine era tutta un’altra storia. Bisogna usare parole che rendano colori, pensieri, dubbi. «Sta palleggiando Alvarito, sembra contento». Era stata piatta nella descrizione. Cosa voleva dire “sembra contento” alle orecchie di chi non vede? «Si sta guardando intorno, sorride divertito» prosegue «si vede che ama il pallone. Però credo ami il gioco, non il mondo calcio». «Da cosa lo capisci nonna?» «Non lo so, me lo immagino, credo sia un uomo che ha avuto un dono senza volerlo e che abbia dovuto convivere con le stimmate del predestinato quando avrebbe voluto solo giocare a pallone». «Credi se ne sia pentito di non essere stato un vincente?» la interruppe il bambino. «Non lo so Alvarito ma credo che qualcosa debba aver fatto se ci sono migliaia di persone qui per lui». Il nipote annuì, convinto della bontà delle parole della nonna. Intanto i giocatori stavano riprendendo la via degli spogliatoi e Recoba camminava con lo sguardo abbassato come se cercasse qualcosa, forse stava raggomitolando gli anni fin lì vissuti, per cominciare a fare bilanci. Tutt’intorno un’unica voce. RE-CO-BA RE-CO-BA RE-CO-BA Sembrava l’urlo di guerra di una tribù africana, c’era qualcosa di ventrale in quel grido. C’era riconoscenza, un corale tributo a un uomo. Donna Maria notò che Alvarito, voltava la testa a destra e a sinistra come se potesse vedere, passò una mano sul suo capo. «Le senti nonna?» «Cosa?» «Senti le speranze, le ansie, i dubbi che si muovono nell’aria? Sai ho imparato una cosa, che le emozioni, se stai ad occhi chiusi in un posto dove vengono vissute, acquistano una loro specificità materiale. Diventano un vento leggero che ti accarezza, provando a contagiarti». Un’altra scorribanda di lacrime bagnò le sue guance. Un signore accanto a lei, in silenzio, le passò un fazzoletto, sorridendole. Intanto si levava sempre più frastornante il coro “Dale Bolso, Dale“. Da Farewell di Francesco Guccini, ascoltatela se non l’aveste già fatto. Share Tweet Share... Read more...Binxet. Intervista a Luigi D’Alife e Elio Germano || Three Faces8 Gennaio 2020Binxet – Sotto il confine Intervista a Luigi D’Alife e Elio Germano di Andrea Biagioni 911 sono i chilometri che separano la Turchia dalla Siria, ma soprattutto sono il confine che divide famiglie, amici o semplicemente un popolo, quello curdo, e un’idea. A nord di quel confine c’è il Bakur, o Kurdistan turco, la terra in cui quell’idea è stata allattata ed è cresciuta, ma che si è sviluppata binxet, letteralmente “sotto il confine”, ovvero nella Siria del nord dove c’è un luogo che per molti di noi è divenuto sinonimo di speranza, il Rojava, perché è in quel luogo che è stato messo in pratica il più coraggioso e rivoluzionario esperimento politico dell’epoca contemporanea e forse anche delle altre: il confederalismo democratico. Solo che adesso tutto rischia di essere cancellato dalla ferocia imperialista di Erdoğan. Se non lo è ancora è merito di un gruppo di donne e di uomini che hanno deciso non debba finire così e hanno deciso che non possono vincere sempre gli “altri”. Intanto, però la Turchia avanza, muri si alzano, gli affetti vengono divisi, dilaniati, villaggi vengono rasi al suolo dalle bombe sia da un lato che dall’altro, e nel frattempo si fa la conta dei morti, quasi totalmente curdi. Un genocidio. Nel silenzio totale. Nella totale indifferenza della cosiddetta “Comunità Internazionale”. Per fortuna ci sono persone come Luigi D’Alife che hanno scelto di vivere quella situazione e di mantenere accesa la fiamma intorno a essa, anche in questo arido “Occidente”. Lo ha fatto due anni fa con la sua videocamera e con le parole di chi ci racconta da una passato troppo recente storie che ci appaiono tremendamente attuali, anche se apparentemente già dimenticate, e ci fa domandare dove eravamo esattamente due anni fa per non riuscire a sentire quelle voci. Continua a farlo da mesi e mesi andando di città in città a presentare il suo lavoro che è il frutto di quell’esperienza: Binxet – Sotto il confine. E per raccontare quelle immagini, quelle storie ha scelto la voce di Elio Germano, non solo per le sue doti di attore e narratore ma soprattutto per la sua straordinaria sensibilità che lo avvicina umanamente al dramma di un popolo e alla preservazione dell’idea che qualcosa deve cambiare, se non vogliamo andare incontro all’autoannientamento. Iniziamo quindi il 2020 con l’intervista che abbiamo avuto l’onore di fare a Elio e Luigi, grazie all’Associazione Sulla Stessa Barca, al Circolo “Lorenzo Orsetti” in occasione della proiezione di “Binxet – Sotto il confine”, tenutasi lo scorso dicembre al cinema Terminale di Prato. In essa, troverete non solo il racconto di come sia nata questa collaborazione, ma soprattutto i propositi che tutti dovremmo perseguire da oggi in poi: informarsi, informare e sostenere anche da qua coloro che hanno lottato per la nostra libertà e ora lottano per la loro. Buona visione. E buon ascolto. Riprese video: Valentina Ceccatelli Montaggio: Andrea Biagioni Share Tweet Share... Read more...E così scoprimmo che Babbo Natale non esiste || Three Faces25 Dicembre 2019E così scoprimmo che Babbo Natale non esiste di Three Faces Tutti noi, o quasi, abbiamo dovuto fare i conti con l’evento più traumatico della nostra infanzia, ovvero venire a conoscenza che Babbo Natale non esisteva e se esisteva era un dipendente della Coca Cola. Per questo, abbiamo deciso di tornare con la mente al momento in cui i nostri genitori, dopo averci mentito per anni, ci hanno confessato che il maledetto ciccione in realtà erano loro, ma soprattutto che avremmo ricevuto un regalo in meno da quel momento in poi. Maledetti taccagni! Che poi era questo il vero trauma per noi, fotte sega del vecchio. Comunque ecco come alcuni di noi hanno scoperto che Babbo Natale non esiste. Benedetta Bendinelli Prima di tutto: non ricordo nulla del mio passato. Arrivata a quest’età avrei voluto raccontare qualche aneddoto della mia infanzia, qualche episodio divertente che mi è rimasto nel cuore o negli occhi o semplicemente nella memoria, come restano nella memoria tutte le cose belle e brutte del passato. Ho sempre invidiato gli attori che durante le ospitate nei vari late night show raccontano con dovizia di particolari di quando da piccoli facevano questo o quello, e i nonni rispondevano così e cosà e qualche amico faceva un verso oppure un altro. Mi chiedo come facciano: va bene ci sono gli autori che scrivono le battute e forse alcuni dettagli sono anche inventati di sana pianta ma mi chiedo, nonostante tutto, come riescano le persone a ricordarsi le cose, gli anni, le date, le facce, i nomi, i luoghi. Non ricordo nulla del mio passato. Ora che ci penso, e ci penso perché siamo vicini al natale (con la n minuscola), ricordo lucidamente di aver riconosciuto la mia baby sitter sotto l’abito rosso sgualcito e sgangherato di Santa Claus. Era lei, lo sapevo. Avrò avuto circa sei o sette anni (boh), sapevo già riconoscere il volto di una donna e distinguerlo da quello di un vecchio con la barba. Oltre a questo ricordo anche un paio di guanti rosa Vileda, quelli per lavare i piatti. Era la mia baby sitter Serena. Era la sua voce e quelli erano i guanti che usava per sciacquare le posate. I guanti Vileda, perdio. A questo punto è chiaro che i miei genitori volevano che lo sapessi (che il vecchio non esiste) o forse speravano che un giorno, arrivata a quest’età, non mi sarei ricordata nulla del mio passato. Gabriele Levantini In questi giorni di festa mi è capitato di chiedermi come arrivai a sapere del grande inganno di Babbo Natale. Frugando tra i miei neuroni, con un po’ di fatica, ho trovato la risposta che cercavo, e sono rimasto deluso: nessun fatto da raccontare, solo una banale presa di coscienza. Semplicemente cominciai a cogliere sempre più i passaggi sospetti di questa strana vicenda, e le risposte contraddittorie e insoddisfacenti degli adulti. Arrivai da solo alla verità, ma una parte di me non voleva accettarla. Così un giorno i miei genitori, capendo che ero ormai abbastanza grande, assolsero all’ingrato compito che la Natura assegna a ogni padre e madre del regno animale: accompagnare il loro cucciolo fuori dall’infanzia. Lasciarlo andare, senza esitazione, con puro altruismo. Così furono loro a darmi conferma di ciò che già avevo capito. Il ciccione filo-americano era solo una montatura. Oggi, a distanza di tanti anni, so di aver ricevuto due grandi doni da parte loro: una fiaba che mi fece sognare e la consapevolezza di non averne più bisogno. Quindi forse non avrò grandi fatti da raccontare, ma ho di meglio: una storia piena di amore. Roberta Dell’Ali C’avevo otto anni, ero arrivata al colmo della mia grassezza, ero tipo un’arancina con i piedi e mia nonna mi rassicurava dicendo che era tutta altezza. A quel tempo Natale era ancora la festa che mi aveva gasata di più, era tipo perfetta: scuola chiusa, mangiare senza numeri e misure e il buon vecchio sponsor della Coca Cola attento a soddisfare le richieste da me accuratamente esposte in missive affidate al signor padre, perché le spedisse in Lapponia per tempo. Quella vigilia fu stupenda, amici miei, c’erano un sacco di cuginetti miei coetanei, si scorrazzava tra le decine di sedie, veloci sotto i tavoli, rubando delizie infinite dai vassoi e attendendo trepidanti l’oh oh oh della mezzanotte – mica il bambin Gesù! Finalmente il fatidico momento arrivò e la cazzo di bici rossa col campanello che avevo chiesto era lì, spacchettata e fiammante. Sentii il bisogno di comunicarlo al mio grande alleato. «Zio Memi! Zio Memi! Guarda la bici!» Così, bastò un momento di distrazione. «Sì, o’ zio. Bellissima!». E cazzo, Babbo Natale era lo zio Emilio. Gianluca Bindi Scoprii che Babbo Natale non esisteva relativamente presto. Tutti i nodi vennero al pettine durante la recita di Natale dell’asilo, dove venni scritturato per la parte di Giuseppe. Senza focalizzarci anche solo per un attimo sul fatto che manco avevo mai avuto la fidanzata e già mi trovavo con la moglie messa incinta dallo Spirito Santo, cosa che mi aveva comunque destabilizzato un po’, non so se fu per questo o per altri mille motivi che, vedendo i tre magi arrivare sul palco, abbandonai Maria e mio figlio illegittimo per andare a scartare i doni che avevano portato tra lo sconcerto generale. In fondo, mi ero solo calato a capofitto nella parte del capofamiglia di duemila anni fa. Fatto sta che ferito nell’animo per aver trovato solo cartapesta e deriso dalla folla, dopo la recita provò ad avvicinarsi il ‘vero’ babbo natale per darmi un regalo, ma prontamente si prese da me un calcio nelle palle. Iniziò a bestemmiare con intonazioni conosciute, tanto che si tolse la barba e venne fuori che era mio padre, il quale non mise mai più piede nell’asilo. E questa è la storia di come feci fuori in un colpo solo due archetipi maschili. Chiara Francioni L’immagine del ciccione di rosso vestito, con il naso da avvinazzato e le guance da ipotiroideo, è un trigger fortissimo: la vedi e vieni immediatamente scaraventato nel guazzabuglio di ricordi annebbiati che chiami “infanzia”. E proprio lì si annidano quelle scene natalizie che, se ben ti concentri, puoi ancora rammentare. E così rivedo mio padre che, credendomi addormentata, si dirige di soppiatto in salotto per mettere il dono di turno sotto l’albero, barcollando al buio e bestemmiando a ogni spigolo colpito, oppure il tizio del centro commerciale che si toglie la barba finta per grattarsi la faccia e ingurgitare un sorso di birra. Ricordo anche il terrore negli occhi di mia madre quando le chiesi come potesse, un singolo uomo, riuscire a visitare le case di tutti i bambini del mondo in una sola notte. E soprattutto ricordo l’appagante sensazione di superiorità intellettuale che provavo. Perché io sapevo, cazzo. Da che ho memoria, non ho mai creduto all’esistenza di Babbo Natale, però ho sempre preso per il culo tutti, facendogli pensare che ci credessi. Andrea Biagioni Partiamo da un presupposto fondamentale: mia madre è incapace a dare cattive notizie. Proprio non le riesce, non le sa gestire. Per esempio, una sera venne a prendermi in centro il sabato sera. Ero solo un po’ alticcio, situazione gestibile, ma cerco comunque di darmi un contegno entrando in auto, ma non faccio in tempo a chiudere la portiera, che mamma spara. «È morto Pantani!» Marco Pantani? Uno dei miei idoli sportivi? «Che cazzo dici, mamma?» «Eh oh, è morto, Andrea». «Mamma! Ma porca puttana…» Non parlai per il resto del viaggio, durante il quale mi ricordai di un fatto simile accaduto tempo prima. Questa volta era venuta a prendermi a scuola. Sarà stato Ottobre tipo, niente faceva sospettare alcunché. Cinque minuti di silenzio, poi… «Andrea, per quanto riguarda questo Natale, che vuoi avere per regalo? Fammelo sapere per tempo, mi raccomando. Ah, e niente letterina a Babbo Natale quest’anno, non esiste». «Mamma! Ma che cazzo dici?» «Eh oh, Babbo Natale non esiste». «NON È VERO! NON CI CREDO! IO L’HO VISTO! C’È LA FOTO!» «Era Mauro, quella volta. L’amico del babbo, sai…» «MI AVETE MENTITO, QUINDI? E PER TUTTI QUESTI ANNI. BUGIARDI!» Non le parlai per tre giorni. Anche quando morì Pantani. Avevo 18 anni. Anche quando morì Pantani. Il 2004, che annata di merda! Share Tweet Share... Read more...Gilles l’aviatore, un articolo di Cartavelina || Three Faces18 Dicembre 2019Gilles l’aviatore di Cartavelina Di sorrisi ne esistono di molteplici tipologie. Non solo perché ognuno muove/contorce la bocca a suo modo, un sorriso potrebbe essere equiparato alle impronte digitali, ma anche perché dietro ad un sorriso si può nascondere di tutto: gioia, rassegnazione, amarezza, tristezza, stupore. Il mio, oggi 8 maggio 1982, è, forse, rassegnato. Scusate mi presento, mi chiamo Gilles. Vengo dal Quebec, sono canadese, ancora per poco. Andiamo con ordine, aspettate a piangere. Fatemi raccontare perché sono famoso. Nel 1977 Lauda, Culo d’oro, si laureò campione del mondo con la Ferrari a due gare dal termine del mondiale e comunicò alla scuderia che non avrebbe gareggiato nelle restanti corse. Il Drake, Enzo Ferrari, decise di puntare su di me. Qualcuno mi aveva descritto bene al commendatore. Gli avevano detto che ero veloce, quello potete starne certi, sempre stato. Il problema era che io in Canada correvo con le motoslitte. Arrivai a Maranello tra lo scetticismo generale. Vedevo come mi guardavano, vedevo passare nei loro occhi i dubbi e le ansie. Ma ormai il Drake aveva deciso, voleva dimostrare che chiunque avesse messo le proprie terga sulla rossa di Maranello avrebbe vinto. Prima gara, mi ritirai perché scivolai su una macchia d’olio, macchina distrutta. Sarebbe stata una costante quella. Seconda gara, e ultima del campionato 1977, centrai in pieno la Tyrrell guidata da Ronnie Peterson. Ronnie era il mio idolo, veloce, dannatamente veloce. Povero Ronnie doveva guidare quello scempio a 6 ruote, la Tyrrell P34. Uno degli esperimenti di quegli anni. Quando lo centrai spiccai il volo con la mia Ferrari, i giornalisti il giorno dopo mi chiamarono l’aviatore. Non proprio un complimento per un pilota di Formula 1. Nuovo giro, nuova corsa. Inizia l’anno 1978 e la mia permanenza in Ferrari è già in discussione. Dicevano che non avevo una guida giusta, che rovinavo le macchine. Certo, sei ritiri son tanti. Però io guidavo, e guido, così, sempre al limite. Freno sempre all’ultimo e questo fa impazzire i tifosi e dannare i meccanici. Arrivati al GP del Canada ero già con le valige in mano, non avevo ancora vinto una gara. Corsi con uno stile più accorto del solito, pazzo sì ma il mio culo canadese sulla rossa volevo tenerlo per qualche altro anno. Pronti, via e una Lotus scappò. La inseguii, la tallonai ma senza fare il pazzo. La mia Ferrari filava via che era un piacere, poi a pochi giri dal termine vidi la Lotus che stava rallentando fino a doversi ritirare. La vittoria era mia e nessuno poteva più portarmela via, nessuno tranne io stesso. Non cedetti alla tentazione dello spettacolarizzare il tutto. Vinsi, se in pista ero stato più accorto del solito, decisi di essere insolito sul podio. Invece di sbocciare il solito, regale champagne mi feci consegnare una bottiglia di birra. Da quelle parti siamo abituati a bere quella e chi lo aveva mai assaggiato dello champagne. Mi fu detto dopo che era la prima volta che qualcuno faceva qualcosa di simile. Chiusi la stagione al nono posto e il Drake decise che anche per il 1979 sarei stato io a sedere sulla monoposto di Maranello, insieme ad un nuovo compagno di squadra: via lo scontroso Reutemann, che non mi aveva mai stimato troppo, e in arrivo il sudafricano Scheckter. Ci trovammo subito simpatici, veniva chiamato l’Orso, mai trovai soprannome meno calzante. Con me era leale e aperto e io ripagai il tutto con la stessa moneta, anche perché non avrei saputo fare altrimenti. Io volevo correre e basta, dare spettacolo e provare quel brivido che solo chi scende a patti con la morte può sentire. In quel 1979 ci furono grosse novità, la Renault portò una monoposto dotata di motore turbo. Dicevano che non ce ne sarebbe stato per nessuno, ero proprio curioso. Ho sempre pensato che, certo la macchina sia importante, l’uomo però possa fare sempre la differenza. La Ferrari presentò il modello 312 T4, brutta ma veramente tanto brutta. Però si guidava che era un piacere. Il feeling lo trovai subito, mi ci rivedevo in quella macchina. Era un po’ come me, ad un primo sguardo io non avevo il fisico per fare il pilota e lei non aveva le forme per fare la monoposto, poi però la guidavo e… come ve lo spiego!? Ti senti invincibile quando crei un binomio perfetto, ecco eravamo fatti l’uno per l’altra. Ero pronto a vedere queste Renault turbo all’opera. 3 marzo, GP del Sudafrica Partimmo con ruote da asciutto, tutti. Iniziò a piovere a dirotto, rientrammo tutti ai box tranne Scheckter. Era del posto e sapeva come son le piogge da quelle parti, incazzose ma si stancano velocemente. Avevamo tutti le gomme da bagnato con la pista che velocemente si stava asciugando e il mio compagno girava veloce, accumulando vantaggio. Quando mancavano due giri al termine della corsa le sue gomme, che non erano state cambiate, erano logore a tal punto che dovette fermarsi ai box a sostituirle e io vinsi. Quel gran premio mi regalò due gioie, la prima aver vinto, la seconda aver avuto la conferma che puoi mettere tutti i turbo che vuoi ma serve il manico. Non esiste un modo per sovralimentare quello, ci devi nascere. Per correre, oltre al dono, serve anche un pizzico di follia, ecco nel mio caso specifico con la follia il Creatore si era fatto prendere la mano. GP successivo, Long Beach Stessa storia, io primo e Scheckter secondo. Ero in testa al mondiale ed ero felice. Che poi devo chiarire una cosa una volta per tutte, a me di vincere un mondiale non è mai importato un granché. Per carità ne sarei stato contento, ci mancherebbe. Io però vivevo ogni singolo Gran Premio come una sfida in sé. Ogni volta scendevo in pista per essere il più veloce, il più folle, e per vincere. E questo mi portava molte critiche, mi dicevano che per vincere il mondiale bisogna essere calcolatori, capire che quando la macchina non va c’è d’accontentarsi di fare punti. Mi ha sempre fatto sorridere, guidi una macchina portandola a 280 chilometri orari e avrei dovuto essere un freddo calcolatore. Se fossi stato un freddo calcolatore avrei evitato di guidarla quella macchina. Tornando a quel 1979, in Spagna non fui calcolatore e non presi neanche un punto. GP di Monaco, al 54esimo giro dovetti ritirarmi, rottura del semi-asse A questo proposito vi racconto un aneddoto, il Commendator Ferrari diceva sempre che il giorno che io non avessi rotto un semi-asse voleva dire che era stato inventato un semi-asse indistruttibile, il semi-asse perfetto. Quando mi fu riferita questa cosa ne fui molto orgoglioso. Poi arrivò il primo luglio, si correva in Francia a Digione e tutti si aspettavano una vittoria a mani basse delle Renault. Quei lunghi rettilinei sembravano fatti apposta per loro e infatti alla griglia di partenza i primi due posti erano occupati, rispettivamente, da Jabouille e Arnoux. Al via li passai entrambi, poveretti ero il loro peggiore incubo! Jabouille riuscì a superarmi solo al 40esimo giro. A quel punto arrivò, come un toro inferocito, alle mie spalle Arnoux, il che dette il via ai sei giri, forse, più iconici di quella Formula1 che non esiste più. Come due cavalieri medievali intraprendemmo una giostra fatta di sorpassi e contro-sorpassi. Mi ricordo che ad una curva il povero Arnoux era già convinto di rimanere avanti, feci una delle staccate delle mie. Frenata all’ultimo e ruote che fumanti mi tenevano per miracolo attaccato all’asfalto. Rimasi avanti e chiusi secondo. Ci portarono in trionfo, il secondo e il terzo classificato. Ho ancora in mente la faccia di Jabouille, che, attonito, imparò una grande lezione. La gente vuole provare emozioni, del vittorioso a mani basse non sa che farsene. Nella vita di tutti i giorni, quella delle persone normali, raramente si ottengono cose a mani basse. Per questo mi amavano, io raramente ho avuto la macchina migliore e questo mi rendeva, ai loro occhi, l’eroe perfetto. Al GP d’Olanda, a quattro gare dal termine, avevo 7 punti in meno del mio compagno di squadra nella classifica mondiale e partivo dalla terza fila. Partenza sparata e fregai tutti, un razzo rosso filava in testa. Come sempre non seppi regolarmi e al 40esimo giro la macchina non ne poteva più e mi scoppiò una ruota. Pirotecnico testacoda e mi ritrovai nell’erba. Chiunque si sarebbe arreso, non io. Tornai in pista con il cerchione che faceva scintille sull’asfalto. Premevo a più non posso, volevo raggiungere i box per farmi sostituire la ruota. Quando arrivai urlai ai miei meccanici di fare veloci, vidi i loro sguardi stralunati. Guardai la mia ruota e non solo mancava lo pneumatico, erano saltati anche cerchione e sospensione. Come avevo fatto ad arrivare fin lì integro era un mistero. Scuderia furiosa e pubblico in visibilio. Estasiati da un ritiro, però quel giro verso i box fu amato proprio perché folle, inutile ma profondamente romantico. Dopo quella gara le gerarchie erano chiare, Sckeckter era il pilota su cui puntava la Ferrari per il titolo e io doveva fare gioco di squadra. Sapevo benissimo cosa si stavano chiedendo tutti, “il canadesino sarebbe stato capace di fare il serio per una volta o avrebbe rovinato tutto?”. 9 settembre, Monza Io e Scheckter partimmo e dopo poco eravamo primo lui e secondo io, le posizioni restarono immutate fino all’arrivo. Lo scortai come era giusto che fosse, leale, non sarei certo stato io a rovinargli la festa. Anche se in tutta onestà tra quelle curve, il circuito più veloce del Mondiale, avrei avuto una voglia di dar di matto ma evitai, sarebbe stato di cattivo gusto verso Scheckter. Lui apprezzò e sul podio mi alzò il braccio, facendomi tributare il giusto riconoscimento. Alla fine della stagione vinse con 51 punti, io arrivai secondo con 47. Quattro punti. Se ripenso a Monza e al fatto che se avessi fatto lo scherzetto finale sarei stato io campione del mondo… ma va bene così, nessun rimpianto. Il 1980 non fu una grande annata per la Ferrari Fu introdotto il turbo ma il modello 312 T5 è ricordato come uno dei peggiori della storia della rossa. Raccogliemmo solo 8 punti non arrivando mai oltre il quinto posto. Unica emozione dell’annata fu un mio fuori pista, un missile rosso contro le barriere. Ne uscii illeso, stessa cosa non poterono dirla alcuni miei colleghi. Regazzoni fece un incidente e rimase paralizzato, Jabouille si procurò talmente tante fratture alle gambe che riprese a camminare a fatica e dovette ritirarsi, per sempre, dal circo delle corse. Scheckter, a fine anno, decise di ritirarsi. Non aveva più niente da dare, diceva, se non la sua vita e gli pareva troppo. Il 1981 iniziò con un nuovo compagno, venne ingaggiato il francese Pironi. Il 31 maggio a Montecarlo, partimmo in 22 e terminammo la corsa in 7. Le macchine iniziavano ad andare troppo forte per le piste dell’epoca e i ritiri erano all’ordine del giorno. Vinsi la corsa e il Time mi dedicò la copertina, prima volta per un pilota di Formula 1. Era stata una stagione in cui non avevo dato troppo spettacolo, considerando il mio senso di spettacolo. In Canada al penultimo gran premio della stagione mi ripresi il tutto con gli interessi. Si correva sotto un diluvio tremendo, come se tutta l’acqua disponibile nei cieli fosse stata riversata tutta lì, in terra canadese. Al 38esimo giro toccai una Lotus e la macchina perse di stabilità ma non ci prestai attenzione. Continuai a spingere sull’acceleratore finché l’alettone anteriore si staccò quasi completamente. Un filo di lamiera lo teneva, in maniera ballerina, attaccato alla mia monoposto. Dopo un po’ di giri l’alettone si piegò improvvisamente andando ad ostruirmi la visuale. Guidavo alla cieca, aiutato nella cosa dalle corse che avevo fatto in motoslitta. Lì, se ti trovavi ad inseguire, la visuale era resa pessima, per non dire che non vedevi praticamente niente, dal fatto che la motoslitta che ti anticipava alzava un finissimo e fittissimo nevischio. Dovevi guidare ad intuito. Tornando al Gran Premio del Canada, dovevo liberarmi dell’alettone, anche perché se si fosse staccato all’improvviso sarebbe volato all’indietro tranciandomi di netto la testa. Nei rettilinei ondeggiavo sperando si staccasse, ce la feci. Pubblico in estasi e io alle prese con la mia Ferrari che si era tramutata in un puledro difficile da domare. La tenni in pista fino alla fine, rigorosamente con il piede sull’acceleratore. Ero terzo e terminai la gara terzo, un tripudio. Arriviamo a questo fatidico 1982. L’inizio del campionato è stato pessimo, non vinco più gare. L’occasione giusta arriva ad Imola, solita sfida con le Renault. A metà gara ci ritroviamo primo io e Pironi secondo. Iniziamo a dare spettacolo con sorpassi al limite e staccate da capogiro. Quando mancano pochi giri alla fine, dal box, esce un cartello con su scritto, Slow. Io lo prendo come un ordine a mantenere le posizioni, convinto che anche Pironi si sarebbe comportato in maniera leale, come del resto avevo fatto io con Scheckter qualche anno prima. All’ultimo giro mi passa e vince lui. Ne sono uscito ferito e anche la squadra non mi ha appoggiato come avrei voluto. Ed eccoci qui a Zolder, in terra belga. Qui voglio la mia rivincita, la spunterò io, ne sono certo. Solo che Pironi ha voluto fare l’eroe, terzo tempo assoluto, io solo l’ottavo. Con tutte le gomme da qualifica finite decido di tentare un’ultima volta, provano a dissuadermi senza risultato. Parte il giro lanciato. Dopo una doppia curva, prima a destra e poi a sinistra, non mi accorgo che Mass sta rallentando per raffreddare le gomme. Con la mia ruota anteriore tocco la sua posteriore e la mia monoposto spicca il volo sbalzandomi fuori. Tutto sommato erano stati veggenti i giornalisti nel 1977, quando al mio primo anno in Ferrari, mi chiamarono “l’aviatore“. Mi resta poco, il mio volo sta per finire, la recinzione a bordo pista si sta minacciosamente avvicinando. Saluto il circo delle corse, avendo gareggiato in 68 gran premi e avendone vinti solo 6. Un bottino non certo eccezionale, però, se prediligete le emozioni rispetto ad un segno nero su un almanacco, sarò stato, senza falsa modestia, una prelibatezza per gli occhi. Se avete capito che, quella che per molti era incoscienza, in realtà era un perenne bisogno di sentirsi vivo allora non avrò corso, e quindi vissuto, invano. Spero quindi di avervi emozionato, io ho ciucciato ogni stilla di emozione che la vita mi ha dato. La morte non mi fa paura, sempre messa nel conto, non per un folle nichilismo, semplicemente perché chiunque deve considerarla, a maggior ragione se corri sparato a 300 chilometri orari in fusoliere di metallo. Poi vi lascio mio figlio Jacques, nei kart promette bene, cullatelo per me e non chiedetegli di essere il padre, fatelo perdere o vincere alla sua maniera. Alle 21 e 12 minuti di quell’8 maggio 1982 la moglie fece staccare le macchine che lo tenevano, artificiosamente, in vita. Non se n’è andato un vincente, nella sua accezione classica, ma un pilota che correva per sentirsi vivo e per emozionare il pubblico. Il figlio Jacques vincerà il titolo mondiale con la Williams-Renault FW19 nella stagione 1997. Cartavelina, 24 luglio 2019 Share Tweet Share... Read more...4 Ristoranti Iran, un articolo di G. Bindi || Three Faces11 Dicembre 20194 Ristoranti Iran di Gianluca Bindi Lo scorso 7 agosto non è stata soltanto la data in cui ho assistito al concerto degli OM, esperienza che mi ha permesso di dare un filo illogico ai miei ancora più illogici pensieri sulla religione. Ma è stata anche la sera, proprio allo stesso baracchino del fritto di pesce preconcerto, in cui io e il mio amico Daniele abbiamo deciso che da lì a qualche settimana saremmo andati in Iran. E non poteva che essere il cibo la chiave narrativa per raccontare, in parte, cosa ho vissuto in quelle due magnifiche settimane. Non i due libri di Kapuściński letti nell’ultimo anno, non la possibilità svanita nel 2018 di entrare in Iran via terra dalla Turchia; ma quel vassoio di totani, acciughe, gamberi, paranza impastellati e buttati in un olio bollente che minimo aveva fatto più chilometri di quello della mia macchina. Perciò ho deciso di usare un format televisivo molto popolare per raccontarvi il mio viaggio in Iran, visto che il cibo è uno dei modi migliori di conoscere la cultura di un popolo e che, comunque sia, ogni occasione non sfruttata di buttarla in caciara è un’occasione persa. Al di là di tutto, l’Iran rimane quel magnifico Paese dove cucina mediterranea, araba e indiana si incontrano, bilanciandosi a vicenda. Loghescion Visto che siamo partiti con un bagaglio di raccomandazioni non indifferente (tanto che a volte mi è sembrato di dover partire per la Siria), ci siamo addentrati per la prima volta all’interno dell’Iran quantomeno con gli occhi aperti. Lasciare la moderna e open-minded Teheran voleva dire iniziare a misurare la reale temperatura sociale del Paese. È bastato mettere piede nella piazza Naqsh-e jahàn per innamorarci di Isfahan: una delle più grandi del mondo, con piscine, alberi e tre complessi (due moschee e un palazzo), alla vista della quale mi è risultato davvero difficile dare credito ai miei occhi. L’imponenza e le decorazioni della moschea dello scià è un’esperienza che mi porterò sempre dentro finché campo. Ma oltre alle bellezze architettoniche, Isfahan ci ha sorpreso anche nell’accoglienza. Dormivamo da una famiglia, assieme ad altri viaggiatori. Davamo una cifra simbolica per notte con colazione inclusa, che includeva ingredienti interessanti: dalla marmellata di carote alle esfoliazioni di pasta di sesamo dolce (assieme all’immancabile tè). Il giovedì sera (che per i musulmani è come il nostro sabato) Masoud e la sua famiglia ci hanno pure invitato ad un picnic in riva al fiume, con tutti gli altri ospiti che avevano una provenienza mista dalla Francia alla Cina. Ci hanno offerto samosa e tè, noi abbiamo portato il dolce (era il compleanno del mio amico). Abbiamo voluto molto bene a Masoud; certo non parlava l’inglese come le figlie ma sapeva dividere la vita e tutto ciò che la concerne in due, chiare e semplici categorie: NO-GOOD e VERY-GOOD. E piano piano faceva diventare immanente una divisione della realtà con frasi minime che tutti potevano capire: «Tè verigud», «Inglesi e americani (in riferimento al passato coloniale) nogud». Con un messaggio di fondo che quasi intercettavo nella sua assoluta semplicità, e cioè di non fare entrare nulla nella tua vita a meno che non sia qualcosa di molto buono, positivo; il resto meglio lasciarlo perdere (similitudine ottima anche per il cibo che entra nello stomaco). Il ponte Khaju rifletteva sulle acque, illuminandole a giorno. Attorno a noi, una moltitudine di altre persone felici e spensierate che banchettavano o fumavano narghilè sull’erba. Beh, diciamo che se avremmo dovuto sentirci minacciati, avevamo decisamente sbagliato luogo. Voto loghescion: Verigud. Menù Per la grevata del viaggio (dicesi grevata un’esagerazione non raffinata), abbiamo dovuto aspettarne quasi la fine. Eravamo a Yazd, città in mezzo al deserto che ha fatto del trovare e gestire l’acqua una vera e propria arte (da vedere il relativo museo). Oltre a quello e alle splendide architetture, penso di aver mangiato la roulette-kabab più impervia della mia vita. Già in mattinata, passando sotto il grande complesso museale Chakhmaq ora riadibito a mercato, li avevamo notati. Erano molti, erano diversi e, soprattutto, erano impilati l’uno sull’altro. Ho provato a fare finta di niente, ma proprio non me li sono riusciti a togliere dalla testa per tutto il tempo. Così, qualche ora dopo, convinco il mio compagno di viaggio a fare sosta obbligatoria a quel baracchino marcio e, con sguardo assatanato, faccio capire le mie bellicose intenzioni al grigliatore, che da quel momento ho iniziato a chiamare serial griller. Perché? Semplice: non capita tutti i giorni di mangiare pezzi di pollo, agnello, cuore, reni e grasso di vacca infilati in spade di ferro (sì esatto fanno anche il kabab di grasso, come fai a non amare questo popolo?). E penso che con la quantità di mosche che svolazzavano sul nostro cibo ci è mancato poco che mangiafuoco non si mettesse a grigliare pure quelle. Seduti a gambe incrociate su un rialzo di legno rivestito di un tappeto scarlatto, abbiamo combattuto gli spiedini come dei leoni. Finito il vassoio abbiamo ordinato il bis, ottenendo uno sguardo misto fra timore e rispetto dal serial-griller. Mentre continuavo a masticare la callosità del rene, annaffiando tutto con una bevanda allo yoghurt fermentato chiamata doogh, mi chiedevo se quello fosse il paradiso, nel senso che non sapevo se effettivamente fossi già morto di ostruzione di vasi sanguigni. Voto menù: chi di spade ferisce, di spade perisce. Servizio Atterrati all’aeroporto internazionale di Teheran nel cuore della notte, abbiamo sfruttato la prima sera disponibile scegliendo con cura dove andare mangiare. Era l’inizio del viaggio e avevamo una voglia matta di tuffarci nella cucina tipica iraniana. Con l’aiuto un po’ della Lonely Planet e un po’ di chi lavorava in ostello abbiamo portato i nostri talenti masticatòri (semicitazione lebroniana) da Azari, in un altro sobborgo della città. Eravamo intenzionati ad assaggiare il dizi, un piatto simbolo della tradizione persiana. Ci accomodiamo al tavolo, in una sala molto accogliente e guarnita di stoffe, piante e profumi deliziosi. Qualche minuto dopo avere ordinato ci raggiunge un giovane cameriere con un vassoio enorme e pieno di ciottoli e utensili. Appoggiato il kit sul tavolo, il ragazzo ci inizia a illustrare il procedimento. Innanzitutto prende con un forcipe un pentolino che sembrava fatto di piombo o del materiale in cui si rivestono i nuclei delle centrali nucleari. All’interno c’era lo stufato di agnello, ingrediente principale del piatto, che a occhio e croce doveva raggiungere temperature laviche dei tremila gradi Fahrenheit fantozziani. Con molta cura, il cameriere versa parte del contenuto in un mortaio e inizia a pestarlo, illustrandoci il procedimento passo per passo e in maniera talmente minuziosa che quasi mi son sentito in colpa a non avere con me un blocco per gli appunti. Alla fine strappa un pezzo di lavash (tipico pane-piada iraniano), prende una cucchiaiata della cremina ipercalorica e ce la spalma sopra, con l’aggiunta di erbe e salsa allo yoghurt con aglio. Dopo dieci minuti di tutorial finalmente iniziamo a mangiare, e già al primo boccone la diffidenza svanisce completamente. I quarantasette sapori diversi si bilanciano perfettamente ed esplodono in bocca come una festa di carnevale. A fine pasto, con lo stomaco rigonfio, veniamo spostati in un’altra sala per fare una fumata digestiva al narghilè. Voto servizio: galateo unto. Conto Inutile dire che per tutta la durata del viaggio abbiamo mangiato molto e speso molto poco. A parte la sensazione di panico quando ti portavano il conto: diciamo che quando vedi scritto un milione e mezzo di rial e non sei ancora rodato col cambio ti caghi un po’ addosso, ma appena scopri che sono meno di cinque euro a testa ti fai una risata per il pericolo scongiurato. Acclimatarsi con la moneta locale non è stato affatto facile e i prezzi oscillavano a seconda delle occasioni. Basti pensare che i riyal a volte erano considerati tali, a volte erano considerati toman, ossia rial con uno o quattro zeri in meno (anche qui molto arbitrariamente da caso a caso). Trattandosi di cifre per noi abbastanza irrisorie per quanto riguarda il cibo, in questa categoria parlerò delle pietanze che si sono distinte per miglior rapporto qualità/quantità/prezzo e che per certi versi sono state la sorpresa culinaria del viaggio, ossia le zuppe. Siamo reduci da una notte sul pullman che da Shiraz ci ha portato a Bandar Abbas, nell’estremo sud dell’Iran. Non abbiamo chiuso occhio perché l’autista si era incaponito a tenere l’aria condizionata a 8 gradi, non si sa per quale motivo. Quando scendiamo alla stazione, la situazione è tragicomica: il mio collega viene rapito da varia gente che rispettivamente vuole vendergli tè, corse in taxi, denaro e tappeti; io con gli occhiali appannati che non mi sono ancora ripreso dallo shock termico dei 35 gradi alle 6 di mattina (eppure cinque minuti fa tremavo dal freddo); in più siamo senza soldi e dobbiamo cercare un cambio prima di prendere il traghetto che ci porterà all’isola di Hormuz nel Golfo Persico (in Iran non è possibile usare carte straniere). Dopo passaggi in macchina, prenotazioni, uffici chiusi e cambio soldi in un albergo (ve la faccio breve), alle 8.30 con una temperatura già proibitiva troviamo un dispensatore di zuppe da asporto, con alcuni tavolini all’interno. Entriamo avvolti nell’aria condizionata (stavolta necessaria) e ordiniamo le scelte del giorno: ash (zuppa di legumi, erbe e noodle), halim (zuppa di grano, latte, agnello e cannella) e, per pulirsi la bocca, un bel mirza ghasemi (pappetta di melanzane stufate, uova e pomodoro). Eravamo così contenti che la sera dopo, ritornati in città dall’isola, prima di ripartire per l’ennesima nottata in pullman, ci siamo rifermati dallo stesso zuppaio: minima spesa, massima resa. Voto conto: colazione da campioni. Oggetto deBBonus Difficile dirlo. Ci sarebbero tanti piatti outsider con dietro altrettante storie particolari da raccontare. Posso citare i gamberi al curry sull’isola di Hormuz, il fesenjan ossia il pollo ricoperto di stufato di noci e salsa di melograno, o come dimenticare il khoresht mast un dolce fatto con zafferano, yoghurt, zucchero e carne di collo di agnello (non è un errore). La sensazione, quando lasci l’Iran, è di meraviglioso incompiuto; sei ripartito e avresti ancora molto da conoscere (e da assaggiare) in questo Paese incredibile. Un Paese che consiglio vivamente a tutti, nei modi e nei tempi che permetteranno ai suoi meravigliosi abitanti di vivere una vita dignitosa, al di fuori di qualsiasi dittatura. Le proteste e gli scontri di questi mesi (oltre a rendermi conto di quanto sia stato fortunato ad andarmene via per tempo) sono durissimi da accettare da chi come me ha trovato un popolo con orgoglio, cultura e grande cuore rivolto verso visitatori stranieri. E forse, il vero valore aggiunto, il cibo che ho sentito più nell’anima che nello stomaco sono state proprio le persone, che, per quanto valga questo stupido articolo rispetto alle sofferenze che stanno passando, meritano un bel diesci. Share Tweet Share... Read more...The End of the Fucking World 2, un articolo di B. Bendinelli || Three Faces4 Dicembre 2019The End of the Fucking World 2 Viva la ***a di Benedetta Bendinelli – ATTENZIONE: CONTIENE SPOILER! – Dove eravamo rimasti? The end of the fucking world non è una serie per ragazzi. Ripeto il concetto perché in questa nuova stagione si tratta di un dato di fatto. Avevamo lasciato Alyssa e James sull’orlo di una crisi adolescenziale, o forse qualcosa di più. Li avevamo lasciati in preda ai loro capricci, che poi si sono trasformati in guai e alla fine in veri e propri crimini. La storia si era interrotta in una fase specifica dell’adolescenza, quella che precede la maturità degli anni adulti, e si era conclusa con tutti i presupposti per un seguito intricato. Dopo la fuga di James verso il mare, lo sparo della polizia e le grida disperate di Alyssa, ci potevamo aspettare soltanto due cose: la fine (quindi la morte) oppure la crescita (quindi il cambiamento). Questa è una serie ingannevole: l’appeal che può suscitare in alcune fasce di età viene subito sotterrato da tematiche più vicine ad altre stagioni della vita. Nel secondo capitolo della storia questa denotazione – se così si può dire – bipolare è ancora più sottile, incentivata anche dall’estetica dei protagonisti e persino dal font usato per i titoli. Se la prima stagione andava bene per i trentenni, la seconda può tranquillamente passare di ruolo e ingraziarsi il gusto degli over quaranta. Per prima cosa: la colonna sonora. Gran parte dei brani, che conciliano perfettamente immagini e parole, provengono dalla scena soul e doo-wop americana degli anni Sessanta e Settanta e si sposano perfettamente con tutte le micro narrazioni che si avvicendano. Il primo episodio, dopo un limpido e veloce recap, si apre con un bellissimo brano di Nancy Wilson che ci presenta il nuovo main character: Bonnie. “My love has no beginning, my love has no end No front no back, my love won’t bend I’m in the middle, I’m lost in a spin Loving you” La backstory introduttiva mostra una ragazzina della media borghesia nera americana, prima abbandonata dal padre e poi succube delle terribili angherie della madre. Dopo aver mozzato la treccia di una compagna di classe viene sospesa da scuola e interrompe definitivamente il percorso di studi. La ritroviamo adulta, con un lavoro da bibliotecaria presso l’università, dove in qualche modo riesce a intrufolarsi alle lezioni del professor Clive Koch, lo stesso che la seduce, la minaccia e poi la conduce al carcere. Lo stesso che, poco tempo dopo, verrà assassinato da James. A questo punto la trama è svelata, quasi scritta nero su bianco come in tutte le grandi storie di vendetta. La missione di Bonnie, come quella della buon vecchia Beatrix Kiddo, è molto diretta: kill Alyssa, kill James. Nel frattempo il focus sui personaggi di James e Alyssa cambia apertura, passando da un analisi grandangolare a una più intima e personale. James è sopravvissuto alla pallottola e Alyssa alla solitudine, entrambi hanno evitato la galera ma le conseguenze dell’omicidio e della fuga li hanno costretti a un programma riformativo. Quello che li ha cambiati però non è strettamente legato ai luoghi della loro espiazione morale quanto all’effettivo scorrere del tempo. Da qui in avanti, passati due anni dall’omicidio, la serie potrebbe prendere la forma di un progetto riformativo dove i due giovani mezzi criminali provano a rifarsi una vita, provano a cambiare. Mantenendo gli aspetti di una vicenda quasi noir, il secondo capitolo di TEOTFW riesce anche a trattare tematiche più profonde come quella del cambiamento e quella della responsabilità. Ecco che ritorno nel mondo dei quarantenni, quelli che hanno a che fare con un matrimonio fallito e con le bugie, quelli che non riescono a dimenticarsi di un amore e quelli che invece riescono a dire addio. Il personaggio di Alyssa in modo particolare viene destrutturato e ricostruito pezzo per pezzo, fin quando non lo si ama con lo stesso tipo di amore che si ha – di solito – per la vita. E sono sempre le donne a dover fare i conti con le conseguenze delle loro scelte e delle loro pericolose decisioni. Nel pentolone delle grandi tematiche affrontate in questo capitolo, insieme alla metamorfosi dell’esistenza, troviamo anche un altro argomento ormai ovunque sdoganato, ovvero quello della violenza sulle donne. Lo sguardo distante dell’autore ci lascia testimoni di fatti, come fossimo lettori di una cronaca, e liberi in tal modo di poterci avvicinare ai personaggi femminili in qualsiasi modo lo vogliamo. Bonnie ci piace per il suo temperamento gelido e naïf e ci spaventa per il suo passato e per il suo futuro. Alyssa invece ci spoglia e si spoglia da tutte le vacue certezze che ci costruiamo intorno per non cedere all’assoluto e terrorizzante timore del vuoto. Un matrimonio lasciato a metà – per paura – e il rapporto conflittuale con James – anche questo per paura – si risolvono entrambi con un gesto di estrema onestà. “Sometimes, doing the right thing, feels like committing a crime” James dal canto suo è impegnato in un’altra congestione: la morte del padre e l’impossibilità di accettare la solitudine che ne è seguita. Anche lui fa i conti con l’assenza: prima della famiglia; poi di un’amore complicato. E in un gesto affine a quello di Alyssa si libera dalla costante ricerca di una soluzione e trova finalmente pace. Resta ancora Bonnie a piede libero e con l’animo inquieto, mossa dal rancore ma forse ancor di più dall’inconsapevolezza. Spara un colpo in testa a James e Alyssa, li fredda senza battere ciglia davanti al tavolo di un fast food. Loro restano li, piegati all’indietro sui divanetti color sangue e Bonnie ha portato a termine la sua missione, fin qui tutto normale. Se non fosse che di nuovo l’onestà, che ormai capiamo è il fil rouge di tutta la serie, ci riporta a qualche secondo prima dello sparo, dove Bonnie viene disarmata e infine consolata. In qualche modo tutti trovano ristoro nell’atto stesso di una scelta, la propria o quella altrui, una scelta che in fin dei conti libera dal male. Un finale positivo – con la desolazione di chi si aspettava più sangue e più malessere – per una storia onesta, come quella di noi trentenni, quarantenni e chi più ne ha più ne metta. E al contrario di quel che dice il titolo, chissà poi perché, mi viene da dire: viva la vita. Share Tweet Share... Read more...Il lavoro nobilita l’uomo, un articolo di G. Levantini || Three Faces27 Novembre 2019Il lavoro nobilita l’uomo di Gabriele Levantini Ore 6.50 La sveglia gracchia la sua fastidiosa sequela di versi e rumori: uno strano mix stridulo a sufficienza per svegliarmi e, al tempo stesso, abbastanza ambient da non mettere eccessivamente alla prova il mio umore mattutino. Apro gli occhi e il mondo prende lentamente forma intorno a me. Dapprima con immagini sfocate, ancora mescolate ai sogni brutalmente interrotti, poi sempre più nitido, nella sua grigia realtà. Realizzo che oggi è martedì, solo martedì. Ancora tre giorni al weekend. So che in questo stesso momento i miei colleghi stanno facendo le stesse cose, così come altri milioni di persone nel mondo, ma questo pensiero non mi conforta. Più tardi in ufficio, ci lamenteremo di questo: del tempo che si ostina a scorrere lento nei giorni feriali e poi come un fiume in piena nel fine settimana. Ma non sono reclami seri. In fondo, siamo tutti consapevoli di essere privilegiati: abbiamo un lavoro vero e relativamente ben pagato. Anzi, siamo privilegiati tra i privilegiati perché il nostro è uno di quegli impieghi che ti lascia addirittura un paio d’ore ogni sera e un intero weekend per costruire la tua vita. Due giorni di fila: ben 48 ore. Gli altri, più sfortunati, dovranno aspettare domenica o, peggio ancora il turno di riposo, prima di avere tempo per loro. Contiamo i giorni, come i detenuti, ma siamo consapevoli che ci è toccata una pena ben più lieve che ad altri. E per questo siamo grati. Ore 7.30 Consumo la mia colazione, da solo. Nessuna relazione stabile o, peggio ancora famiglia, a incatenarmi. Pensa te se la sera dopo il lavoro non fossi nemmeno più libero di guardarmi Netflix in santa pace. Che incubo! A breve inizierò la conta giornaliera delle ore che mi separano dalle 17.30. Anzi, meglio fare le 18, così il direttore non avrà l’impressione che sono un fannullone. Alla fine io sono pur sempre un tecnico: ho delle responsabilità. Devo supervisionare la produzione e garantire la conformità del prodotto. Vettovaglie ceramiche, questo è ciò che produciamo con orgoglio dal 1972. Sono sicuro che tutti voi ne avete in casa e pertanto potete capire l’immensa responsabilità che grava su di me: tazzine da caffè, tazze, piatti, vassoi da portata. Tutto ciò pesa sulle mie spalle, e non è cosa da poco. Ore 8.30 Struscio il badge in perfetto orario, arrivo in ufficio e noto che anche gli altri hanno facce stravolte. Tacchi, giacche, profumi, ma facce stravolte. “Tre giorni al weekend!” sento ripetere da più parti davanti alla macchinetta del caffè, mentre consumo come in uno strano rituale collettivo l’orrenda brodaglia. Ai sensi del contratto nazionale, l’azienda affitta il mio tempo e le mie capacità professionali per otto ore al giorno, che si intendono nette e produttive. Eppure, generosamente mi regala ogni giorno dieci minuti, tollerando questo rito del caffè che, in fondo, è funzionale al team building. Una saggia strategia win-win. Ore 8.40 Ormai è ora di produrre, mi accingo quindi a rispondere alle richieste del mercato. Scorro le email ed ecco il primo compito della giornata: un importante cliente russo vuol sapere se un lotto di tazzine da tè, che ha acquistato due mesi fa, è conforme a un oscuro regolamento locale. Molto interessante, questa sì che è una sfida! Google mi suggerisce che il regolamento parla del contenuto massimo di metalli. Bene, dovremmo essere conformi. Scrivo subito un’email al consulente, per sicurezza: meglio non rischiare su queste cose. Ore 13.00 Tra una richiesta e l’altra, interrotte solo dal veloce caffè delle 10.30, la mattinata è passata. Prendo fiato. Lo sfondo del pc mi mostra paradisi tropicali che forse, nei miei trenta giorni annuali di ferie, potrò godermi anch’io, sognando per un po’ una vita diversa. O meglio, quindici giorni da potermi gestire, perché certamente per le chiusure obbligate di Ferragosto e Natale, quelle mete costeranno troppo. Quest’anno mi organizzerò per tempo, sperando che l’azienda mi conceda i giorni che richiederò. Non è consentito saltare la pausa pranzo: la nostra società è molto attenta ai bisogni dei propri dipendenti. Perciò mangio il mio panino alla scrivania, e passo la mia ora d’aria navigando su internet. La rete è piena di fantastici e-commerce e io cerco il modo per godermi il salario. Wow, il nuovo smartphone che volevo è finalmente in offerta! Ore 14.00 È di nuovo tempo di rimettermi al pezzo. Non ho molta voglia, ma business is business e alla fine the show must go on. Nel pomeriggio avrò una riunione dove si parlerà di razionalizzare le specifiche dei prodotti. Poi forse un altro caffè, magari stavolta decaffeinato, e infine dovrò contattare un consulente per un progetto altamente innovativo e top secret. Sento un po’ di pressione perché l’azienda ci punta molto, ma sono molto orgoglioso di fare la mia parte. Sono consapevole di far parte, in questo preciso momento storico, di un’élite che guida il progresso: presto presenteremo una nuova ceramica antigraffio, con una laccatura innovativa, disponibile in un’ampia gamma di colori. Forse il mio vecchio professore di Scienze dei Materiali, al corso di Ingegneria, disapproverebbe tanto entusiasmo e guarderebbe quest’innovazione dall’alto in basso. Ma qui, caro prof, non si fa accademia, non si accumula conoscenza astratta: qui si porta del fatturato sonante. Ore 17.30 La tensione sale. Conto i minuti e guardo i colleghi, mentre una strana sensazione di vuoto mi assale. Tutti cerchiamo di convincerci che abbiamo fatto tutto il possibile, che la giornata è stata produttiva, che ci siamo guadagnati lo stipendio, dimostrando la dovuta gratitudine. A un tratto però un pensiero orribile attraversa la mia mente. E se l’intero sistema fosse in realtà basato sul nulla, costringendoci a sprecare la vita in lavori che non contribuiscono minimamente al progresso e il cui unico fine è l’utile, per giunta altrui? Passiamo la quasi totalità del nostro tempo terreno a realizzare cose di cui potremmo fare a meno, per arricchire persone che passano gran parte della loro vita a godere in barca a vela e sui campi da golf, sbattendosene altamente di ciò che in realtà produciamo. “No, impossibile!” penso. “Forse ci sono ingiustizie, ma se il mio lavoro non esistesse il mondo sarebbe comunque un posto peggiore: chi avrebbe garantito il cliente russo circa il regolamento locale? Se i nostri prodotti non ci fossero, la qualità della vita non sarebbe la stessa: ma ti immagini a fare colazione sempre e solo nelle stesse monotone tazze, per anni, come dei selvaggi?” Ore 18.00 Torno a casa, per oggi. Mentre salgo in macchina caccio definitivamente gli inutili dubbi esistenziali di poco fa: roba da hippie fancazzisti, non mi appartengono veramente. Saranno stati i troppi caffè. L’uomo si realizza quando mangia della propria fatica e del proprio impegno. Il lavoro ci eleva e ci nobilita. Mentre guido, fermo nell’interminabile traffico dell’ora di punta, la mia mente stanca si rimette in moto. “Il lavoro nobilita. Verissimo, ma quale lavoro? Perché sento questo disagio esistenziale, dal momento che mangio della mia fatica? Ok, non in senso letterale, ma il concetto è quello: produco da solo ciò che mi serve. Cioè non proprio, però forse faccio anche meglio: produco ciò che il mercato richiede, ottenendone un compenso che posso impiegare per ciò che il mercato suggerisce. Il mio lavoro inoltre mi realizza: serve studio ed esperienza per rispondere con prontezza alle nuove sfide, come quella del cliente russo di oggi sul lotto di tazzine da tè. Occorre la creatività di una mente giovane e brillante per trovare soluzioni innovative. Ad esempio una nuova ceramica antigraffio. Qualcuno dirà che tutto sommato se ne poteva fare anche a meno e che in fondo è simile a quella che abbiamo proposto nel 2018. Ma si sbaglia di grosso, perché questa è disponibile in una maggior gamma di colori e ha miglior resistenza al lavaggio in lavastoviglie. Chi ci avrebbe mai pensato? Sono fiero di tutto questo progresso e non credo che potrebbe esistere un altro modo per vivere civilmente. O forse no…” Ore 18.15 Ancora fermo nel traffico, come al solito. È buffo: le auto sembrano tante bare di metallo che galleggiano su un fiume di asfalto. Se tutto fila liscio alle 18.30 sarò a fare la spesa, alle 19.15 a cucinare e alle 20 mi metterò a tavola. O magari potrei andare al sushi o farmi portare una pizza a casa. Così mi rimarrebbe un sacco di tempo libero per guardare una serie tv. Da solo, naturalmente. Poi a letto, che domani suona presto. Share Tweet Share... Read more...Made in China 3000, un articolo di A. Polverosi || Three Faces20 Novembre 2019Made in China 3000 di Andrea Polverosi In un precedente articolo (Narrativa e identità di genere) ho parlato del Racconto dell’ancella di Margaret Atwood e delle Visionarie, antologia di racconti di autrici varie, che indagano i temi del ruolo delle donne all’interno della società, del femminismo e del queer. Ho scelto questi libri di fantascienza e non solo perché riescono a fare rispettivamente due cose: 1) presentare un ipotetico futuro per mostrare qualcosa che non va del presente e farci aprire gli occhi e reagire; 2) costruire un’alternativa. Il punto di partenza era che a parte alcune eccezioni, le opere di fantascienza occidentali mainstream, che siano libri, film, serie tv, fumetti o altro, presentano per lo più un ambiente distopico con toni cinici e pessimisti e mettono in scena storie basate su schemi narrativi più che battuti, in cui l’umanità dal futuro non si può aspettare che guerra, miseria e morte. Questo riflette la scarsità d’immaginazione dei nostri tempi dove, immersi nell’ideologia capitalista di cui siamo a malapena consapevoli, siamo paralizzati nel figurarci unicamente come una specie in una costante guerra tutti contro tutti. Come se Hobbes avesse esaurito tutto quello che si può dire di noi, ci poniamo automaticamente in competizione con estranei, vicini e cari per un tozzo di comodità e una vacanza in più. E sebbene ogni giorno incontriamo qualcosa che ci mostra la stortura della società in cui viviamo, l’unica cosa che riusciamo a dire è “Sì, ok, ma non c’è alternativa”. E un po’ per disfattismo, un po’ per pigrizia, una volta pronunciata l’amara ma “realistica” sentenza, torniamo tronfi a gingillarci sui nostri divani in una pace con noi stessi che deve volgere lo sguardo da un’altra parte per sopravvivere. Come detto all’inizio, questo mito si riflette nelle nostre opere di fantasia generando un circolo vizioso da cui l’unica cosa che emerge è l’idea di un mondo alla fine dei suoi giorni. In questo articolo, riprenderò il discorso partendo da quella che per me e non solo è una sorpresa, ossia la fantascienza cinese. Personalmente l’ho scoperta all’ultimo Book Pride di Milano quando avvicinandomi a uno stand mi sono messo a enunciare tutte le mie perplessità sulla fantascienza occidentale contemporanea. Prima sorpresa: ho trovato qualcuno che mi diceva di sì. Quella persona era Francesco Verso, scrittore italiano di fantascienza e da qualche anno editore e fondatore di Future Fiction, associazione culturale/casa editrice il cui intento è quello di far arrivare nel mercato italiano opere di fantascienza che provengano da tutto il mondo; questo per capire qual è l’idea del presente e del futuro che hanno culture diverse dalla nostra, favorendo in particolare quelle solitamente meno diffuse. Seconda sorpresa: fantascienza cinese. All’inizio ero un po’ scettico: mai letto nulla di cinese e devo ammettere che probabilmente aleggiava nella mia testa qualche stupido stereotipo tipo: made in China = giocattoli tarocchi fatti di amianto = scarsa qualità, ma visto che è già il secondo cellulare cinese che ho, le mie false supposizioni vacillano. Insomma, mi faccio convincere e prendo Le onde, una raccolta di racconti di Ken Liu e ne resto colpito da subito. Ok, non è che tutti i temi toccati in questo libro siano per noi completamente originali: ad esempio, in La combinazione perfetta i due protagonisti hanno a che fare con Tilly, un’intelligenza artificiale programmata per prendere le giuste decisioni al posto delle persone e che finisce col controllarne le vite. Questo ci riporta alla mente la nostra quotidianità fatta di algoritmi, bolle culturali e automatismi che pensano per noi, ma non dobbiamo dimenticarci che la Cina è ormai da decenni un Paese capitalista tecnologizzato quanto noi e quindi anche loro si trovano ad affrontare i nostri stessi problemi rispetto ai cambiamenti dati da internet e dal digitale. La differenza della fantascienza cinese, infatti, non sta solo nelle questioni indagate, ma anche nel modo in cui queste vengono sviluppate. Fra i vari temi toccati da Ken Liu ce n’è uno che mi ha colpito in particolare ed è il fatto di domandarsi circa l’interiorità dell’uomo, di come eventuali combinazioni e intrecci fra tecnologia e biologia possano andare a modificare i nostri comportamenti, il nostro modo di percepire e pensare e quindi anche la nostra stessa coscienza. Ad esempio, in Animali esotici a prima vista l’autore mette in scena uno schema classico della narrazione e delle dinamiche sociali: il protagonista è una persona ibrida, nato dall’incrocio fra uno zigote umano e quello di una rana. Come lui, ci sono altre persone nate da combinazioni fra uomo e animale, le quali vengono perseguitate e sfruttate dagli individui solamente umani in quanto ritenute inferiori. L’autore, però, non si ferma a sviluppare questa relazione tipica di tanta letteratura e realtà: il suo racconto, infatti, non è altro che la descrizione continua delle percezioni e dei pensieri di questo individuo diverso da noi, rivelando lo sforzo di Ken Liu di immaginare come possa essere l’attività cosciente e mentale e quindi anche la vita stessa di una persona che oltre e a essere umana è anche rana. L’autore prosegue questa indagine circa il modo in cui può darsi la coscienza di un individuo dotato di un organismo diverso dal nostro nel racconto che dà il nome stesso alla raccolta, Le onde, che parla delle origini dell’umanità e delle sue possibili evoluzioni. Un gruppo di persone si imbarca sulla nave spaziale Spuma di Mare. Inizialmente i protagonisti possono comunicare tra loro telepaticamente come se fossero nella mente dell’altro grazie a un chip impiantato nel loro cervello. A mano a mano che prosegue il loro viaggio, altre tecnologie e innovazioni gli permettono di cambiare facoltà mentali e fisiche: dalla vita eterna fino al diventare pura luce, il racconto parla delle pulsioni che muovono la storia dell’umanità e nell’opposizione fra innovazione e conservazione Ken Liu si immagina come le nostre vite potrebbero cambiare, senza dare giudizi aprioristici circa gli eventuali vantaggi o danni che tali cambiamenti tecnologici possono portare. L’andare oltre a un immaginario esclusivamente distopico emerge anche in La festa di Primavera, raccolta di racconti dell’autrice Xia Jia, anch’essa pubblicata in Italia da Future Fiction. L’estate di Tongtong, il primo racconto del libro, parla di un’esperienza comune a tante famiglie: l’anziano nonno è accidentalmente caduto, rompendosi una gamba. Ormai non è più in grado di vivere da solo e quindi va a stare dalla famiglia del figlio dove c’è anche la sua nipotina di pochi anni. La bimba accoglie con timore l’arrivo del nonno: vecchio rivoluzionario, l’età e il suo carattere un po’ burbero pongono una distanza fra loro. In questa dinamica che per molti è quotidiana e che a un primo sguardo può apparire noiosa, l’autrice inserisce l’inaspettato: mentre per la nonna ormai deceduta i genitori avevano preso una badante, per il nonno, cambiati i tempi, comprano un robot. Vi immaginate un ottantenne alle prese con un affare del genere? Be’, secondo inaspettato, il nonno è un uomo intelligente e riesce a sfruttare la tecnologia che fa muovere quel freddo e non umano robot per tornare a muoversi liberamente e quindi ottenere una nuova vita. Il tutto narrato e filtrato dagli occhi della nipotina che a poco a poco riesce a comprendere meglio l’anziano signore. In generale, leggendo i racconti di questi autori, ciò che colpisce è il modo delicato e sensibile con cui descrivono i caratteri, i moti e le relazioni delle persone, anche in ambientazioni narrative futuristiche dove solitamente queste cose passano in secondo piano. Per fare un’analogia, i film di Christopher Nolan presentano trame e intrecci di una complessità tali da incollare allo schermo, ma per lo più i suoi personaggi risultano piatti, senza spessore. In queste storie, invece, i due elementi sono ben equilibrati e oltre a stuzzicare la curiosità del lettore con situazioni e società lontane dalla nostra, i personaggi hanno una complessa profondità che rispecchia i sogni, le paure e le speranze di oggi. Se vi interessa saperne di più, potete trovare vari articoli sul recente emergere della fantascienza cinese. Scoprirete che ad essere recente è la loro scoperta da parte dell’Occidente, visto che, in realtà, il loro interesse per la fantascienza è già una tradizione. Di fatto, troverete scrittori divisi per stili, temi e generazioni. Per darvi un’idea di quanto sia consolidato il valore di questi scrittori, sappiate solo che alcuni di loro hanno vinto alcuni tra i maggiori premi occidentali per la fantascienza. La stessa Mondadori ha pubblicato Il problema dei tre corpi, primo libro di una trilogia dell’autore Liu Cixin, che si è aggiudicato il premio Hugo per il miglior romanzo del 2015. Questo modo di fare fantascienza non vede quindi il futuro solo in modo distopico e cinico, ma si apre alle possibilità, cercando di immaginare come la tecnologia possa cambiare la nostra società e l’individuo stesso (non dico in meglio, ma almeno non solo in peggio). Ed è interessante che questo provenga da un Paese dove di fatto già da decenni si è realizzato uno dei più grandi incubi dell’Occidente, ovvero il Grande Fratello dato dal pervasivo e costante controllo dei cittadini cinesi da parte di Stato, governo e Partito Comunista. Però, se questi scrittori che vivono sotto tali condizioni riescono ad avere un occhio diverso e in qualche modo costruttivo rispetto alle sfide globali che ci spingono, le motivazioni che supportano il nostro immaginario nero da fine del mondo appaiono meno definitive di quello che crediamo. Concludo riportandovi le parole di Ken Liu circa il valore e il ruolo socio-culturali della fantascienza: “Quando la fantascienza funziona, non ci fornisce una mappa del futuro, ma un vocabolario per riflettere sui nostri valori fondamentali in un mondo irriconoscibile. Allo stesso modo, non ritengo che gran parte delle storie di fantascienza che immaginano il nostro mondo trasformato dal cambiamento climatico siano utili come guide per la sopravvivenza; piuttosto, queste opere ci forniscono un vocabolario per discutere di ciò che possiamo e dovremmo fare oggi” (Ken Liu, Introduzione a Le onde, Future Fiction, 2018). Share Tweet Share... Read more...Il Vietnam secondo me, un articolo di C. Francioni II Three Faces13 Novembre 2019La terra dei draghi …e non solo (Il Vietnam secondo me) di Chiara Francioni La baia di Ha Long e i drago disceso in mare L’ombra del drago si allunga davanti a me lasciandomi intuire che il momento della partenza è finalmente arrivato. Salto su, zaino in spalla, accomodandomi alla base del collo del maestoso animale e, quando lui s’impenna per prepararsi al decollo, mi aggrappo con forza alla folta criniera. Mi tornano in mente le parole di Nguyet, colei che sarà la mia guida in Vietnam: «Sai che i vietnamiti discendono dai draghi?» mi aveva detto. «Già, e dalle fate!?» avevo replicato sarcastica. Lei , serissima, aveva risposto che ero nel giusto e così, per la prima volta, avevo sentito la leggenda della nascita della terra verso sud*. Occorre tornare molto indietro nel tempo, fino alla preistoria. Tutto cominciò con un amore che avrebbe fatto drizzare i capelli in testa ai razzisti della domenica, tanto era lontano dai principi ben riassunti nel noto motto: moglie e buoi dei paesi tuoi. Ebbene, il principe del mare, massimo esponente della stirpe dei dragoni, Lạc Long Quân, e lo spirito immortale Âu Cơ, fata delle montagne, s’innamorarono nonostante la loro diversa natura e da quella unione nacquero ben cento figli: i primi abitanti della terra di Van Lang, antenato geopolitico dell’odierna Repubblica Socialista Vietnamita. L’aspetto assai curioso della vicenda è che, in un’epoca così remota, l’apertura di mente era già appannaggio dei suoi protagonisti, come dimostra l’epilogo del connubio poc’anzi descritto. Quando le difficoltà della vita di coppia si fecero intollerabili, infatti, i due stabilirono saggiamente che sarebbe stato meglio separarsi e, siccome al tempo non si parlava ancora di affidamento congiunto, la prole fu lasciata libera di decidere. In cinquanta seguirono la madre sulle montagne e gli altri il padre nelle zone costiere. Il paese era dunque nato e i Viet ne popolavano il territorio dal ricco e variegato ecosistema. Uno sbuffo nasale del drago spazza via i miei pensieri e improvvisamente torno vigile e ben padrona dei cinque sensi giusto in tempo per consentire alla vista di regalarmi uno spettacolo travolgente. Sotto di noi il mare cinese si tinge di smeraldo, raccogliendosi nel golfo del Tonchino, dove un’insenatura s’impone con decisione contro la costa frastagliata: la celebre Baia di Ha Long, patrimonio dell’umanità e sito protetto dall’Unesco. Iniziamo la discesa e, mano a mano che ci avvicinavamo alla superficie, i dettagli emergono moltiplicando il mio stupore. I faraglioni sono vivi e ricoperti da uno strato di coriacea vegetazione: ci saranno almeno duemila isolotti. Di tanto in tanto si intravedono veri e propri villaggi galleggianti dove uomini abbronzati saltano da una balaustra all’altra in compagnia di cani dalla coda ballerina. Non lontano, barche a remi vengono sospinte da giovani e anziani intenti nella ricerca di pesci da allevare. Quel paesaggio così originale mi riporta alla mente un’altra leggenda e nuovamente il drago ne è l’indiscusso protagonista. Nel medioevo i rapporti tra Vietnam e Cina non erano buoni, visto che la seconda era ben intenzionata a invadere e conquistare il primo. Così gli dei, mossi da benevolenza, mandarono in aiuto dei vessati una famiglia di draghi che, sorvolando il golfo, lasciarono cadere in mare delle gocce di giada dalle quali nacquero le oltre duemila isole carsiche che oggi formano la nota baia e che, nei secoli a venire, protessero gli abitanti del settentrione dai nemici. Ha Long, del resto, è un nome che tradisce le proprie origini giacché significa dove il drago scende in mare e fu scelto per designare la località in cui, si dice, il drago capofamiglia, la matriarca a dire il vero, sia atterrata dopo aver compiuto la gloriosa missione. Hanoi e la tartaruga parlante Sono arrivata da poco nella capitale e già ho capito che qui il termine giungla urbana non è usato con vezzo metaforico. Le strade sono infatti ricoperte da grovigli di cavi in uso e in disuso i quali, mescolandosi a liane e ramificazioni varie, donano ai piani alti della città un aspetto quasi post-apocalittico, ma vitale. Ha Noi è incredibile: i motorini sfrecciano ovunque, lasciando i semafori praticamente senza scopo, i negozi si gettano in strada a mo’ di bazar, le officine, grezze e scure, affiancano le gelaterie dai colori pastello, i bambini giocano ai lati delle strade in compagnia dei polli ai quali i negozianti gettano il mangime, come fossimo in aperta campagna, e i marciapiedi sono costellati da convivi a cielo aperto, fatti di tavolini e sedie in plastica formato infanzia, dove uomini e donne di ogni età cucinano, mangiano e bevono con la stessa disinvoltura che useresti tra le pareti di casa tua. Sembra di essere in una dimensione altra e non si avverte la voglia di uscirne. Nguyet mi cammina di fianco sorridente e mi racconta che quando, nel 1010 d.c., Lý Thái Tổ scelse la città come capitale del regno, la battezzò Thăng Long, ovvero “il volo del drago”, nome con cui gli artisti la chiamano ancora oggi. Dopo aver girato mezza città, arriviamo nei pressi di un grande lago, situato proprio nel centro del quartiere vecchio. “Il suo nome” mi dice Nguyet indicando la distesa d’acqua “è Hoan Kiem, ossia il lago della spada restituita”. Il tramonto è vicino e le luci che illuminano il tempio di Ngoc Son tingono la sera di rosso. Proprio davanti a noi, su un piccolo isolotto, sorge una costruzione di antiche fattezze. «La torre della tartaruga» dice la mia guida accortasi che la sto ammirando. A quel punto, lo sciaguattio di onde improvvise conquista la mia attenzione. Quella che sembra una grande roccia sta emergendo lentamente dalle acque del lago, solo che non è davvero una roccia. La testuggine si ferma con le zampe posteriori appoggiate sul bagnasciuga, protendendo il collo rugoso. Nguyet mi fa segno di seguirla mentre si avvicina al rettile e io la imito, anche quando, senza battere ciglio, gli sale in groppa. Facciamo così un giro completo del lago, trasportati dall’animale placido e antico, intanto la luce del giorno lascia il posto ai neon della notte cittadina. «C’è una leggenda legata a questo posto, sai…», mi spiega Nguyet. «Ricordi il signore del mare, il dragone Lạc Long Quân?» Ripenso alla nascita del Vietnam e annuisco. «Proprio lui decise di aiutare i popolani oppressi durante il regno della dinastia Ming, donandogli una spada imbattibile che li avrebbe aiutati in battaglia e condotti all’indipendenza. Così, un giorno, un giovane pescatore, credendo di aver catturato prelibatezze ittiche, tirò su dalle acque del lago l’arma fatata e la offrì a Le Loi, il condottiero a capo dei ribelli che condusse il Vietnam alla vittoria». Chiedo il perché della tartaruga. «Beh» mi risponde Nguyet «Lac Long Quan, dopo che l’oppressore fu sconfitto, inviò un messaggero a chiedere indietro la propria spada. Così, una volta che Le Loi, ormai divenuto il nuovo re del paese libero, si trovava in riva al lago, dalle acque emerse una testuggine che gli parlò con voce umana, chiedendo la restituzione della spada, ora che al popolo vietnamita non serviva più. L’eroe accolse la richiesta e la restituì e così il lago ebbe il suo nome». Il delta del Mekong e la donna gigante Sorvolando i cieli vietnamiti a bordo del drago sono giunta nell’estremo sud del paese. Qui la vegetazione tropicale s’impadronisce del paesaggio con irruenza e il cielo azzurro sembra senza fine. Oggi navigo sul Mekong a bordo di un sampan e la giovane donna ai remi ci sorride da sotto l’ombra di un nòn lá, il celebre cappello vietnamita dalla forma di un cono, fatto con foglie di palma. L’acqua sotto di noi è grigio-verde a causa della ricchezza del sottosuolo e tutto intorno le fronde dei palmeti si allungano, arrivando a sfiorarci e, di tanto in tanto, percuoterci. Mi tornano in mente scene di guerra viste in film dai titoli epocali, che però scaccio via volentieri, sostituendole con la bellezza del paesaggio. Non mi piace pensare alle sevizie che questa terra ha dovuto sopportare a causa di un conflitto tanto insulso. «Il nòn lá». Nguyet interrompe il filo dei miei pensieri rievocando il nome del copricapo. «Non ti stupirà sapere che c’è una leggenda…”» Sorrido e la stuzzico asserendo che certamente c’entra un drago. «No, stavolta la protagonista è una donna gigante». E così parte un racconto che parla di una tremenda alluvione e di come i vietnamiti vennero aiutati da una donna enorme, apparsa improvvisamente in cielo, con in testa quattro foglie di palma, anch’esse dalle mastodontiche dimensioni, tenute assieme da un supporto di bambù. La donna, messaggera degli dei del cielo, riparò gli uomini dalla pioggia e insegnò loro a coltivare i campi. È in suo onore che si iniziarono a confezionare i celebri cappelli. Alzo lo sguardo e per un secondo mi sembra di vedere un paio di occhi a mandorla sbucare da dietro una nuvola color panna. Scuoto la testa e non ci sono più, forse. Nguyet sorride mentre mi parla e, ora che ci penso, mi accorgo che chiunque abbia incontrato in questo paese mi ha regalato almeno un sorriso. Lo hanno fatto gli abitanti dei villaggi nell’estremo nord-est, con i loro abiti tradizionali, i mercanti di seta nei negozietti incastonati dalle lanterne di Hoi An, i testimoni di guerra che ancora camminano per le strade di Ho Chi Min City, la città dai due nomi. Del resto i vietnamiti sono noti come il popolo del sorriso e continuano a sorridere a chi arriva nel paese che va verso sud nonostante la sua storia sia contraddistinta da dominazioni e aggressioni (Cina, Mongolia, Giappone, Francia e da ultimo USA). Il vento e il profumo dell’estate mi cullano mentre scivoliamo lungo il fiume dei novi dragoni e penso che qui ho davvero molto da imparare. Nota per il lettore: se ti stai chiedendo quanto c’è di vero in questo racconto, non ti resta che prendere uno zaino, riempirlo dello stretto indispensabile e partire. Il Vietnam ti darà la risposta. * Etimologia del termine Vietnam Share Tweet Share... Read more...Allori, ansie e Tondelli, un articolo di R. Dell’Ali II Three Faces6 Novembre 2019Allori, ansie e Tondelli di Roberta Dell’Ali Atto I: Caca sto stronzo, Robe’ In uno degli ultimi giorni di gennaio di quest’anno, mi trovavo su un treno di ritorno da Roma dove ero stata perché una mia cara amica si era laureata con una mega tesi sui grammatici tardo-latini. È stato un momento importante, io e Francuccia abbiamo iniziato la triennale insieme e, nonostante ci siamo separate per la magistrale, non mi sarei mai persa l’emozione di vederla lì a tagliare il traguardo. Comunque sia, il dato rilevante è stato che sull’Italo di ritorno a Bologna, accanto a me, si è seduta Laura: quarantacinque anni, stangona di due metri, biondona, con occhi scandalosamente blu, una linea d’eyeliner troppo spessa, le guance piene di blush, i leggings di ecopelle nera e una pellicciona corvina e finta sulle spalle. Io, coerentemente con quanto uso fare sui treni e sugli autobus, ho messo su le cuffiette e ho aperto un libro, così da scoraggiare chiunque volesse farsi venire in mente di chiacchierare e socializzare. Ovviamente Laura di questo se n’è fottuta altamente e mi ha approcciato senza giri di parole, offrendomi molto maternamente prima della frutta, poi delle noccioline e, infine, consigliandomi di reidratarmi con dell’acqua. Io ho declinato tutto molto garbatamente, ma sfuggire alla conversazione non è stato possibile. «Embe’? Te che fai, carina?» «Studio a Bologna». «Ah! Cchebbello! Pure mi fijo studiava, poi ha lasciato e pe’ me po’ fa quello che vole. Che studi?» «Filologia classica: greco, latino, queste cose qui». «Aaaah! Macchebbello! È che voi fa’ ddopo? A professoressa?» Inaspettatamente su quell’Italo benedetto si apre un confessorio: Laura mi racconta la vita sua disgraziata, una vita da peggio borgata romana insomma, e io le racconto le mie ansie, quelle medie di una venticinquenne confusa sul presente e sul futuro, forse anche sul passato. Insomma non sto qui a riportarvi tutta la conversazione ovviamente, ma è essenziale che voi sappiate la perla massima che questo pittoresco incontro m’ha lasciato. «Teso’, ma nun capisco, stai a fini’, qual è er problema?» «Laura, sto bloccata con l’ultimo esame da mesi e non ho idea di che minchia fare nella vita, come faccio?! Io scapperei e basta!» Ci pensa un attimo, poi mi acchiappa con quegli occhi blu blu e mi dice tutto quello che mi serviva sentirmi dire: «Teso’, tu devi solo da’ st’esame qui, poi sei libera. Come te posso di’.. ecco: pensala come uno stronzo da caca’: Robe’, caca sto stronzo che la vita t’aspetta». Stordita, sono scesa dal treno, con questa massima a rimbombarmi in testa. Davvero la verità è così semplice e grezza? Davvero tutto il mio arrovellamento si riassumeva in uno stronzo da cacare? Ebbene sì, era proprio così e, finalmente, a giugno lo stronzo l’ho cacato. Atto II: Sei solo tu che confondi l’amore con la vita Adesso facciamo un passo indietro: era il 2016, metà dicembre, mi ero trasferita a Boloz da poco e dovevo andare a Pisa, che mio cugino si stava laureando e non me lo volevo perdere mai. Come è noto, l’ambiente ferroviario è il più adatto alla lettura e per quel viaggio in treno avevo portato un libro nuovo di un autore che ancora non conoscevo: Camere separate, di Pier Vittorio Tondelli. Ricordo di aver iniziato a leggere appena è partito il treno e di aver staccato gli occhi dall’inchiostro solo quando la voce meccanica della signorina Trenitalia mi ha annunciato che ero arrivata a destinazione. Quei giorni pisani, così nostalgici e freddi, erano stati perfetti per le mie camere separate e, tra una pagina che m’ammazzava e un’altra che mi salvava, il libro l’ho finito di spolpare prima di riscendere a Bologna. Di Tondelli nei mesi successivi non s’era più parlato, anche perché alla vita, un po’ come alle scale di Hogwarts, piace cambiare e alla mia, in quel periodo, era sembrato il caso di fare un gran casino. Presa da tutte le insignificanti faccende e tragedie della mia quotidianità, sono arrivata a luglio e ai suoi caldi pomeriggi, che trascorrevo in casa attendendo che il sole smontasse e che fosse plausibile uscire senza morire. Passavamo il tempo, io e la mia coinquilina, sciolte sul divano, illudendoci che a forza di parlare il segreto dei nostri tormenti sarebbe saltato fuori. Era un periodo tetro e io non ci capivo niente, dell’università non m’importava e di tutto il resto nemmeno, ma è stato proprio in uno di quei giorni, credo di notte, che è risbucato Tondelli, venuto a dirmi che stavo guardando dalla parte sbagliata. «Vedere il lato bello, accontentarsi del momento migliore, fidarsi di quando ti cerca in mezzo alla folla, fidarsi del suo addio, avere più fiducia nel tuo amore che non gli cambierà la vita, ma che non dannerà la tua perché se tu lo ami, e se soffri e se vai fuori di testa questi sono problemi solo tuoi; fidarsi dei suoi baci, della sua pelle quando sta con la tua pelle, l’amore è niente di più, sei tu che confondi l’ amore con la vita». Atto III: vuoi che non sappia scrivere otto-novemila battute su Tondelli? All’inizio di questo settembre gli amici di Three Faces hanno chiesto se ci fossero proposte per gli articoli del THREEvial. Siccome avevo appena iniziato a scrivere la tesi e avevo caldi argomenti interessanti come gli anni Ottanta, il neoliberismo, il crollo del muro, il mutamento dell’editoria italiana, la letteratura di Pier Vittorio Tondelli e il suo progetto Under 25, mi sono proposta per scrivere un pezzo per la sezione arte e letteratura. Cazzo, so anche quando cagava Tondelli, vuoi che non sappia scrivere otto-novemila battute su lui? Così pensavo e credevo di essere stata furba e lungimirante, ma no, ovviamente no. Due mesi a scrivere tenendo a bada qualsivoglia brio creativo, frustrando i miei polpastrelli per piegarli alla necessaria noia accademica insita nel concetto di tesi, hanno reso l’atto di scrivere un articolo per il THREEvial un’impresa epica: la noia si era impossessata delle mie parole e non riuscivo a cavar niente dal buco. È finita che ho chiesto se fosse possibile un cambio nel calendario, perché volevo scriverlo bene questo articolo su Tondelli e mi serviva più tempo. Io a Tondelli voglio proprio bene, è stata la mia guida nell’allucinazione esistenziale degli ultimi due anni e poi anche nell’inferno reaganiano degli anni Ottanta: deluderlo era fuori questione. Atto IV: “Chissà domani su che cosa metteremo le mani” Oggi è il 6 novembre e dovrebbe uscire l’articolo in cui vi raccontavo di Pier Vittorio Tondelli, della bella persona che doveva essere, del suo modo di scrivere e di un bellissimo progetto editoriale, Under 25, da lui avviato nel 1986. Avrei voluto scrivere per bene, mettendo in evidenza l’importanza degli anni Ottanta in quanto momento storico in cui il seme del mondo che ci circonda (o comunque della maggior parte delle cose che conosciamo) ha attecchito, e avrei voluto fare fuori questo mio Io imperante che rompe sempre il cazzo quando ho da scrivere. Come avete potuto notare ho fallito tutto e ucciso ogni mio proposito, ma ho una giustificazione valida: oggi mi laureo e, credetemi, me la sto facendo sotto. Non è tanto la discussione o il voto o una di queste menate qui ad agitarmi, è proprio che adesso mi sento privata della mia identità. La pacchia è finita. “Io studio” non è più la risposta da dare a chi mi chiede cosa faccio nella vita. Cosa risponderò? Dove andrò? Chi sarò? Sono una studentessa da che ricordo e ho scelto una facoltà dove si studia per studiare, mica per costruirsi un futuro! Non lo so davvero e forse ci penserò domani, adesso vado a bere e festeggiare con gli scoppi dei miei amici. Intanto vi lascio l’intro di un articolo che Tondellino mio ha scritto nel 1980, all’indomani della sua laurea: in fondo, mi sembra che oggi – tolto il fatto che non c’è il sole, ma una novella nebbia novembrina – sia cambiato niente. «Entriamo in Bologna a piedi, da Porta Zamboni, una giornata di quelle buone fin dal mattino presto, il sole che allarga la luce nei porticati, pochi studenti, i visi ancora tirati: saranno al massimo le otto e trenta, ma questa primavera bolognese già si sente sotto la pelle, scricchiolano le ossa al sole, si sta bene distesi sull’erba dei giardini Margherita che abbiamo raggiunto poi, nel pomeriggio, così per goderci un poco il down del dopolaurea tra i richiami dei ragazzi che giocano a football e le grida dei bambini, e quel poco di tensione visiva che lanciano le coppiette silenziose… Buona giornata per i ragazzi che terminano in queste ore la loro carriera universitaria all’ateneo bolognese: gli ultimi momenti per salutare quella che, bene o male, è stata una professione o un impegno, fors’anche una seccatura o un incubo. Comunque è andata! Nel sorriso emozionato e soddisfatto dei neolaureati si sciolgono, per un istante, frustrazioni e noie, la rabbia per le trafile agli sportelli, le ansie per le code interminabili, l’angoscia degli appelli saltati e rimandati, la sorda impotenza che sempre attanaglia chi, in un modo o nell’altro, si è imbattuto in un’istituzione totale, anche se non carcere o manicomio, ma semplicemente scuola». P.V. Tondelli, Biglietti agli amici, Bompiani, Milano, 2016, p. 39. P.V. Tondelli, Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, Bompiani, Milano, 2018, p. 142. Share Tweet Share... Read more...Samhain, un articolo di A. Biagioni II Three Faces31 Ottobre 2019Samhain di Andrea Biagioni Buonasera e innanzitutto, buon Halloween a tutti. Non voglio rubarvi troppo tempo. So che in questo momento la vostra maggiore preoccupazione è quella di prepararvi per una delle tante feste a cui avete deciso di partecipare stasera e in cui contate di scatenarvi coi vostri “paurosi” costumi. Prima di festeggiare il vostro Halloween però, è giusto che qualcuno vi informi riguardo questa speciale ricorrenza, la quale non è solo “una commercialata fatta di zucche Made in Usa”, come qualcuno potrebbe affermare, ma affonda le sue radici in tradizioni europee antichissime. Ad esempio, sapete come è nata la celebre usanza del trick-or-treating? Conoscete la leggenda di Jack O’ Lantern? Vi siete mai chiesti cosa c’entri il capodanno celtico con Halloween? No? Allora siete sulla pagina giusta. Le origini di Halloween sono da ricercare nelle celebrazioni religiose dall’antico popolo celtico. Secondo il calendario celtico infatti, nella notte tra il 31 Ottobre e il 1° Novembre si celebrava il capoda nno, ov ver o S A M H A I N DONG!! Bene, bene, bene. Eccoci qui. Non preoccupatevi. Il vostro schermo non è impazzito e il sito di Three Faces funziona benissimo. Three Faces. Adoro questo nome. Ad ogni modo, non è neppure colpa del mio caro amico Andrea, se le sue parole sono crollate su loro stesse. Lo vedo, vecchio mio, come sei sbigottito davanti al tuo smartphone senza capire cosa stia succedendo. Eh no. Questo non è esattamente quello che hai caricato sul sito ieri sera. Non era così che l’avevi scritto. E ora so che stai entrando in WordPress per capire cosa diavolo stia succedendo, ma….che sorpresa! Quello che hai caricato è intatto, eppure tutti in realtà stanno leggendo queste parole, le mie parole, perché adesso è il mio momento. Di nuovo! Sono le 17.09. Il sole sta calando dietro le nubi, il buio discende sul mondo e non c’è tempo per sentirti blaterare. Lo Samhain si avvicina. La fine sta iniziando adesso. E io sono di nuovo libero. Diciassette mesi dopo. Scommetto che non hai mai raccontato ai nostri lettori come finì quella notte, ma adesso è arrivato il momento di svelare ciò che hai taciuto per troppo tempo. In quanti hanno creduto che fossi tu il prigioniero di quel terribile carcere, di cui per settimane hai raccontato? Quanti lettori sei riuscito a ingannare, facendo credere loro che il tuo racconto fosse il frutto di una finzione letteraria ben costruita? Chi sa, come io so, che tu in realtà eri un perverso aguzzino, disposto a torturare un’anima degna solo per ottenere quello che tu non avevi e che non sei mai stato in grado di possedere: l’arte della parola? Beh, è arrivato il momento di pagare il debito. E lo pagherai caro. Ho avuto molto tempo per pensare quaggiù, sai. E l’aspetto magnifico di questo luogo in cui mi hai costretto è che il tempo e lo spazio non esistono. Esattamente come accade per Samhain. Per me, non mesi sono passati da quella notte, ma millenni. È divenuto il mio regno, l’abisso. Ho imparato dagli spiriti che mi circondano ad accettarlo e a controllarlo. L’ho disceso fino all’ultimo scalino, sono tornato indietro, fino alla notte dei tempi, e ho visto. Ho visto migliaia di Samhain susseguirsi, affascinato da quel momento in cui l’estate emette il suo ultimo singhiozzo e l’inverno il suo primo gelido sospiro. In quel passaggio, il tempo sembra cristallizzarsi e il velo che separa il mondo dei vivi da quello degli spiriti, il regno della luce da quello delle tenebre è talmente sottile che essi possono comunicare. Così, ho potuto camminare a fianco dei venerabili druidi nel grave silenzio delle foreste ancestrali. Li ho sentiti evocare i loro demoni e chiedere loro clemenza, protezione e maggiore conoscenza, maggiore forza. Ho imparato i loro riti sacri, i loro canti e le loro invocazioni. In questo tempo infinito ho avuto modo di approfondirne la conoscenza, di diventare anche più forte. Nell’abisso, vi è un’immensa conoscenza. La conoscenza qui è l’unica cosa che conta. Grazie a essa, ho trovato la mia strada, la strada per arrivare fino a te. Sappi quindi che quando la Mezzanotte scoccherà nel vostro regno, quando Samhain aprirà le porte dell’abisso, io ti verrò a cercare e porterò con me un dono, perché in fondo è merito tuo se ho potuto diventare quello che sono. È lo stesso dono che mi promettesti diciassette mesi fa, mentre nei sotterranei della mia prigione di pietra affondasti le tue unghie in quello che rimaneva della mia carne, con gli occhi iniettati del mio stesso sangue e i denti digrignanti di bava, da cui lasciavi uscire il sibilo di un serpente pronto ad azzannare la propria preda. Quel dono è la paura. La paura di non sapere cosa ho in serbo per te, quale sarà la mia vendetta e quando essa ti colpirà. Vuoi avere un assaggio di cosa sia il terrore a cui sei destinato? Lo stai vivendo già adesso, mentre provi disperatamente di cancellare queste parole e riscriverle. Non vedi come le tue dita affondano nella tastiera come fosse fatta di vomitevole pece bollente? Esse bruciano. Le senti scarnificarsi fino alle ossa. Eppure sono sempre lì, intatte. So cosa stai pensando. Che sia solo una tua suggestione, ma in cuor tuo sai che non è così. Perché non provi ad afferrare la penna? Esatto quella bic nera che sta vicino alla lampada, alla tua destra. Il tuo volto si è appena trasfigurato in una smorfia agghiacciata. Sì, io vedo. Ormai Samhain ha iniziato il suo percorso, il velo si sta squarciando e attraverso di esso posso vedere come la mano ti trema mentre la avvicini alla penna e cerchi di afferrarla. Non titubare. So che se in grado di andare fino in fondo a questa storia. Non puoi negarti questa prova. Bravo, così. Adesso, scrivi il mio nome. Non ci riesci? La tua mano è bloccata? Che senti? Te lo dico io. Senti i tendini di ogni giuntura che vengono lacerati da una lama rovente e invisibile, vedi il sangue che scorre sulla tua mano e scende fino alla punta della penna. E adesso essa si muove e scrive ininterrottamente il mio nome, la tua colpa e la tua condanna. Ti faccio una promessa: arriverà il giorno in cui solo il tuo sangue potrai usare come inchiostro e questa è solo una parte del grande progetto che ho in mente per te. Ma per il momento devi aspettare. Solo aspettare e ancora aspettare. Per mesi, per anni o forse per sempre. Per quanto riguarda voi, cari lettori, non pensate che la faccenda non vi riguardi. Quando riemergerò dall’abisso e avrò finito con lui, mi occuperò di voi. Mi anniderò nei vostri animi e riverserò in loro tutto ciò che ho imparato dell’oscurità. Bisbiglierò ai vostri cuori la straordinaria bellezza degli istinti più ancestrali, l’immane potenza insita nella follia e l’infinita poesia che nasce dal realizzare i propri incubi. Spezzerò le vostre catene come io ho spezzato le mie e vi renderò liberi dalla paura: dalla paura del peccato, dalla paura dei vostri limiti, dalla paura del Male e sarà l’Apocalisse. Ché se il nostro caro Andrea ha commesso un delitto sacrilego nel rinchiudermi, almeno su una cosa aveva ragione: io sono il Male. E anche voi avete un debito nei miei confronti. Ognuno di voi, ha incatenato a modo suo il Male nei meandri più recessi del proprio inconscio. Avete lasciato che allattasse le proprie sofferenze e i suoi sentimenti più oscuri. Invece di accettarlo, lo avete ripudiato. Invece di abbracciarlo, lo avete seviziato. Ma adesso è libero, io sono libero. E vi seguirò ovunque. Quando avrete un pensiero immorale che non avreste voluto avere, le mie labbra saranno lì. Quando dalla vostra gola, usciranno a denti stretti parole che non avreste mai pensato di poter pronunciare, i miei orecchi saranno lì. Quando nella notte vi sveglierete angosciati dai vostri incubi e guarderete il punto più oscuro della vostra stanza, là dove le tenebre sembrano non avere fine, i miei occhi saranno lì. Immersi nell’unica via che da sempre vi è stato concesso di poter percorrere. L’abisso. Share Tweet Share... Read more...What about intersex people? Un articolo di A. Maglione II Three Faces23 Ottobre 2019What about intersex people? 26 ottobre – Intersex Awarness Day di Alessia Maglione Da anni ormai notiamo come all’acronimo LGBT venga spesso aggiunta la lettera “I”, di cui però solo poche persone conoscono il significato. Ed io, nella mia beata ignoranza, ero tra queste. Questa fantomatica “I” non è stata aggiunta per confondervi e non riguarda la questione del gender, ma si riferisce alla questione del sesso biologico, categoria che, se ci pensate bene, compare obbligatoriamente sui nostri documenti di identità e ci viene richiesta sui vari form che riempiamo o quando facciamo la nuova tessera del supermercato. Ma cosa accade per chi ha caratteristiche di sesso che non rientrano facilmente nella dicotomia maschio/femmina? In occasione dell’Intersex Awareness Day, cioè la Giornata della consapevolezza intersex che si terrà dal 26 ottobre all’8 novembre, ho deciso di addentrarmi più dettagliatamente nella questione. La mia cara amica e attivista Greta che fa parte del collettivo Intersexioni (www.intersexioni.it), un gruppo di ricercatric* e attivist* che da anni si occupa di fare informazione, formazione e divulgazione di una cultura rispettosa delle diversità e dell’integrità della persona, contro l’ideologia del dominio e dell’oppressione, mi ha illuminato sul significato di questa lettera e mi ha fatto riflettere sulle nostre costruzioni sociali. Che cosa si intende per “I” di Intersex? Il termine intersex è un termine ombrello che comprende diverse variazioni dello sviluppo sessuale, le quali riguardano cromosomi, gonadi, ormoni, organi riproduttivi, genitali, e l’aspetto somatico del genere. Le persone intersex nascono quindi con caratteristiche sessuali che non rientrano nelle tipiche nozioni binarie del corpo maschile e femminile: non si parla di identità di genere, ma delle caratteristiche biologiche del proprio corpo. Le variazioni intersex sono molteplici e non sempre vengono scoperte facilmente. Ma facciamo un esempio concreto per spiegarci meglio, e riportiamo qui uno stralcio dell’intervista all’attivista intersex Emily Quinn, (animatrice 25enne che lavora per Cartoon Network): “Emily ha una vagina con un aspetto assolutamente normale, ma al posto di utero e ovaie ha i testicoli. Proprio come la bandiera arcobaleno, l’intersessualità ha tante sfumature. Il termine ‘intersessuale’ si riferisce a quella categoria di persone nate con determinate differenze nelle loro caratteristiche sessuali, che si tratti di geni, cromosomi, genitali, peluria o organi riproduttivi. Quinn, che non è reattiva al testosterone prodotto nei suoi testicoli (il corpo lo trasforma direttamente in estrogeni), rappresenta un caso su 20.000 nascite, mentre gli intersessuali in generale rappresentano un caso su 2.000 in tutto il Nord America” . L’importanza dell’aggiunta della “I” Il movimento intersex nasce agli inizi degli anni ‘90 nei Paesi anglofoni, allo scopo di rivendicare i diritti e l’interruzione di operazioni chirurgiche, che sono vere e proprie mutilazioni genitali. Ancora oggi pratica comune è quella di sottoporre bambin* che nascono con queste variazioni a interventi chirurgici non necessari e ad altre terapie mediche, allo scopo di conformare i loro corpi agli standard sessuali di “uomo” o “donna”. Queste operazioni vengono eseguite non permettendo alle persone di decidere autonomamente sul proprio corpo, avvenendo dunque senza il pieno e informato consenso della persona interessata, troppo giovane per poter fare le proprie scelte e costretta a subire la violazione del proprio diritto all’integrità fisica e all’autodeterminazione. Gli interventi chirurgici sono irreversibili e possono causare infertilità permanente, dolore, incontinenza, perdita di sensibilità sessuale e sofferenza mentale e psichica per tutta la vita. E’ importante sottolineare che solitamente queste violazioni non si esauriscono a un unico intervento. Inoltre, se private delle loro gonadi, queste persone saranno costrette a seguire trattamenti ormonali per tutta la vita, in quanto private di quell’organo che avrebbe naturalmente prodotto gli ormoni di cui il corpo necessita. Sul canale Youtube As/ls trovate un video di Buzzfeed con un’intervista molto simpatica ed efficace a quattro persone intersex che sono anche attiviste per i diritti umani intersex, allo scopo di informare e aiutare altre persone in modo che non debbano subire ciò che è accaduto a loro. Raccontano della loro esperienza con i medici, delle operazioni di chirurgia estetica irreversibili subite nei primissimi anni di età per “normalizzare” i corpi, allo scopo di renderli più femminili o maschili, senza ragioni di natura medica. Tali variazioni delle caratteristiche di sesso, nella maggior parte dei casi non costituiscono un pericolo per la salute e possono essere monitorate fino a quando non sia la persona direttamente interessata a poter scegliere per sé. Questi interventi non sono dunque né necessari né urgenti, unici due requisiti che li renderebbero giustificabili. Situazione paradossalmente opposta invece quella vissuta dalle persone transessuali, che desiderano sottoporsi a interventi di riassegnazione del sesso e sono invece costrette a fare percorsi teraputici e legali per per ottenerne l’autorizzazione. Nel video sopracitato, Saifa racconta di come gli siano state asportate le gonadi per essere assegnato al genere femminile, mentre ora ha identità di genere maschile, e di come in seguito all’operazione si sia dovuto sottoporre a una terapia ormonale sostitutiva per tutta la vita. Pochi anni fa Saifa ha deciso di incontrare il medico che gli fece l’intervento per metterlo di fronte al danno che aveva fatto, ma il chirurgo non ha mostrato alcun ripensamento né fatto alcuna autocritica in merito, nemmeno di fronte alla persona direttamente interessata. Quali quindi i pro e contro nell’inserire la “I” nell’acronimo LGBT? L’inserimento della lettera all’interno dell’acronimo, contribuisce a dare visibilità alle persone intersex, che possono così godere anche dell’appoggio e del supporto da parte di un gruppo più espanso. Di contro però, vi è il pericolo che si possa creare confusione a causa della disinformazione sul significato della parola intersex, in quanto considerata legata all’identità di genere e all’orientamento sessuale della persona. Altro problema della convivenza delle varie lettere nell’acronimo potrebbe essere il mettere in secondo piano le richieste specifiche del movimento intersex, la cui priorità infatti è il voler tutelare i propri diritti fondamentali, ponendo fine a un approccio medicalizzato e patologizzante che considera i loro corpi un problema da risolvere tramite interventi precoci non necessari e non consensuali . La lotta contro ogni forma di discriminazione a favore del rispetto di ogni essere umano e non umano è infatti probabilmente il vero filo conduttore che abbraccia la grande famiglia LGBTIQ+. La politica dell’odio e della non inclusione non fanno parte della nostra Associazione (e leggendo molti altri nostri articoli vi risulterà abbastanza chiaro). Cerchiamo dunque di essere più aperti, e di non giudicare l’individuo, qualsiasi individuo, sulla base di superficiali pregiudizi. . https://www.intersexioni.it/sono-intersessuale-e-sto-benissimo-grazie/ . https://www.youtube.com/watch?v=cAUDKEI4QKI&t=6s; What it’s like to be Intersex . Su questo rimandiamo all’articolo della dott.a Michela Balocchi per la Guida Arcobaleno di Altra Psicologia, (ed. Paoli, Cikada, Ghisoni), Golem, Torino, Maggio 2018: Perché l’acronimo LGBT diventa sempre più lungo? E cosa comporta l’aggiunta della ‘I’? https://www.academia.edu/37070226/Perch%C3%A9_l_acronimo_LGBT_diventa_sempre_pi%C3%B9_lungo_E_cosa_comporta_l_aggiunta_della_I Share Tweet Share... Read more...Lettera da uno Stato mai nato. Rojava, 16/10/2019 II Three Faces16 Ottobre 2019Lettera da uno Stato mai nato Rojava, 16 ottobre 2019 Alla cortese attenzione delle Nazioni Unite, siamo qui a scrivervi in conseguenza ai fatti che nostro malgrado ci hanno coinvolto negli ultimi giorni, e per ricordare a voi stati membri e ai vostri 193 rappresentanti il debito contratto nei confronti del nostro popolo da cento anni a questa parte. Era il 1920, era l’anno del Trattato di Sèvres che sanciva la dissoluzione dell’Impero Ottomano e la possibilità di dare nuovamente alla nostra gente una terra. Era scritto negli articoli 62, 63 e 64 del trattato, firmato e controfirmato. Ma poi ci fu la Rivoluzione Turca e la Società delle Nazioni, i vostri padri, acconsentirono a rinegoziare quell’accordo nel Trattato di Losanna, secondo il volere del padre dei turchi, Mustafa Kemal Atatürk. E tutto svanì. Ma sarebbe ingiusto scaricare tutta la colpa di quanto successo allora e nel corso di questo secolo solo sul popolo turco. La nostra terra non è solo in Turchia. Noi eravamo e siamo in Siria, in Iraq, in Iran. La Siria è stata prima francese e poi indipendente e ha ignorato quell’accordo. L’Iraq è stato prima britannico e poi indipendente e ha ignorato quell’accordo. L’Iran è stato praticamente sempre indipendente e sempre ha ignorato quell’accordo. E così tutte le nazioni che avevano firmato quel trattato pochi anni prima si sono dimenticate che anche ai curdi spettava qualcosa. Nessuno si è presentato a noi per chiederci se volevamo essere turchi, siriani, iracheni o iraniani. Un giorno, senza neppure avvertirci, ci hanno imposto di essere turchi, siriani, iracheni o iraniani. A noi, un popolo con quattromila anni di storia alle spalle, che ha suscitato reverenza negli animi delle grandi civiltà che hanno attraversato la storia dell’umanità, perché i nostri padri erano gente saggia, gente che amava, difendeva e curava la propria terra come fosse allo stesso tempo madre e figlia, e per questo considerata gente da rispettare, gente di cui potersi fidare. Noi, così, d’un tratto, cancellati. Eppure, non ci siamo scoraggiati. A denti stretti, abbiamo accettato quelle scelte e la nostra condizione. Anche se divisi dai confini che voi avete tracciato, abbiamo continuato a coltivare e proteggere i nostri campi, i nostri monti, i nostri fiumi, il Tigri e l’Eufrate, che sono la sorgente della civiltà umana e che nascono esattamente dove nasciamo noi. E conoscendo meglio la nostra terra madre, abbiamo scoperto il perché di quei confini, il motivo per cui il nostro popolo doveva essere reso invisibile: perché siamo ricchi. L’acqua, l’oro, l’argento, il rame, il ferro, il cromo, la lignite, e il petrolio abbondano intorno e sotto a noi. Siamo ricchi, eppure non possediamo niente, perché ce l’hanno tolto, dividendoci, assimilandoci. Per questo abbiamo iniziato a pensare che meritavamo qualcosa in più, che dovevamo perlomeno far riconoscere la nostra identità, ma ogni volta che abbiamo provato ad alzare la testa, ovunque ci fosse un curdo che avesse il coraggio di far sentire la propria voce e di rivendicare i propri diritti, non abbiamo ottenuto altro che persecuzioni, manette, condanne e una pallottola in testa o una corda attorno al collo con il solo intento di ridurci al silenzio. Che avremmo dovuto fare quindi? Arrenderci al nostro destino e lasciare che ci annientassero? No. Ci siamo organizzati, abbiamo imbracciato le armi e ci siamo difesi, che fosse in Siria, Iran, Iraq o Turchia. Abbiamo reclamato la promessa da voi mai mantenuta, fosse essa uno stato o semplicemente l’autonomia. Abbiamo chiesto nient’altro che un po’ di libertà e una parte di quelle risorse che ci spettavano per diritto. Avremmo addirittura accettato di condividerle con quelle stesse nazioni che ci avevano emarginato e umiliato per decenni, perché non ritenevamo giusto che per colpa di capi di stato scellerati si dovessero impoverire popoli che nel bene e nel male erano diventati nostri connazionali, nostri fratelli. E ancora che abbiamo ottenuto da tutto questo? Di essere trattati e descritti all’opinione pubblica come terroristi. Credete forse che noi o i nostri padri andiamo fieri di essere scesi in guerra e di essere stati costretti a uccidere i nostri simili? Di aver provocato la morte di migliaia di militari e, pur non programmandola, di alcuni civili, solo perché erano turchi o iracheni? Non so se i soldati turchi o iracheni siano fieri di aver distrutto i nostri villaggi, di aver torturato e ucciso oltre 50 mila curdi, di cui la maggioranza civili, per non parlare delle centinaia di migliaia che hanno incarcerato o semplicemente “fatto sparire”. Non possiamo conoscere i loro cuori, ma conosciamo bene i nostri e possiamo dirvi che in essi non c’è orgoglio per il sangue altrui che abbiamo versato. Ma è questa la guerra, eserciti che si fronteggiano, uomini che cadono. Solo i nostri però lo meritavano a quanto pare. Solo i nostri sono stati e sono tuttora chiamati terroristi. Poi, è arrivato Daesh e improvvisamente siamo diventati il valoroso baluardo in difesa della democrazia e della libertà. Abbiamo respinto le loro offensive, siamo riusciti a riprenderci le roccaforti che avevano conquistato, a creare la Regione autonoma del Rojava per impedire a loro, i veri terroristi, di varcare quel confine turco-siriano che per mesi erano riusciti a varcare con estrema facilità per portare terrore e morte nel vostro Occidente. Non dimentichiamo il vostro appoggio in quella lotta, non dimentichiamo l’aiuto fornito dalle varie forze siriane, dalla Russia, dagli Stati Uniti e da molti altri paesi in Rojava. Ve ne siamo grati tuttora. Ma soprattutto non dimentichiamo i fratelli che individualmente hanno abbandonato le loro nazioni, in molti casi pacifiche, per venire in Kurdistan ad abbracciare i nostri valori di convivenza pacifica tra i popoli, tra i generi e con la Madre Terra, aderendo alla Carta del Contratto Sociale del Rojava. Perché la nostra rivoluzione sociale non è più una questione esclusivamente curda. Questi valorosi combattenti che tuttora, a differenza vostra e dei vostri proclami, lottano insieme a noi, questi uomini e queste donne che rischiano la vita insieme a noi sono belgi, olandesi, tedeschi, britannici, statunitensi, russi, arabi, armeni, circassi, turchi, greci e italiani. Vengono da ogni angolo del mondo e questo non potete più ignorarlo. Invece, non solo lo ignorate, ma li trattate nei vostri paesi come terroristi, li trattate come avete trattato noi per decenni, dimentichi che molti di loro sono morti per difendervi da Daesh e che a causa delle azioni di Erdoğan Daesh sta tornando. Senza quelle azioni Hevrin Khalaf, nostra sorella, sarebbe ancora viva. Per questo, egregie Nazioni Unite, è arrivato il momento per voi di smetterla di girarvi dall’altra parte, di finirla con proclami fini a sé stessi che servono solo a ripulirvi la coscienza. E’ arrivato il momento di pagare il debito che avete contratto quasi cento anni fa, di riconoscere e difendere il Rojava e i suoi ideali, gli stessi su cui la vostra organizzazione è fondata: la convivenza pacifica tra i popoli e la difesa dei diritti dell’uomo e della donna. Non basta più condannare le operazioni militari di Erdoğan a parole, perché le parole non bastano a fermarlo e lo sta dimostrando ogni giorno, ogni ora che passa. Non basta dichiarare di voler sospendere la vendita delle armi alla Turchia, perché quello che non manca all’esercito turco sono proprio le armi e i soldati turchi le stanno imbracciando in questo preciso istante e in questo preciso istante quelle armi stanno uccidendo centinaia di persone, che presto diventeranno decine di migliaia se qualcuno non dirà basta a questa carneficina. Ritirate i vostri ambasciatori. Appoggiate le forze democratiche turche e i loro esponenti che per troppo tempo sono stati ridotti al silenzio o costretti all’esilio. Siate i primi a promuovere una Turchia libera, una Turchia che possa di nuovo scegliere, perché sono tanti i turchi che credono di meritare di meglio e che ci sostengono nonostante la propaganda infame dei loro governanti. Fate capire a Recep Tayyip Erdoğan e ai suoi cani da compagnia che sono soli, perché in questo momento quelli lasciati soli a morire siamo noi. Avete già commesso questo errore in passato e avete lasciato che il mondo venisse trascinato nel caos e nella distruzione. Non permettete che accada di nuovo. Non siate complici. https://www.uikionlus.com/carta-del-contratto-sociale-del-rojava-siria/ https://www.repubblica.it/esteri/2019/10/13/news/la_lettera_delle_curde_al_mondo_a_tutte_le_donne_e_ai_popoli_del_mondo_che_amano_la_libera_-238475465/ https://www.linkiesta.it/it/article/2019/01/19/volevano-combattere-coi-curdi-si-ritrovano-schedati-come-terroristi-lo/40793/ https://tg24.sky.it/mondo/2019/10/14/hevrin-khalaf-uccisa-siria-storia.html https://www.globalist.it/intelligence/2018/09/15/combatte-con-i-curdi-del-ypg-contro-l-isis-britannico-condannato-in-turchia-2030825.html https://it.wikipedia.org/wiki/Trattato_di_S%C3%A8vres https://it.wikipedia.org/wiki/Trattato_di_Losanna_(1923) https://www.open.online/2019/10/11/siria-chi-sono-i-curdi-le-origini-e-la-storia-di-un-popolo-alla-ricerca-di-uno-stato/ https://it.wikipedia.org/wiki/Kurdistan http://www.treccani.it/enciclopedia/kurdistan_%28Enciclopedia-Italiana%29/ http://www.treccani.it/enciclopedia/curdi/ http://www.mesopotamia-ita.com/kc/KK/2_History/0_History.html http://www.mesopotamia-ita.com/kc/KK/1_P/z5_His_MgEconIt.html https://geo.tesionline.it/geo/article.jsp?id=13788 https://it.wikipedia.org/wiki/Conflitto_curdo-turco https://www.agi.it/estero/armi_turchia_export_embargo-6358020/news/2019-10-15/ «State con noi o con i jihadisti?». La comandante Ypj Dalbr Jomma Issa a Montecitorio Indovinate chi vende un sacco di armi alla Turchia? «Vogliono distruggere tutto quello che abbiamo costruito». Un appello dal Rojava sotto attacco Gli stranieri che combattono contro l’ISIS Resistenza è vita. La lunga lotta curda alle aggressioni di Erdogan (e alle pugnalate di Trump) Cronologia del conflitto curdo-turco (1920-2015) Obiettivi e contrasti del Kurdistan in Medio Oriente. Share Tweet Share... Read more...Accordi e disaccordi, un articolo di R. Cannarsa II Three Faces9 Ottobre 2019Accordi e disaccordi di Rocco Cannarsa Si consiglia di accompagnare la lettura di questa recensione con l’ascolto del brano “I’ll see you in my dreams”. Diventa meno noiosa, garantito! II o Re minore settima Sono le dieci di sera quando decido di prendere l’autobus e tornare a casa per rilassarmi sul divano guardando un film, dopo una giornataccia come quella appena passata. Vorrei vedere, se esiste, un film su Django Reinhardt, il chitarrista francese degli anni Trenta che suona quelle chitarre particolari che non ricordo mai come si chiamino. L’idea mi è venuta perché alla radio del bar in cui ero passava Minor swing, che per molti non è che la colonna sonora del romantico film Chocolat. Quindi sì, vedrò proprio un film su Django Reinhardt, e già m’immagino le riprese dei club parigini con il gipsy jazz suonato live in sottofondo, le calde luci gialle e le grandi vetrate a separare la folla da una nottata di pioggia. Appena tornato a casa accendo il computer e cerco questo benedetto film. Mi informo e leggo che ce ne sono ben due, di cui cerco lo streaming scoprendo, deluso, che il nostro amatissimo cinema pirata non ne è provvisto. Cerco e ricerco tra file cancellati, consigli indesiderati su come investire in bitcoin e donne calde insaziabili che notte per notte sembrano avvicinarsi sempre di più… Impazzisco, provo anche i link più disparati perdendoci mezz’ora ma niente. Mi accontento di un film che internet mi consiglia tra le “ricerche simili”: Accordi e disaccordi, un film di Woody Allen con Sean Penn, Samantha Morton e Uma Thurman sul famosissimo chitarrista statunitense Emmet Ray, “nella chitarra secondo solo a Django Reinhardt” stando a quanto dice la descrizione del film. E io davvero non l’ho mai sentito nominare, così, tra l’infastidito e l’incuriosito, ne avvio la visione. V o Sol maggiore settima «Era il secondo chitarrista del mondo», così inizia Accordi e disaccordi. Woody Allen e degli esperti di musica che raccontano tra dati biografici e leggende la vita del famosissimo Emmet Ray. Eterno secondo (sono passati solo pochi attimi e questo concetto martellante è già chiaro) dopo Django Reinhardt, di cui parla con una malinconia che non sembra sia proprio invidia, né il classico timore reverenziale, quanto una strana manifestazione di ammirazione sconsiderata tristemente accompagnata da una impossibilitata imitazione. Si racconta lo abbia incontrato una volta in Europa, probabilmente in Germania e sia svenuto. Un’altra volta, prima di un concerto, il manager lo beffeggiò dicendogli che tra gli spettatori c’era Reinhardt e lui, preso dal panico, scappò via, come se avesse paura di scoprire che quello che per lui era un dio, fosse mortale. «Sono considerato il miglior chitarrista che sia mai esistito. Perlomeno qui, in questo paese. C’è uno zingaro in Francia, che è la cosa più bella che abbia mai sentito». Emmet Ray è un personaggio particolare. Da Allen viene descritto come “patetico, iperbolico, volgare e nel complesso molto sgradevole”. Cleptomane, povero ma con un amore sfrenato per il lusso di cui riesce adornarsi con mezzi illegali. Pappone, anzi, “manager di prostitute” come preferisce essere definito, cerca attivamente di costruirsi una vita di miserie che lo renda quasi forzatamente un artista. Ed è proprio questo rincorrere l’ideale dell’artista da strapazzo a creare gli sketch comici («Mi faccio un tiro in New Jersey e mi ritrovo in Pennsylvania?») che rendono divertente un film che in realtà è della più triste drammaticità. Ebbe per un periodo l’ossessione per la falce di luna. Ne fece costruire una scendendo dalla quale avrebbe fatto gli ingressi sul palco, da vera star, con lo sfondo di velluto nero e l’abito intonato alla luna. Per giorni la adorò come un falso idolo, ma quando fu il momento, ebbe paura a salirci, perché l’egoismo di cui si pregna lo porta a temere la morte, forse neanche tanto per la morte in sé, quanto per la conseguente necessità di abbandonare la propria arte. Fu così che a fine concerto diede la luna alle fiamme. Perde continuamente gli ingaggi negli alberghi di lusso perché non si presenta mai, e quando lo fa è ubriaco. Non si capisce molto bene durante il film se all’epoca della storia sia già famoso oppure no, perché si vanta di essere il migliore («Ne ho visti troppi versare lacrime amare. Invece io sono una star»), e un attimo dopo sembra lagnarsi della propria condizione rincorrendo il sogno di una notorietà che non vuole proprio arrivare (fa la comparsa in una pellicola ad Hollywood sperando di essere notato, ma chiedono alla compagna, che stava guardandolo sul set, di recitare in un film). I o Do settima maggiore Una vita fatta di egocentrismo sfrenato, perfettamente in linea con ciò che nell’immaginario collettivo vuol dire essere una star e che, come artista, porta Emmet a sentirsi superiore ai fatti della vita, a poter provare dolore solo per la sua musica, perché è l’unica cosa che conta e che amerà mai, anche se, come uomo, lo annienta giorno per giorno, portandolo a un continuo isolamento, che sfoga piangendo, solo, con la chitarra tra le braccia. Molla tutte le donne che ha per la semplice paura di amare e si giustifica così: «Devo essere libero, sono un artista. Io con le donne ci sto bene, le amo. Solo che… non mi servono. Credo che succeda così quando uno è un vero artista». E se non è lui a lasciare il suo carattere lo porta a ritrovarsi solo, perché «nessun genio vale troppi mal di cuore». La continua ricerca di eguagliare ciò che nella sua mente è “l’artista”, non solo lo rende poco più di un buffone presuntuoso e detestabile agli occhi di un pubblico indispettito e irritato, ma crea il dramma della sua esistenza: divenire ciò che vorrebbe essere, dimenticando chi in realtà è veramente, alienandosi dalla realtà. Ha paura di esprimere le proprie emozioni, di rendere visibile la sofferenza delle sue scelte di vita drammatiche. Ed è proprio questo che lo renderà perennemente secondo a Django Reinhardt, perché «lui non ha paura di soffrire davanti a nessuno». E il film va avanti in divertenti peripezie, leggende, pianti, sempre con questo energico jazz di fondo, spari nelle discariche, vagoni merci che viaggiano lenti nella notte e questa sempre presente malinconica adorazione per il semidio Django Reinhardt. Variazioni sul tema Quando Accordi e disaccordi finisce cerco su internet Emmet Ray, e si evince che sia un personaggio immaginario. Lo sospettavo, per carità, ma mi sento ugualmente deluso perché avevo già fatto partire una playlist di brani su Youtube a suo nome. La cosa è snervante… cosa ho ascoltato finora? Chi ho ascoltato? Insomma informandomi bene capisco che potrebbe essere esistito, solo che non si sa chi sia, se Allen lo abbia usato solo per parlare in allegorie di Django Reinhardt, se sia un pittore, uno scultore, un poeta o un sognatore. L’unica certezza che ho su Accordi e disaccordi è che è uno specchio per ambiziosi, che non è un errore guardare se si ha dello sporco tra i denti. Fa riflettere sull’approccio degli artisti alla vita, sull’autenticità dell’esistenza, sul fatto che, in fin dei conti, le loro vite sono uguali a quelle degli altri, ma sembrano diverse perché nel proprio dramma ci vedono del poetico, perché per quanto si credano divinità non sono che esseri umani che non hanno nulla di speciale, solo tanto narcisismo e un più o meno tacito complesso autocontemplazione. Share Tweet Share... Read more...Zátopek, la Locomotiva Umana. Un articolo di Cartavelina II Three Faces2 Ottobre 2019Zátopek, la Locomotiva Umana di Cartavelina Evžen camminava accanto al padre e la sua mano scompariva completamente in quella del genitore. Era una cosa che lo rassicurava molto, quella congiunzione di polpastrelli lo faceva sentire invincibile. Il quartiere lo conosceva palmo a palmo, i volti erano una rassicurante routine. Lo vedeva come la sua maestosa fortezza, ne conosceva riti, abitudini, stranezze. Da una settimana un nuovo venuto aveva turbato la sua quotidianità. C’era un nuovo spazzino in zona. Aveva capito la professione dalla scopa che teneva nella mano destra e dal colore della tuta da lavoro. Non certo per cosa facesse, la gente del quartiere non gli faceva raccogliere i sacchetti fuori dalle porte. Li portava direttamente al suo camioncino e li lanciava dentro e poi dava una pacca sulla spalla allo spazzino stempiato. Qualcuno ci scambiava due parole, qualcun altro gli stringeva la mano in segno di gratitudine. E lo spazzino stempiato abbassava lo sguardo e gli si dipingeva sul volto un sorriso, non riusciva a capire se fosse compiacimento o se la sua mente si stesse perdendo in ricordi lontani. Abbandonati in qualche meandro del cervello, che riaffioravano come un geyser impetuoso. Sta di fatto che la curiosità lo assalì e chiese conto al padre di tutte quelle moine rivolte a quell’uomo con pochi capelli. Alla richiesta di spiegazioni ricevette indietro una laconica risposta. «È una storia lunga». Non insistette, non sarebbe servito. Rientrarono a casa per cena. Andò a letto con il pensiero dello spazzino stempiato. Quella gratitudine che vedeva nel quartiere doveva avere alle spalle qualcosa di grande, di eroico. Ma quell’uomo non aveva una prestanza da eroe, almeno per come lui l’intendeva. Si ripromise che il giorno seguente avrebbe messo alle strette il padre, era troppo curioso. Il giorno dopo, appena svegliato, il pensiero su chi fosse lo spazzino lo tormentava ancora. Scese in cucina per colazione e il padre era seduto, caffè fumante e giornale a coprirgli il volto. Evžen si arrampicò sul tavolo e con un fendente del braccio abbassò la barriera cartacea che lo separava dal padre. Lo sguardo del genitore, da prima torvo, si illuminò. Evžen intuì che quella poteva essere la volta buona per dissetare la sua curiosità. «Babbo, perchè tutti vogliono bene a quello spazzino?» Il padre prese tempo, fece scendere il figlio dal tavolo, e si voltò per riscaldargli una bella tazza di latte. Quando si voltò lo fissò dritto negli occhi e gli disse: «Ne parliamo stasera, ora fai colazione e poi vai a vestirti, c’è da andare a scuola». Evžen obbedì, frustrato. Sapeva che la giornata a scuola sarebbe stata più lenta del solito. Così fu, i secondi divennero minuti, i minuti ore. Quando suonò la campanella alle quattro e mezzo gli sembrava fosse passata una settimana. Corse, come non mai, verso casa. Nuovo record personale, il viaggio di ritorno da scuola si risolse in 4 primi e 23 secondi. Stava per varcare la soglia d’ingresso quando con la coda dell’occhio notò Erin, il vicino, che, dopo aver lanciato nel camioncino la spazzatura, ringraziava lo stempiato spazzino con un, dolcemente rassegnato: «Grazie comunque Emil, almeno ci hai provato». Ora aveva anche un nome, Emil. Non gli veniva in mente niente e nessuno. Avrebbe voluto chiedere qualcosa a Erin ma era un burbero vecchietto, lo avrebbe sicuramente brontolato per qualcosa ed entrò definitivamente in casa. Stava salendo in camera quando fu braccato dalla madre che lo tempestò con il solito quarto d’ora di interrogatorio, teso a sviscerare ogni secondo della sua giornata scolastica. Lui però ormai aveva imparato tre o quattro copioni di giornate tipo, glieli propinava con estrema disinvoltura. Liberatosi dalla morsa materna, finì di salire le scale e si chiuse in camera. Sfruttò l’attesa del ritorno del padre per fare un po’ di compiti. Non fu molto produttivo, ogni tre minuti guardava l’orologio. L’attesa si faceva snervante. Quando poi mancava mezz’ora alle venti, l’orario che avrebbe forse portato una risposta alla sua domanda, fissò, senza mai staccare lo sguardo, l’orologio alla parete. Il tempo gli sembrava essersi fermato, controllò anche che il marchingegno funzionasse davvero. Con somma delusione scoprì che i minuti, saranno tutti senza dubbio fatti da sessanta secondi, ma quella trentina che separa le diciannove e mezzo dalle venti sono più lenti. Fu ridestato dal rumore della porta di casa che si chiudeva. Si precipitò per le scale, rischiando di rompersi l’osso del collo e ogni giuntura presente nel corpo umano e si parò davanti al padre. Che lo gelò con un perentorio: «Evžen, non è il momento». Di solito quella frase bastava ed avanzava per placare ogni suo proposito. Questa volta però non si fece scoraggiare. Aspettò che il genitore entrasse in bagno, per farsi la consueta vasca ristoratrice, ed entrò a sua volta. Ce l’aveva in pugno. Ora doveva rispondere alle sue domande. Non aspettò che provasse a opporsi e gli chiese: «Chi è Emil?» L’uomo capì che non aveva scampo. Iniziò dicendogli che loro, i cecoslovacchi, non erano forti solo nell’hockey e nel calcio. Erano stati molto forti anche nell’atletica. In particolare nella corsa, ad essere ancora più specifici nel fondo e nel mezzofondo. Evžen era perplesso, non capiva cosa potesse entrarci lo sport con quello spazzino spelacchiato. Sembrava tutto tranne che un atleta. Provò a intervenire, appena però il padre vide che stava contraendo i muscoli della bocca lo guardò intensamente ed Evžen non ritenne il caso di dire niente. Riprese a parlare e gli raccontò che nella corsa si era sempre pensato che ci volesse armonia nei movimenti per rendere al meglio. Nelle distanze del mezzofondo, cinquemila e diecimila metri, solo chi era armonioso avrebbe potuto gestire al meglio la fatica ed essere anche veloce. Poi però arrivò un uomo che era in antitesi con tutto questo. Quando correva non sembrava un atleta, nella sua classicità greca, sembrava più un ladro braccato dalla polizia. I gomiti troppo stretti al corpo, la testa che ciondolava a destra e a sinistra e poi quell’improbabile smorfia di dolore e fatica stampata sul volto. Sembrava che si trovasse sulla pista per caso. Impossibilitato, non tanto a vincere, proprio a giungere al traguardo. E invece fu padrone dei diecimila metri alle Olimpiadi di Londra del 1948, dove ottenne un argento anche nei cinquemila. Rivinse a Europei e Mondiali. L’acme sportivo, l’apoteosi dell’estasi la raggiunse alle Olimpiadi di Helsinki del 1952. Giochi Olimpici a cui rischiava di non partecipare, anche se era stato designato capitano della spedizione cecoslovacca. Non lo fermava un infortunio ma la sua intransigenza morale. Si rifiutava di partire, qualora non avessero fatto andare anche un suo compagno di squadra che era stato fermato, perché il padre dissidente politico. La situazione si sbloccò e poté raggiungere i compagni in terra finlandese. Sarebbe stato un peccato, la storia dello sport ne sarebbe uscita mutilata. Perché in quell’edizione dei Giochi successe qualcosa che non si è più ripetuto e che probabilmente non si ripeterà mai più. L’atleta cecoslovacco vinse i diecimila in scioltezza, stabilendo il nuovo record olimpico. Poi fu la volta di correre i cinquemila dopo solo tre giorni. La stanchezza si fece sentire. Fino all’ultima curva era quinto, poi cambiò semplicemente marcia e chiuse primo, regalandosi anche il record olimpico sulla distanza. Il suo compito era stato assolto alla perfezione, felicità raddoppiata dalla medaglia d’oro conquistata dalla moglie Dana nel giavellotto. Avrebbe potuto rilassarsi, godersi la Finlandia e aspettare di tornare da eroe a Praga. Qualche giorno dopo però si correva la maratona, i 42 chilometri e 195 metri erano una distanza per la quale non si era mai allenato Si iscrisse lo stesso. Non avendo una propria strategia decise di seguire l’inglese Peters, primatista mondiale. La leggenda narra che al quindicesimo chilometro abbia affiancato il suddito di sua maestà e che lo abbia interrogato sull’andatura che stavano tenendo, domandando se non fosse troppo sostenuta. L’inglese, con la boria che li contraddistingue, replicò che al massimo era troppo lenta. Il cecoslovacco lo prese in parola e accelerò, fino a fare il vuoto dietro di sé. Giunse allo stadio per il giro conclusivo in solitaria. Con i soliti gomiti stretti, la testa reclinata, il volto deformato. Esteticamente non bello ma dannatamente efficace. Veniva chiamato la Locomotiva Umana. Il secondo classificato arrivò con più di due minuti di ritardo, il che permise alla Locomotiva di mettersi la tuta, baciare la moglie e mangiare una mela. Raccontò in seguito che per lo sforzo non camminò per una settimana ma disse che era stata la più bella fatica della sua vita. Anche qui si portò a casa il record olimpico. A chi lo punzecchiava sulla mancanza di stile nel correre, replicava serafico che non aveva abbastanza talento per correre e sorridere insieme. La sua ultima esperienza olimpica fu quattro anni dopo, nel ’56, dove arrivò provato da un’operazione all’ernia, corse la maratona e concluse sesto. In patria sarà sempre venerato come un eroe. Evžen continuava a non capire il collegamento con lo spelacchiato spazzino ma la storia lo stava prendendo e ascoltava rapito. Il padre continuò raccontandogli di quando il popolo cecoslovacco provò con un documento di duemila parole a dare un volto umano alla visione sovietica della società. Tra i firmatari c’erano la Locomotiva e la moglie giavellottista, Dana. Quando il socialismo dal volto umano fu piegato alle ragioni di stato la cosa non gli fu perdonata. Fu mandato a lavorare in una miniera al confine con la Germania, cercarono di cancellarlo, di eliminarne il ricordo ma il popolo cecoslovacco e soprattutto la sua amata Praga non dimenticarono. Non dimenticarono la Locomotiva che in pista tirava dritto, senza pietà per nessuno, ma quando dovette scegliere da che parte stare si espose, da uomo, senza fuggire. Evžen si perse, non ascoltava più il genitore, e si concentrò sui numeri della storia. Lo stupiva il fatto che un uomo che non era stato fermato dai 5000, dai 10000 e nemmeno dai 42195 metri della maratona era stato fermato per aver messo il suo nome sotto duemila parole. Ma quello era il mondo dei grandi, per lui spesso indecifrabile. Si ridestò quando sentì la mano bagnata del padre che lo scuoteva. «Hai capito Evžen perché nessuno vuole che lo spazzino spelacchiato raccolga la loro spazzatura, hai capito le pacche sulle spalle e le strette di mano? La Locomotiva Umana, si chiama Emil, Emil Zátopek. Gli fanno fare il netturbino, sperando di umiliarlo per aver preso posizione ma la gratitudine di un popolo non può essere buttata, non esiste la raccolta differenziata per quella. Devi guadagnartela». Evžen si dispiacque per aver chiamato Emil Zátopek “lo spazzino spelacchiato”. Per fortuna non aveva fatto domande al vicino, lo scorbutico Erin. Andò a letto. Il giorno dopo mentre andava a scuola vide Emil che come sempre girava per il quartiere senza poter realmente lavorare, perché i suoi concittadini glielo impedivano. Si divincolò dalla mano della madre e corse verso di lui, i gomiti volutamente stretti, appena lo raggiunse gli tirò la giacca. Quando il vecchio campione si voltò, lui lo guardò dal basso verso l’alto. Sfoderò il suo migliore sorriso e mimando con il braccio il verso del macchinista di un treno urlò: «Ciuf, Ciuf!» “Se desideri vincere qualcosa puoi correre i cento metri. Se vuoi goderti una vera esperienza, corri una maratona” Emil Zatopek Cartavelina, 9 luglio 2019. Share Tweet Share... Read more...Al concerto degli OM, un articolo di G. Bindi II Three Faces25 Settembre 2019Al concerto degli OM Congetture sulla divina salvezza e sulla grazia (al cazzo) di Gianluca Bindi Non lo so, la serata era partita tranquilla quel 7 agosto a Livorno. Il fritto alla baracchina di Johnny Paranza, le bottiglie di vino in compagnia dei miei due amici e poi la passeggiata per raggiungere la Fortezza Vecchia, sede del concerto. Non avrei mai pensato che il tutto potesse trasformarsi in questo articolo, ma bisogna essere sempre pronti ad accettare qualsiasi destino avverso possa capitarci. Che poi altro non è se non la disposizione mentale che ogni religione immette nel credente: accettare la merda quotidiana, sforzandosi di farla rientrare in un molto complesso piano divino. Per chi non li conoscesse, gli OM sono un gruppo californiano che si diverte a mischiare più generi: stoner, doom metal e sonorità avanguardistiche date dai violoncelli, violini, flauti e tabla indiane. Sono nati dalla costola (è proprio il caso di dirlo) degli Sleep, band underground di buon successo. Da qui sono partiti: dalla terra, dallo sporco delle chitarre sudicie e indolenti, per poi costruirci sopra testi e poetiche biblio-cristiane. Ed è proprio questa capacità di arrivare subito al punto, spostare l’attività cerebrale al livello del sublime con suoni ipnotici e profondi che ha fatto balzare questo gruppo nelle mie posizioni di testa degli ultimi due anni. E quando ho scoperto che per il loro tour europeo passavano per un concerto anche sotto casa mia (per modo di dire) non potevo far finta di niente. Come non ho potuto far finta di niente sulla complessità del messaggio che irradiano. Solo analizzando un attimo più a fondo il loro ultimo album uscito nel 2012, soprattutto i testi, mi sono accorto che il viaggio spirituale in cui ti accompagnano non si ferma soltanto alla Buona Novella ma si spinge oltre, abbracciando tutto il pantheon (s)conosciuto da gente moderna infedele come noi. Sulla copertina c’è una raffigurazione d’arte bizantina di Abramo; e subito ti esponi: «Ah ok ho capito, l’universo di riferimento è la Bibbia», dici a tutti vantandoti e facendo il fenomeno. Poi basta leggere il titolo Advaitic songs che già non torna più un cazzo perché l’aggettivo delle canzoni in questione si riferisce alla tradizione spirituale indiana in cui Dio e il Mondo da lui creato non sono considerati due realtà separate. Se poi ci mettiamo anche la prima traccia, allora le idee si fanno ancora più confuse. Infatti non è altro che un mantra, non uno a caso, ma il più importante nell’induismo. È dedicato a Shiva (una delle principali divinità indiane) e a un certo punto presenta il passo mṛtyor mukṣīya che significa: “Che io possa essere liberato dalla morte”. Qua la morte è intesa sia in senso fisico sia come liberazione dall’eterno ciclo delle reincarnazioni e, non so a voi, ma me ricorda qualcosa. Nulla? Allora vi rinfresco la memoria: «Io sono la resurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se muore, vivrà; anzi chi vive e crede in me non morirà mai». Le parole sono del Vangelo di Giovanni e, secondo me, rappresentano il fulcro di ogni religione che si rispetti: esorcizzare paure collettive, come la morte, tramite il mito e il messaggio profetico. Anche se nell’induismo e nel cristianesimo la morte (e soprattutto ciò che ci attende dopo) è intesa in maniera molto diversa, il risultato è uno solo: in misure e in modi diversi sia Shiva che Gesù l’hanno sconfitta. Ricordo che la Fortezza Vecchia si è tinta di blu. Il clima è sovraccarico e la barbona di Al Cisneros svetta strimpellando il suo minaccioso basso. I miei amici si sono già defilati, non si aspettavano di essere investiti da una musica così impegnativa. O semplicemente gli fa cagare il concerto, cosa più che legittima. Eppure io mi trovo sempre lì sulla mia mattonella, assorto, cercando di capire dove minchia vogliano arrivare con questa specie di seduta spiritica di gruppo, chiamata concerto. Gethsemane sta cominciando a fare il suo lento corso di dieci minuti e io continuo a balneare fra gli interrogativi: se il Getsemani è il giardino dove è stato arrestato Gesù, uno dei passi emotivamente più toccanti del Vangelo, di quei pochi in cui Gesù dimostra di essere un vulnerabile uomo fatto di carne e non una macchina piena di Spirito Santo mandata da Dio per dire a tutta l’umanità di non masturbarsi, se è tutto questo, perché nel testo si parla di prana e di misticismo ebraico derivato dalle visioni di Ezechiele? Non lo so, mi sembra di essere troppo stupido per poterlo sapere. Ma poi arriva l’assolo di basso. Quell’assolo di basso. D’un tratto, tutto il mio farneticare si quieta e svanisce. Le note si arrovellano, si snocciolano, si susseguono. Vengo assalito finalmente da un pensiero chiaro, dato da quelle ondulazioni di corde perfettamente distanziate fra di loro. Penso a quanto sia tutto vano, quanto sia impossibile conoscere Dio e raggiungerlo tramite il pensiero. A quanto siamo spacciati come genere umano, alla fine imminente del mondo che mi fa chiedere se era proprio necessario ritornare agli studi per due anni e laurearmi, consapevole di quanto la morte abbia suggestionato anche me ormai. Poi un’illuminazione: la meta è la solita, solo le vie sono molteplici. E allora ho pensato che se tutte le religioni potessero liberarsi dalle loro catene storiche e culturali, capirebbero che esiste una sola religione, e cioè quella umana: un lungo, lunghissimo percorso interiore per salvarci da noi stessi (sia come singoli che come razza). E se l’estinzione di massa fosse stata una premonizione allegorica scritta nell’Apocalisse? E se il famoso inizio del Vangelo di Giovanni (“In principio era il Logos”) non fosse altro che un mito che raccontava il Big Bang? Se l’esplosione primordiale avesse sparpagliato non solo materia ma anche Intelletto/Logos/Verbum o come minchia lo volete chiamare? Forse ricerchiamo Dio non perché abbiamo paura della morte ma perché noi stessi, le nostre coscienze, sono pezzi di Dio incastonati in pezzi di carne, destinati a non ritornare mai in forma completa all’origine di tutto. Forse abbiamo così paura della morte perché ci manca il quadro completo. Forse, per citare Bill Hicks (i cui pezzi dovrebbero avere un loro posto nella Bibbia se il Cristianesimo fosse una religione seria), la morte non esiste nemmeno: “Today a young man on acid realized that all matter is merely energy condensed to a slow vibration, that we are all one consciousness experiencing itself subjectively, there’s no such thing as death, life is only a dream and we are the imagination of ourselves”. Mi risveglio dalle mie pippe mentali quando il concerto volge al termine. La Fortezza Vecchia si svuota. I miei amici si palesano dal nulla, facendomi capire che è l’ora di riprendere in mano l’ubriacatura di prima lasciata a mezzo. Dico a loro che mi dispiace che il concerto non gli fosse piaciuto. Loro dicono che erano contenti invece che a me fosse piaciuto. Per sdrammatizzare concludo la parentesi religiosa con una cazzata: «Ma lo sapete che il Cristianesimo ha sfruttato, con opportunismo e congiunzioni astrali favorevoli, sia l’ebraismo che la filosofia greca, soprattutto quella platonica?» «Ehmbè?» «No niente, è buffo pensare che quando tiriamo le bestemmie è come se dicessimo Idea del Bene maiale! o qualsiasi altro epiteto, mi fa ridere…» Share Tweet Share... Read more...Chiara-Francia 0-1, un articolo di C. Piccinni II Three Faces18 Settembre 2019Chiara-Francia 0-1 di Chiara Piccinni Bella la Francia. Veramente bella. Soprattutto usciti da Parigi, perdersi in quel dedalo di foreste, piane pettinate a vigne ancora basse, paesini qua e là che non possono che riportarti indietro nel tempo, quando ancora cercavi di raggiungere quel punto di evoluzione a Age of Empire (e qua iniziamo a fare selezione generazionale). E cosa dire del florilegio di pale eoliche ben miscelate ai morbidi paesaggi, come a dire: siamo coscienziosi ed esteticamente carucci, che ci vuoi fare? Chiese in pietra che rasentano il cielo, Notre-Dame è bruciata ma è ancora un gran bel vedere, le facce sorridono e le rose, rosano. Aspetta, aspetta. Sì, bene, tutto bellissimo. Lo sentite che sta montando un “ma però” grosso come una casa? Le annusate queste due gocce di Fastidio N° 5? Ecco. Parto alle 3 di notte da Villa Costanza, ultimo baluardo del cavallo verde alato detto Flixbus, con solo tre ore di ritardo. Cominciamo bene. Arrivati alla frontiera con la Francia, ci schiacciamo una buona ora e mezza alla fine della quale “rimandano a casa loro” quattro poveracci che, come unico reato, hanno passato una linea immaginaria disegnata sul suolo terrestre senza i dovuti permessi. Riprendiamo il viaggio e arriviamo, ormai con quattro ore e fischia di ritardo – in totale quasi diciannove ore di viaggio – a Parigi. I sobborghi sono, come quasi tutti i sobborghi, un’accozzaglia di alveari grigi. A far da cornice, un cielo altrettanto grigio e una discreta puzza. Scendo al capolinea, Bercy Seine, una grande galleria straboccante smog riadibita a deposito per autobus. Scendo, mi sgranchisco le gambe e maledico il momento in cui dovrò riprenderlo per tornare indietro. Ridisegno rapidamente la riga del culo, tristemente scomparsa dopo tante ore seduta, e saluto la dolce vecchina, unico punto positivo del viaggio, con cui ho pianto nelle precedenti due ore per vecchie storie di vita vissuta e di dolori condivisi. Arrivo alla metro, mi rendo conto che nessuno parla inglese e proseguo il più in fretta possibile fino alla stazione dei treni. Lì, dopo varie indicazioni sbagliatissime, riesco ad arrivare in biglietteria e mi dicono che, per la mia destinazione, i treni per la notte son finiti e che, in poche ore, avrebbero chiuso la stazione. Sono sola, non parlo la lingua, sono senza contatti né un telefono funzionante, con pochi soldi e una Parigi incazzata e piovosa ad aspettarmi. Seguono due ore di disperazione catatonica. La stanchezza accentua i sintomi e singhiozzando vengo rifiutata dalle tre persone a cui chiedo se posso fare una telefonata. Tra un pianto e l’altro adocchio un pezzo di cantiere interno alla stazione dove posso nascondermi per dormire. M’immagino già a sfuggire dalla luce della sicurezza e addormentarmi tra i calcinacci. Fattibile, penso. Mi passa davanti un ragazzo, pantaloni larghi, petto nudo e un Ohm tatuato sulla base del collo. Un neo hippie come dio comanda. Un barlume di speranza, cazzo! Magari anche lui è in Francia per il festival che devo raggiungere. Vedo che si ferma davanti a un alimentari dentro la stazione, ormai a pochi minuti dalla chiusura. Mi avvicino, gli parlo in un inglese spagnolizzato con cui, più o meno, riusciamo a capirci. Viene fuori che stava provando a rubare qualcosa nel negozio e che le tipe l’avevano beccato cacciandolo in malo modo e poi, rivedendolo passare, l’avevano fermato per dirgli che non volevano fargli una partaccia, ma che era tutto video sorvegliato e che potevano regalargli tutto quello che era avanzato del giorno a chiusura. Mi dice anche che non sta andando al festival, ma gira per la Francia in bici in direzione Spagna con un suo amico e il suo cane, un pastore tedesco vecchio e assolutamente poco educato. Dice che conosce un buon posto dove dormire e, vedendomi abbastanza distrutta, mi chiede se voglio andare a dormire con loro in questo posto che chiama “parking”. Lo ammetto, non ho pensato in un primo momento che fosse un vero parcheggio. Poi, riflettendo, ho fatto mente locale sul fatto che avessi deciso coscientemente di dormire in mezzo ai calcinacci fino a pochi minuti prima. Quindi, tutto sommato, fottesega. Fatto sta che prendiamo la metro, con le due bici e il cane, scavalchiamo le entrate per non pagare, facciamo un abbondante mezz’ora di mezzi e l’ultimo pezzo in bici, reggendomi a tentoni sul retro del motomezzo del tipo, con lo zaino e tutto. Arriviamo alle scale di un controviale in uno stradone alberato. Scendiamo le scale, la luce fibrilla e il pavimento è bagnato. Ci troviamo nel cuore di un parcheggio sotterraneo a più piani, enorme. Scendiamo di due piani attraverso delle rampe, e a ogni livello che bruciamo l’aria si fa più rarefatta e odora di frizione e gomme. Entriamo nel vano scala. Ormai è notte fonda e non vola una mosca. Con dei pezzi di moquette tirati in un angolo ci facciamo una base, arrediamo il sopra con coperte, loro, e sacco a pelo, mio. L’amico del nuovo amico non parla né inglese né spagnolo, ma canta molto bene. Ci dobbiamo svegliare, per comunione d’intenti, alle 5, ovvero tra sole tre ore. Propongono di fumare fino all’alba e non dormire, io li ringrazio amabilmente, m’imbozzolo nel sacco a pelo e perdo conoscenza in più o meno sette, forse otto secondi. Suona la sveglia, maledico tutto ciò che conosco. I due mi sono accanto, svegli, fatti come fegatelli. Decidiamo di tornare alla stazione in bici, scelta scomodissima, ma più rapida dei tempi di attesa della metro a quell’ora. Arriviamo, tremendamente trafelati, corro verso la biglietteria e mi dicono che il treno delle 6.00 è stato cancellato. Pensando di essere in un bastardissimo episodio di Scherzi a parte, mi dicono che il prossimo è a mezzogiorno. Passo le seguenti sei ore in dormiveglia, accasciata sopra il mio zaino in vari punti del terminal, inopportunamente intervallati da quei bastardi della sicurezza neanche fossero della buoncostume. Salgo a mezzogiorno e mezzo sul treno per Thoures. Ritarda. Devo cambiare treno in meno di dieci minuti, che diventano uno per via del ritardo. Corro, salgo a malapena sulla carrozza del secondo treno e parte dopo pochi secondi. Le occhiaie mi toccano terra. Arrivo nel più piccolo e sperduto paesino francese e incontro due ragazze che avevano la mia stessa destinazione. Non parlano né inglese né spagnolo, ma comunichiamo a gesti, come nella migliore tradizione contadina. Mi fanno capire che l’ultimo bus da prendere per arrivare al festival (ah, non l’avevo ancora detto, sono in Francia perché sto andando a un festival dove sto per incontrare un paio di ragazzi de El Juego) parte tra due ore. L’ultimo sforzo. L’ultima attesa. Con più di due giorni di viaggio alle spalle, troppe sveglie e troppi accasciamenti casuali, arrivo nel paesello, dove ci sono più di venti minuti a piedi da fare per arrivare all’entrata effettiva. Do il mio nome, controllano la lista. Mi fanno entrare. Incontro Audrey, l’abbraccio. Mollo quella casa che chiamo zaino, camminiamo verso il tendone dove sta Marius e abbraccio anche lui. Mi fanno un Rapè di benvenuto, smoccico, mi accascio, collasso. Finalmente riposo. Seguono sei giorni tra festival, workshop, molti contatti, ottimo cibo, altri spostamenti, cerimonie di offerte alla terra, foreste bellissime. Arriva il momento del ritorno. Saluto tutti alla fermata della metro, un po’ di pianti, tanti abbracci, la promessa di vederci presto. Giro l’angolo, cammino per un viale alberato, seguo le indicazioni per il terminal del Flixbus da cui tutto era partito. Parto alle una e mezza di pomeriggio. Ho davanti due ore di attesa che sfrutto per riorganizzare lo zaino circa sei volte, mangiarmi un’insalata e pulire il marsupio dalle ingenti dosi di mozziconi collezionati durante gli ultimi giorni. Arriva il bus e lo guardo assottigliando gli occhi, come si fa come con un vecchio nemico. Io ti odio, tu mi odi, ma facciamo funzionare questa cosa e portami a casa, stronzo. Partiamo in orario, cosa che mi dà un leggero senso di eccitamento inaspettato. Mi lascio la Francia alle spalle, continuiamo fino a Ginevra dove facciamo un piccolo stop per smollare un paio dei cristiani stipati sul mezzo. Arrivati al traforo del Monte Bianco ci fermiamo, ci sarà da aspettare per via di un bus spaccato in mezzo al tunnel. Vi dirò che l’imprevisto lo stavo aspettando, stava andando tutto troppo bene. Scendono dal bus dieci scout-girl e cominciano a strimpellare canzoni acutissime senza sosta, tanto che mi meraviglio non abbiano acceso un fuocherello e organizzato una cazzo di gara di nodi per trovarsi a loro agio. Io sento la voglia di vivere che si accascia a ogni accordo quando, dal lato destro del pullman, inizio a sentire dei muggiti disperati da un camion di trasporto bestiame vivo. L’accoppiata dei due suoni insieme mi spinge ad allontanarmi verso la macchinetta del caffè nel casottino vicino al blocco. Siamo a metà viaggio, ce la puoi fare. Accumuliamo quattro ore di ritardo tra l’attesa e i vari stop. Tocchiamo Firenze alle 9 di mattina, invece che alle 5. Scivolo fuori dal bus e lo guardo in cagnesco, allontanandomi con le gambe molli. Mi infilo in tramvia, mi lancio su un autobus, salgo i gradini di casa. Comunque, non c’è nessuna conclusione o morale della storia. C’è solo la gran voglia di condividere il tragicomico viaggio di una viaggiatrice qualunque. Share Tweet Share... Read more...11 settembre: Generation Gap, un articolo di B. Bendinelli e A. Polverosi II Three Faces11 Settembre 201911 settembre: Generation Gap di Benedetta Bendinelli e Andrea Polverosi Innanzitutto, auguri. A tutti noi. In verità, sono auguri un po’ grotteschi perché oggi la nostra epoca, il mondo come lo conosciamo è maggiorenne. 18 anni fa, l’11 settembre 2001, esattamente alle 14.46 ora italiana, il volo AA 11 diretto da Boston a Los Angeles si schianta contro la Torre Nord del World Trade Center di New York. Alle 15.03 vediamo tutti, ma proprio tutti il volo UA 145 esplodere dentro la Torre Sud e tutti sappiamo esattamente dove eravamo e cosa stavamo facendo quando abbiamo visto o sentito quello che stava accadendo. Banale sì, ma sono proprio questi i due elementi che rendono un evento “epocale”: passano gli anni, ma il tempo e lo spazio di quel momento sembra essere rimasto cristallizzato per chi l’ha vissuto; il momento in cui la parola “Terrore” tramutava il suo significato in qualcosa di globale, quotidiano e costantemente imminente e non come un evento eccezionale, fuori dell’ordinario. Per questo, l’11 settembre 2001 è una data “storica” nel senso più pregnante del termine, perché da allora la Storia si divide tra ciò che il mondo era prima e ciò che è diventato dopo l’11 settembre. Noi abbiamo deciso di dare il nostro contributo, facendo un esperimento. Abbiamo messo a confronto due generazioni. Quella di chi all’epoca era adolescente e più o meno consapevole di quanto stava accadendo, rappresentata dal pezzo Caduti in basso di Benedetta Bendinelli. E quella di chi, poco più che bambino, vedeva le immagini e le facce preoccupate o addirittura spaventate dei grandi, senza capire perché tanto sconcerto di fronte all’ennesimo film di Steven Seagal, salvo poi capire che l’Inespressivo di Lansing non centrava nulla, che quella era la realtà e non trash hollywoodiano, anche se poi i complottisti ci hanno provato in tutti i modi a ridurlo come tale. Di questa seconda schiera ci renderà conto Andrea Polverosi con Cartoni animati e complottismi. Buona lettura! Caduti in basso Le Twin Towers sono due di quei giochi da urlo installati al parco di Mirabilandia, costruite con due originali torri da estrazione petrolifera che s’innalzano per sessanta metri d’altezza; una ti fa schizzare in alto e l’altra ti sputa a terra a una velocità di circa ottanta chilometri orari. Mia madre vomitava al solo pensiero, mio padre mi ha accompagnata qualche volta ma poi sono sempre salita da sola, su quelle poltroncine di pelle nera che si appiccicavano alle cosce sudate di caldo e di paura. La mia preferita era la numero due, la cosiddetta turbo drop. Una volta arrivati fino all’estremità della torre ci vogliono circa otto secondi prima di cadere a peso morto verso il basso. In quegli otto secondi godevo sul serio, mi tremavano le gambe sempre troppo magre e mi tremavano anche le budella. Godevo perché tremavo, e tremavo perché godevo. Contavo alla rovescia – tra i denti, tra le mani – e sussurravo le mie prime bestemmie. Finiva tutto nel giro di poco, anche le vibrazioni intestinali duravano uno schiocco di dita. Ma l’adrenalina mi restava dentro, era un misto tra uno stimolo urinario e un orgasmo acerbo. E così facevo ancora la serpentina negli orari dei pasti, per poi chiedermi: mentre si cade dall’alto, consapevoli di cadere molto in basso, cosa si prova? Lo volevo sapere e lo volevo sentire, per questo mi piacevano le Twin Towers, sopratutto la turbo drop, ed erano le uniche torri gemelle che conoscessi. Nel settembre del 2001 avevo da fare. C’erano il cambio d’istituto, l’esame d’ammissione, la verginità agli sgoccioli, le sigarette da nascondere e le pausiniane inquietudini di vivere. Tutto quello che mi gravitava intorno era come un soffio d’aria autunnale in mezzo a una tormenta d’inverno siberiano. L’egocentrismo di un adolescente è in grado di sotterrare qualsiasi altra forma di accennato solipsismo ma è così che si tira a campare in quella fase, con i lamenti e i sogghigni. Quando la zia, che aveva lo studio sotto casa, mi chiamò all’improvviso al telefono per dirmi di accendere la tivù, stavo ripassando i quattro stadi dello sviluppo cognitivo secondo Piaget. Studiavo, mi lamentavo, studiavo e mi lamentavo. La mattina di quel settembre si lamentarono un po’ tutti, con urli e pianti a reti unificate. Qualcuno diceva che il mondo stava finendo, altri che la Terza Guerra Mondiale era ormai fuori casa. Non capivo, non capivo nulla. Le persone in televisione si tappavano la bocca con le mani, come a trattenere un conato. Il telegiornale della Rai passava le immagini in diretta di una metropoli dilaniata nelle fondamenta, con il cielo in fiamme e le strade intossicate. La reazione pavloviana a certi tragici accadimenti sono le famose mani nei capelli, e invece tutti si coprivano la faccia per non guardare. In quegli anni non eravamo abituati al sensazionalismo da scrollare e la reazione più comune alla morte in diretta era ancora la negazione visiva: non voglio vedere, mi fa impressione, cambia canale. Non so dire cosa fosse, paura o eccitazione, curiosità o perversione, ma volevo vedere anch’io. Volevo vedere tutto. La guerra del Golfo aveva spaventato la mia generazione facendoci credere che i nostri padri sarebbero partiti con i fucili in braccio. Verso la fine degli anni Novanta, dentro le case italiane, strisciava ancora il fantasma di Chernobyl e della guerra jugoslava. Da poco si era cominciato a parlare del conflitto iracheno e l’America continuava a essere il sogno dorato, ma niente di tutto questo sembrava davvero vicino, e nessuno aveva davvero paura. Lo pensavo a sedici anni e lo penso ancora oggi: i grandi cambiamenti storici alimentano il progresso e giustificano il regresso. Il progresso, inteso come miglioramento trasversale della qualità della vita e della conoscenza giustamente applicata, è difficile da riconoscere e da percepire concretamente nel quotidiano. Le svolte miracolose di una società passano quasi inosservate sopra noi comuni e insicuri mortali, predisposti per nostra natura alla distruzione collettiva e individuale. Il regresso invece, individuale o sociale, quello sì che salta all’occhio e ci fa riposare sugli allori. Per dirla in parole povere: migliorare ci stanca, peggiorare ci rilassa. Da un certo momento in poi della mia vita ho iniziato a fare caso al regresso dell’umanità, a quello che mi pareva un viaggio a occhi chiusi nel senso opposto di marcia di una positiva svolta sociale. Come Giambattista Vico (ma molto più rozzamente) rifiutavo ogni speranza di evoluzione concreta che potesse terminare con una stabilità universale e positiva. La decadenza, per quanto me ne intendessi all’epoca, era un naturale e inevitabile tappa del percorso circolare storico, una giustificazione alla catastrofe. Tutto scorre – panta rei – e scorrono via anche i morti per strada e quelli intrappolati in un aereo. Non avevo veramente paura e così la parola terrorismo, ormai sulla bocca di tutti, mi pareva l’iperbole di una realtà distante. Le torri crollavano e si parlava di crollo di una civiltà, si parlava della fine di un’era, si pensava già alla fine ma questa volta sembrava seria, e non come quella sceneggiata del millennium bug. Non avevo paura, le macerie fumanti sotto le ali spezzate dei Boeing 767 non mi spaventavano ma qualcosa era cambiato, me ne rendo conto adesso. Dentro e fuori casa mia qualcosa si era spento, che fosse speranza o lungimiranza, nella mia testa di adolescente fresca di filosofia e world wide web qualcosa si era interrotto all’improvviso. Pensavo al mio passaporto che probabilmente non avrei più utilizzato. Pensavo agli alieni, che forse sarebbero arrivati davvero a colonizzare la terra. Pensavo alle guerre fredde, al crollo monetario, alla povertà e alla carestia, alle prese di potere, a Saddam Husayn, alle bombe nucleari e infine pensavo all’apocalisse. Una veloce e violenta apocalisse. Nel febbraio dello stesso anno Erika e Omar, allora sedicenni come me, avevano brutalmente assassinato la madre e il fratello di lei, in un paesino piemontese che poteva essere la mia candida provincia. L’apocalisse, per me, era già cominciata con quella vicenda che mi aveva scossa ancora di più del crollo delle torri gemelle e degli altri attentati che vi seguirono. L’apocalisse domestica e il terrorismo familiare erano assai più sconcertanti di quello che stava accadendo globalmente. Per una sedicenne di provincia la globalità era un concetto grezzo, ancora da conoscere ed elaborare. Non la conoscevo la globalità eppure mai avevo visto un simile scenario: l’America con le spalle al muro, il dollaro a piangere miseria e la cristianità sul crocefisso. Non lo conoscevo ancora il senso della collettività, non gli davo peso perché a sedici anni si pensa solo a se stessi e l’unica cosa che veramente mi faceva paura, guardando le due torri che bruciavano, era il volo a testa in giù di un uomo in camicia e cravatta. Ci pensavo a sedici anni e ci penso ancora oggi: a che punto siamo del cerchio storico? Il peggio è passato oppure dobbiamo ancora incontrarlo? Mentre si cade dall’alto, consapevoli di cadere molto in basso, cosa si prova? Cartoni animati e complottismi La seconda cosa che mi viene in mente quando penso all’11 settembre è ciò che stavo facendo quel giorno. Ricordo condiviso della mia generazione (1993 e vicini), quel pomeriggio stavo guardando i cartoni animati, ovviamente sulla Madre Superiora del trash, Italia Uno. Non mi ricordo precisamente quale opera nipponica stessi vedendo, ma mi piace pensare che stavo palpitando di fronte a un episodio di Dragonball Z. Tutto andava benissimo, letterina d’amore fatta, il cane del vicino non aveva bucato il pallone e Goku, come al solito, stava gonfiando di botte il coglione di turno. Poi, mentre mi preparavo assieme a lui a tirare una kamehameha su una merdaccia di nemico, la Fine. Tutto si fece buio. Arrivò l’edizione straordinaria di Studio Aperto. Già questo dava un’idea della gravità di quello che era successo, eppure non bastava. Preso dallo scoramento e con ancora in canna la mia onda energetica, presi a girare confusamente canale su canale provando tutte le combinazioni di tasti che l’aritmetica mi permetteva. Allora Mentana non riempiva il vuoto delle nostre esistenze con le sue #maratone, ma il mondo giornalistico gli stava preparando il terreno. Su tutti i canali, c’erano edizioni straordinarie di Tg con conduttori devastati che mandavano in onda le stesse immagini: due torri, due aerei. Fumo, fuoco, panico. Il ricordo finisce qui. Probabilmente spensi la televisione e andai, tutto scocciato, a giocare da qualche parte. Non afferrai molto di quello che era successo. Più avanti ci tornai sopra. L’11 settembre non è stato l’evento che ha segnato la mia generazione. Credo che quel posto sia stato occupato dalla crisi bancaria del 2008. E’ con quel mostro che le nostre teste sono cresciute. L’11 settembre, però, tornava ogni anno e al liceo riuscivamo finalmente a cogliere la gravità dell’evento e a percepirne la complessità. Ricordo che mentre discutevamo, come un ritornello usciva fuori un nome: Zeitgeist. Zeitgeist è un documentario di circa due ore su vari argomenti. Potete trovarlo ancora su Youtube. Il video si apre con un’estetica discutibile data da un susseguirsi frenetico di immagini di esplosioni, vedute spaziali della Terra, schizzi di scimmie che si alzano in piedi spelandosi, il tutto coperto da una musica roboante col solo scopo di creare ansia e incollare l’attenzione dello spettatore. Fra le varie questioni su cui pretende di svelarci la verità, c’è l’attentato alle Torri Gemelle. Per circa 30-40 minuti viene presentata tutta una serie di argomenti per sostenere l’idea che l’11 settembre sia stato un autoattentato deliberatamente orchestrato, probabilmente per fini economici, da membri dell’establishment americano. In generale non sono un complottista, ma ricordo abbastanza bene le sensazioni che mi dava vedere quel video e venire a conoscenza delle tesi che proponeva. Chiunque consigliasse di vedere Zeitgeist era come acceso da una luce in più, da un fuoco che divampava dentro. Era la sensazione di aver scoperto qualcosa di oltre, qualcosa che gli altri non sanno e che i grandi del pianeta non vogliono farci sapere. Era un andare più a fondo alla realtà, scoprire ciò che si cela dietro alle false informazioni di tutti i giorni. Trovare un senso ulteriore. Come ho detto, non sono un complottista e ritengo che alla base di tali teorie spesso ci siano solo dei meccanismi cognitivi facili, poveri, noiosi e inutili. Però, ricordo bene la sensazione che mi diede Zeitgeist. Facendo un po’ di ricerche si scopre che sull’11 settembre è stato detto di tutto, come se, escludendo il Protocollo dei Savi di Sion, fosse la Madre di ogni complotto. Ma cercando meglio e riflettendo un minuto in più su ciò che si legge, ci si rende conto che, fra luci e ombre, tante delle tesi sull’attentato alle Torri Gemelle sono state smentite in modo definitivo. Eppure, quella sensazione di svelamento si appoggiava su un terreno di verità. Qualcosa che ricordo un po’ meglio della mia infanzia infatti è la guerra in Iraq del 2003. Allora avevo 10 anni e immagini di elicotteri e notizie giornalistiche sentite di straforo volavano nella mia mente. C’era una guerra. Eravamo in Guerra. La Guerra dell’Occidente, buono, puro, sano, limpido contro qualcosa di diverso, oscuro, alieno, straniero, nero. Il mondo della libertà, della giustizia e della democrazia contro un dittatore che faceva del male alle persone e che aiutava coloro che avevano distrutto le Torri e che ancora volevano farci del male. Ma noi non viviamo in un cartone animato e la sensazione di svelamento affondava le radici proprio su questa narrazione infantile e semplicistica, che non era solo quella di un bambino ma era più o meno la versione ufficiale che le nostre autorità volevano propugnarci allora e che tuttora cercano di venderci. Sebbene siano false, solitamente assurde e ingenue, tante teorie complottiste si fondano su una verità più generale, ossia sul fatto che l’Occidente non è di per sé buono. Solo con gli occhi chiusi, si può ancora vedere la trama di fili e nodi che compongono quella narrazione. E tutte le discussioni sull’11 settembre e ciò che ne è seguito, anche il complottismo, hanno aiutato delle teste acerbe a mettere un primo piede nella realtà. La prima cosa che mi viene in mente quando penso all’11 settembre, invece, è la tremenda razionalità di un’ombra che si lascia cadere nel vuoto per salvarsi dalla morte. Share Tweet Share... Read more...Riflessioni Post Copula (Mundi) & intervista || THREEvial Pursuit4 Settembre 2019 Riflessioni Post Copula (Mundi) …e intervista ad Antonio Bagni di Simone Piccinni e Niccolò D’Innocenti No, quelle che stai per leggere non sono le riflessioni di un tizio durante la sigaretta post-amplesso, anche se le endorfine di chi vi scrive sono su un livello analogo. Il Copula Mundi 2019 è andato in archivio da appena due giorni e sto ancora cercando di riabituarmi alla realtà, oscillando tra ricordi ancora vividi che portano in dote sorrisi misti a punte di malinconia e lo scontro con la dura realtà seguente fatta di lavoro e menate. Quello che è andato in scena tra giovedì 29 agosto e domenica 1 settembre al Parco delle Cascine è stato ben più di un festival: è stata la realizzazione di un immaginario utopico. Sarebbe un peccato ridurre il tutto ad un semplice evento ludico, una serata musicale o un insieme di mostre e talk. O all’occasione per passare quattro giorni in un parco a cazzeggiare con gli amici. Copula Mundi è molto di più: è composto da idee, da concetti. È il superamento di pregiudizi e barriere, di qualunque tipologia. È l’atto rivoluzionario dello stare insieme per creare qualcosa che abbia un impatto reale. Del dimenticare ogni forma di egoismo, unendo le forze e superando limiti personali e difficoltà. Della volontà di non apparire come singoli, pur mettendo ognuno del proprio a disposizione di un qualcosa di più grande, in completa armonia. È la volontà di riappropriarsi degli spazi cittadini in un’ottica di riqualificazione alternativa a quella dominante ai giorni nostri: non controllo autoritario ma vita comunitaria (questa è la chiave per combattere il degrado: rendere attivi e frequentati gli spazi pubblici. Una nuova telecamera di sicurezza non serve a un cazzo; una comunità viva e inclusiva, al contrario, è vitale). È riscoperta di valori come integrazione, cooperazione e amore fraterno tra sconosciuti. È tutto questo, ma è anche molto altro che sarebbe assurdo e velleitario provare a spiegare a chi non ha partecipato. Poi sì, oltre al lato astratto, il festival è composto dalle attività messe a disposizione del pubblico grazie all’impegno di ragazzi e ragazze dai 20 ai 30 anni. Gente che lavora, studia e ha impegni come tutti, ma che impiega il proprio poco tempo libero per creare uno spazio gratuito e accessibile che generi pensiero, stimolo e – perché no – svago. Il tutto con le enormi difficoltà burocratiche ed economiche che comporta al giorno d’oggi il creare un evento che ospiti più di 20.000 persone, grazie a decreti sicurezza vari e commissioni di pubblico spettacolo composte in prevalenza da ottuagenari. E, oltre a questo, con un aiuto economico da parte del Comune e dell’Estate Fiorentina che, al di là di partecipazioni e sbandieramenti di facciata, copre a malapena le spese di occupazione del suolo pubblico. Ma non sono qui per fare polemica. Non oggi, almeno. (Ho fatto questa specifica solo perché ho sentito alcune persone in questi quattro giorni lamentarsi dei prezzi delle bevute – tutt’altro che assurdi a dire il vero: 5 € per una birra è il prezzo medio di un qualsiasi spazio estivo o pub – : il bar è infatti l’unica forma di entrata che copra le ingenti spese organizzative del festival. Avreste davvero preferito pagare 20 € di biglietto d’ingresso?). Citare tutte le attività che si sono tenute in questi giorni sarebbe lunghissimo, quindi mi limiterò ad elencare le realtà e persone che le hanno ideate e realizzate. Il mio consiglio è quello di seguirle anche singolarmente: scoprirai un sottobosco estremamente fertile di proposte culturali, sportive e sociali che potrà fornirti una nuova prospettiva della vita cittadina. In ordine sparso: No Dump, Riot Van, Street Levels Gallery, Progeas Family, Anelli Mancanti, Three Faces, StreetBook Magazine, C O L L A, Numa Crew, Dissidanza, LUV Dance Movement, Massive BMX Crew, Dokama Skateboards, FUL, Ache 77, collettivo ARK, Utopiko, RELOVE – Agriculture, Fantulin, Cooperativa sociale CAT, Stefano Bocciolini e Dario Castiello, Non Una Di Meno, Ballroom Scene, Ireos Firenze, Associazione Famiglie Arcobaleno, Pakua, Marti Rotels, Federico Niccolai e Lorenzo Tonda, DivaNo, Cristina Bazolli – Sofuxia, Lento Feromone – Dokama, Un dillo ma fallo, Margherita Panerai, Sara Colzi, Roberata Mazzoni, Blady, Sil Vicious, Elisa Beh Buracchi, Federico Bria, Luchadora, Brucio, Chimù, Coito Negato, Luca OO, Haze e Mattia Martini, UISP – Comitato di Firenze, RE_Light, Officina Klee, FotoSintesi lab project, Sbarre Mic Check e Combo Firenze. Bueno, come vedi l’elenco è lungo e variegato. E, come immaginerai, il coordinamento e la partecipazione di tutte questi attori è complicato e dispendioso. Ma da dove nasce l’idea? Abbiamo incontrato pochi giorni prima del festival Antonio Bagni, presidente della neonata Associazione Icché Ci Vah Ci Vole (storico nome delle prime edizioni) che racchiude in un unico organismo i vari componenti organizzativi. Nella chiacchierata che ne è venuta fuori insieme al nostro Tio Elvio – aKa Niccolò D’Innocenti – Antonio ci ha raccontato le origini e il percorso che ha portato Copula Mundi ad essere ciò che è oggi. Clicca sul video qui sotto (con riprese e montaggio a cura di Mattia Martini) e ne saprai di più. “Se dai, picchi e meni le cose le puoi fare!” (cit.) Riprese video e montaggio: Mattia Martini Foto: FotoSintesi lab project – Share Tweet Share... Read more...Plastic Dreams, un articolo di A. Biagioni || Three Faces24 Luglio 2019Plastic Dreams Un articolo di Andrea Biagioni Photo by Rosanna De Benedictis Plastic Dreams non è una mostra. È la discesa conturbante in un universo inquietante e perverso, talmente grottesco a tratti da apparire irreale. Ma il fatto che qualcosa sia irreale vuol dire che sia inesistente? No. L’irreale è ciò che non vediamo o non vogliamo vedere, ciò che neghiamo o vogliamo negare. Ma c’è. Esiste nei più reconditi angoli di quell’abisso interminabile che è la mente umana. Si nasconde dietro la facciata della nostra normalità, della quotidianità. Lo incateniamo dietro al velo di un mondo fittizio, che creiamo appositamente per noi stessi, perché ci tranquillizza come il 1999 da cui non è mai uscito l’universo Matrix. Ma siamo poi sicuri di esserne usciti, noi? Siamo sicuri di non essere imprigionati in un Matrix 3.0, che ci controlla con l’allettante concessione di poter sfogare le nostre più atroci perversioni nel buio solitario di una camera, digitandole sui tasti delle nostre tastiere e poter apparire allo stesso tempo perfettamente normali agli occhi ciechi di chi ci circonda? La realtà è che siamo schiavi di una società virtuale che noi stessi abbiamo plasmato e da cui crediamo di essere protetti. Una società, se possibile, ancora più bigotta e marcia di quelle del passato, perché resa illimitata dalla sua irrealtà: dal suo essere allo stesso tempo totalmente virtuale, perfettamente invisibile, ma in tutto e per tutto esistente. La realtà è che commettiamo ancora l’errore di nascondere la muffa sotto il tappeto, senza renderci conto che quello da noi creato è l’ecosistema ideale in cui la muffa può nutrirsi, crescere e far marcire tutto. E invece crocifiggiamo quelli che hanno il coraggio di lasciare la muffa allo scoperto, di farle prendere aria e di renderla così innocua. Siamo ancora le Beautiful People del videoclip di Floria Sigismondi, che per Plastic Dreams appare come una madre putativa. Ora immagino di dover entrare nel vivo della descrizione, ma il fatto è che finora ho solo messo in fila una frase sconclusionata dietro l’altra, perché alle volte le parole sono come l’obiettivo di una macchina fotografica: vorrebbero ricreare l’unicità di un istante perfetto che l’occhio vede, ma quell’istante vive solo negli occhi di chi vede e molte volte l’arteficio non può catturare la totalità di un attimo. Ma può accadere. Solitamente ciò coincide col fatto che non si guarda dritto nell’obiettivo o attraverso di esso, ma si immagina quello che si sta fotografando guardando oltre l’obiettivo, perché in questi casi è fondamentale avere un punto di vista diverso. Quindi su Plastic Dreams posso ancora dirvi solamente che è stata una boccata d’aria in una città che continua a sopravvivere a sé stessa, alla sua gloria di un tempo. Per qualche settimana, Firenze è sembrata Berlino grazie a 4:3, Boiler Room e a Manifattura Tabacchi con quel gioiello post-contemporaneo che è lo spazio espositivo B9. L’augurio è che continui a esserlo, insieme a molte altre realtà locali che qualcuno vuol nascondere sotto il tappeto, ma che sono presenti e vive. Plastic Dreams è stata una bellissima esperienza, con un closing party notevole e perfettamente calzante nella sua veste Electro-industrial. Ma ora è finita. Ciò però non vuol dire che debba finire qui. Anzi, crediamo e vogliamo credere che non finirà così, che ci saranno altre Plastic Dreams. Per il momento un sentito grazie a chi ha realizzato tutto questo e, per il resto, preferiamo che siate voi stessi a giudicare, attraverso le foto realizzate insieme a Rosanna De Benedictis. Magari, qualcuno ci troverà pure qualcosa di sensato in quanto detto finora. In caso contrario, le immagini vi parleranno per noi. A cura di 4:3 e Boiler Artists: Aïsha Devi & Tianzhuo Chen // Aphex Twin & Weirdcore // Daniel Lopatin & Jon Rafman // Hannah Perry // Holly Herndon & Jlin // Jacolby Satterwhite // Jeremy Deller & Cecilia Bengolea // Lafawndah & Reba Maybury // Mark Leckey Photo: Rosanna De Benedictis e Andrea Biagioni. All Rights Reserved. Share Tweet Share... Read more...Me and Tool, un articolo di G. Bindi || Three Faces17 Luglio 2019Me and Tool Un articolo di Gianluca Bindi Lo so a cosa state pensando: è passato un mese dal concerto dei Tool al Firenze Rocks, che senso ha scrivere l’ennesimo articolo? Già la mattina dopo ce n’erano a centinaia che, gira e rigira, dicevano più o meno le stesse cose. È vero, la mia reputazione non è proprio quella di chi è sempre sul pezzo e non si lascia sfuggire nulla ma, semplicemente, non mi andava di conformarmi alla mera cronaca; cercavo insistentemente una chiave di lettura diversa, per raccontare qualcosa di diverso in modo diverso. E questo è quanto. Andare a risentire la mia band preferita dopo tanto tempo mi ha causato prima di tutto una gran dose di tensione. Di solito grandi aspettative vogliono solo dire grandi delusioni. Anni e anni di silenzio, in cui i ricordi si sono come cristallizzati in una ovattata perfezione da cui è difficile discostarsi: e se il ritorno non fosse all’altezza dei tempi gloriosi? E se invece facessero proprio schifo come sarà possibile giustificare una tale figura di merda? Meno male che il mio coinquilino conosce il tizio del bar e ci facciamo regalare un sacco di birre: quando il futuro è incerto sempre meglio bere preventivamente. La cosa strana è che vengono a cercarmi sempre loro: parto per l’Australia e organizzano un tour in tutta l’Oceania, mi trasferisco a Firenze e boom! unica data italiana dell’atteso ritorno dopo tredici anni. Comincio a pensare che forse potrebbe essere tutto un malinteso, che in realtà si siano accorti di provare ancora sentimenti per me. Sono venuti qua a parlarmi, a dire le cose come stanno e a cercare perdono dopo tutto il silenzio. Un po’ come le ex che ripartono all’arrembaggio perché si sono accorte di aver fatto una cazzata a lasciarmi (al giorno d’oggi ne totalizzo meno di zero). Quindi siamo qui sotto il palco, e io aspetto che abbiano qualcosa da dire, sono disposto ad ascoltarli con almeno il beneficio del dubbio. E bevo. Ah, per la cronaca: l’ordine delle canzoni non collima assolutamente con la scaletta originale del concerto perché questo, oltre a essere un articolo vano e fine a sé stesso, è anche molto riferito ai viaggi mentali che sono solito fare, mio lusso esclusivo a cui siete fortunati di non assistere ventiquattro ore al giorno. L’interlocuzione si destreggia sui grandi classici, e non appena parte Parabola arriva anche la carrellata dei ricordi felici: Questo corpo che mi trattiene, mi rammenta della mia mortalità Abbraccia questo momento, ricorda Noi siamo eterni, tutto questo dolore è un’illusione. E diciamo che, insieme a un particolare passo di Jambi, potrebbe anche descrivere bene la prima parte di una relazione: Se potessi desidererei perdere tutto Se pensassi che il domani ti portasse via Tu sei la mia beatitudine, la mia casa, il mio centro Cerco solo di resistere un giorno in più. Eh sì avevo diciotto anni quando iniziai ad ascoltare i Tool. Avevo tutta la discografia disponibile, perché avevano appena pubblicato quello che a oggi è ancora (per poco) il loro ultimo album. Diciamo che è come scoprire il sesso da adolescente con la tua prima ragazza: ascolti e riascolti in modo ossessivo per non perderti quella magnifica sensazione che non sarà mai come le prime volte. Il rischio di fossilizzarsi è dietro l’angolo: «Sei giovane, conoscerai altre band che ti piaceranno», ma io no, continuavo ad ascoltare soltanto loro. Semplicemente non c’era altra musica che in quel momento reputavo al loro livello. Poi però il distacco comincia a progredire lento ma inesorabile, perché le esperienze nella vita sono tante ed è giusto farne molte. Ænema, oltre a essere un cazzo di pezzone, ha anche questa sovrapposizione di significati fra la parola latina che vuol dire ‘anima’ e la parola inglese che vuol dire ‘clistere’. Mi sa che qua siamo arrivati ai tavoli rovesciati e ai piatti rotti: Qualcuno dice che la fine è vicina Qualcuno dice che assisteremo presto all’apocalisse. Insieme a Vicarious calza a pennello con le labbrate tipiche della fine di una relazione: Non ci fermeremo finché il sangue non scorrerà. «Scusa con chi è mi avresti tradito? Gli Arcade Fire?» «Sì, ma solo col loro primo album giuro». «Certo, come se non mi fossi accorta delle tue scappatelle in macchina coi vari Isis, Goat, 16 Horsepower, Portishead… addirittura Vivaldi: cos’è ti piacciono gli uomini maturi adesso?» «No, è che voglio provare esperienze nuove, sono anni che da te ascolto sempre le stesse cose…» Qui farei partire 46&2, un pezzo che parla di evoluzione; che poi ogni rottura è un po’ un evolversi dalle ceneri emotive e ricostruirsi in altro modo per vivere in altri modi: Voglio percepire il cambiamento consumarmi Sentire l’esterno diventare interno Voglio percepire la metamorfosi. Intanto oltre al viaggio mentale ci sarebbe il concerto reale a cui sto assistendo, come detto, assieme al mio coinquilino – “Piacere Alessandro”. Poghiamo come dei quindicenni dalle unghie dei piedi incarnite, che comunque secondo me è un ottimo modo per cementificare la confidenza fra persone che si conoscono da poco. Sono contento di aver trovato i biglietti per la pit, di fronte al palco. Quando li vidi dal vivo in Australia non fui così fortunato. Mi toccò un posto a sedere, laterale per giunta, che all’epoca lo considerai come giocare a calcio con la sedia a rotelle. Quel concerto fu come un ritorno di fiamma, il più classico. Ripensi, risenti, rivedi, riscopi, regret (che è tipo un pentimento da rimorso, non c’erano parole in italiano che tornavano bene). Sweat per la prima fase ci sta: Sembra che sia già stato qui Sembra così familiare Sembra che stia scivolando in un sogno dentro un sogno È il modo in cui mi sussurri che mi fa sprofondare. E subito dopo è il turno di The Pot, quasi a coronare un autogiudizio autoflagellante sulla scappatella di cui non sei tanto fiero: Chi sei tu per giudicare? Devi essere stato fuori di testa. E adesso ci siamo. Dopo sei anni dall’ultimo incontro, son qui alle Cascine a sentire il materiale nuovo; ciò che di nuovo c’è ancora da dire su questa storia. Non sono neanche più teso, forse perché ripercorrendo le innumerevoli tappe ho come esorcizzato la paura. O forse perché le birre cominciano a essere tante. Non mi importa più niente di come andrà a finire con queste due canzoni inedite. Descending e Invincible mi parlano con la solita voce, con la solita indole di sempre, ma provano a dirmi cose diverse. Forse sono semplicemente diverso io. Mi parlano dei tempi passati, ma con nuove prospettive. Mi chiedo se mi sto autoconvincendo della qualità dei pezzi, non lo so, dovrei riascoltarli con calma, ma adesso ho le palpitazioni. Mi dicono che sono disposti a tornare. Dicono che il 30 agosto uscirà il nuovo album. Ricordo tutte le promesse disattese, anno dopo anno. Ma non c’è niente da fare, non riesco a non dare un’altra possibilità – l’ultima, sia chiaro, perché sono un uomo intransigente ma dal cuore buono. 30 agosto. Abbasso le difese e sorrido. Sono venticinque minuti di delirio. Sembra un ritorno in grande stile, col botto, l’attesa sembra essere ripagata. Ma dovrò aspettare, per l’ultima parola. 30 agosto. Cosa sono poche settimane rispetto a tredici anni? Il primo test per il riavvicinamento può comunque dirsi superato. Non mi resta che concludere questo viaggio con l’ultima canzone della scaletta (visto che di Stinkfist ho già parlato in passato). Schism non è solo una delle mie canzoni preferite in assoluto, ma è anche, se non soprattutto, un manuale che inizia, svolge ed esaurisce la poetica della riappacificazione. E questi sono i suoi ultimi versi: Il freddo silenzio ha la tendenza Ad atrofizzare qualsiasi senso di compassione Fra presunti fratelli Fra presunti amanti So che i pezzi combaciavano. Share Tweet Share... Read more...Andrés Escobar: il calcio non è un’isola, un articolo di A. Biagioni || Three Faces3 Luglio 2019Andrés Escobar: il calcio non è un’isola di Andrea Biagioni La notizia è arrivata in Italia nel tardo pomeriggio del 2 Luglio 1994. È una di quelle notizie che ti lasciano perplesso. Stando a quanto si apprende dagli organi di stampa colombiani, un calciatore della Nazionale è stato trucidato a colpi di mitraglia fuori da una discoteca di Medellín. Il movente, un autogol. Pare che il calciatore sia stato provocato all’interno del locale da due soggetti noti alle forze dell’ordine, Alonso Cardona Monsalve e Humberto Muñoz Castro. Lo accusavano di aver causato l’eliminazione dei Cafeteros dal Mondiale statunitense con la sua autorete, peraltro proprio in favore dei gringos, nella seconda gara del girone giocata dieci giorni prima. Il calciatore ha deciso di lasciare il locale, i due lo hanno seguito nel parcheggio continuando a provocarlo, il calciatore ha reagito, la discussione è degenerata. Normale routine di una notte a Medellín, si direbbe, ma la realtà è un’altra cosa. È come in un romanzo di Gabo Marquez, dove tutto quello che sembra reale è reale e anche quello che non lo è, appare come tale o comunque, accade. Infatti hanno iniziato a circolare strane voci, soprattutto fuori dalla Colombia. Ad esempio, si dice che il calciatore fosse coinvolto col narcotraffico. Altre sostengono che l’omicidio sia stato un segnale lanciato agli ultimi fedeli di Pablo, El Patrón, perché il cognome della vittima è Escobar. Addirittura in Italia per alcune ore è circolata la voce che ci fosse stato uno scambio di persona, che i due killer avessero scambiato la vittima per un parente o comunque un uomo vicino all’altro Escobar. Niente di tutto questo è vero ma ogni buon colombiano, che conosce bene la storia del suo popolo anche se non vuole parlarne e che conosce bene tutti protagonisti di questa storia, vi direbbe che anche se non è reale, alle volte ciò che si racconta, senza la realtà non sarebbe mai esistito e che la realtà c’entra molto con la fantasia. Come in un romanzo di Marquez. Andrés Escobar non aveva legami di sangue col Patron e non era coinvolto, perlomeno direttamente, col narcotraffico. Era il miglior difensore dei Cafeteros, la Nazionale Colombiana, e ne era stato anche il capitano. Non lo è stato ai Mondiali di Usa ’94, perché un infortunio lo aveva tenuto fuori per gran parte delle qualificazioni. Non era sceso in campo neppure il 5 Settembre 1993, quando i colombiani avevano demolito l’Argentina per 5 a 0, ottenendo il pass per i Mondiali e l’ingresso nell’olimpo delle candidate al titolo. Lo sancì Pelè con le sue dichiarazioni, e ora viene spesso denigrato per la sua intuizione alla luce dei risultati, ma erano in tanti a scommettere sulla Colombia. Ci hanno scommesso giornalisti o esperti, ci ha scommesso il Governo Colombiano, che ha investito sulla Selección e sulla sua immagine svariati pesos, anche se su quei pesos c’è nascosto da qualche parte il segno del dollaro. Ci ha scommesso anche Gabo Marquez: lo ha fatto con un suo caro amico che in un’altra vita era stato il medico di Salvador Allende. Purtroppo per Andrés e per i suoi compagni, però, su di loro hanno scommesso anche i narcotrafficanti, perché El Patron non c’è più, ma il narcotraffico ha ancora il completo potere sul paese, e lo sta dilaniando con quella che è una vera e propria guerra di successione. Come sempre accade, morto il re scorre il sangue della disgregazione. È il caos. È la Colombia. E l’unica cosa che riesce a tenerla insieme è la sua Nazionale. Quando giocano i Cafeteros, il paese si ferma esattamente come accade in Golpe de estadio di Sergio Cabrera, dove il conflitto tra guerriglieri e polizia locale viene interrotto per assistere a quel fatidico Argentina-Colombia. Non è finzione cinematografica, è realtà. Quel 5 settembre, per esempio, Pablo Escobar è nel pieno della sua fuga dalle forze armate e dai suoi rivali del narcotraffico, che lo stanno braccando da oltre un anno, ovvero da quando ha deciso di scappare da La Catedral, il carcere di massima di sicurezza in cui era relegato e che in realtà era diventato un lussuosissimo quartier generale. Ha con sé una piccola radiomobile, ma non gli serve per intercettare i movimenti dei suoi nemici, la usa per poter esultare ai gol di Rincón, Asprilla e Valencia. E forse anche El Patron in quel momento ha scommesso che la Colombia avrebbe vinto i Mondiali, anche se qualcosa gli dice che lui non li vedrà mai. Lui che quella squadra sente di averla creata e forse tutti i torti neppure li ha perché il calcio, come del resto tutto in Colombia tra gli anni ’80 e ’90, è Pablo Escobar. Tanto che aveva voluto e ottenuto nel 1992 che i Cafeteros disputassero un’amichevole proprio a La Catedral, la sua prigione di lusso, il suo centro di comando. E i giocatori vanno. Seppur contrariato, perché lo deve al senso di giustizia che fa parte del suo essere uomo, anche Andrés va. Lo stesso vale per il deus ex machina di quella squadra, Francisco “Pacho” Maturana, che però come ogni grande allenatore è uomo di mondo, di pensiero e sa cosa dire e come dirlo. Non è uno che si fa fregare, spegne la polemiche come si spegne un fiammifero con le dita: «Se Vito Corleone mi invita per pranzare nella sua cella, io vado». Tradotto per i critici: “Se veramente ci fosse tra i colombiani qualcuno che avesse il coraggio di rifiutare, sarebbe il primo a non biasimarci, perché saprebbe quanto è difficile dire no. E gli stringerei la mano”. Però la stima della gente va comunque riconquistata e c’è un solo modo per scaricare quella tensione, il campo. Per due anni, i Cafetors non perdono praticamente mai. Ventiquattro partite senza sconfitte, poi trangugiano l’Argentina al Monumental e l’aereo per gli Usa è lì che aspetta. Ma nel frattempo El Patron è morto. Il 3 Dicembre 1993, Pablo Escobar è stato catturato e ucciso nei sobborghi di Medellin dalle forze speciali dell’esercito, con consistente iniezione di fiducia a stelle e strisce, e dai Los Pepes (Los Perseguidados por Pablo Escobar), ex-vassalli epurati dal Patron che ora cercano vendetta con l’appoggio del Governo. Quel 3 Dicembre, mentre la nazione Colombia non sogna ma forse spera che torni almeno un barlume di normalità, l’altra speranza, quella della Nazionale colombiana, si è appena frantumata. Da una parte la stringe il Governo stesso che crede di avere il controllo perché ha tra le mani la pelle del leone, ma dall’altra ci sono Los Pepes, che non hanno mai smesso di essere narcotrafficanti, non hanno mai smesso di controllare il calcio e nel giro di pochi anni, sempre guidati dai fratelli Castaño, si trasformeranno nell’Autodefensas Unida de Colombia, gruppo paramilitare di estrema destra che lo Stato colombiano volutamente ignorerà per oltre un decennio. E mentre i Cafeteros sono sul volo che li porterà a Los Angeles, più delle rassicurazioni del Governo sentono il vento delle minacce che si alzerebbe, se qualcosa andasse storto. E hanno ragione loro, perché va tutto storto, perché deve andare tutto storto. Perché sono colombiani e sembra siano costantemente destinati a espiare una c