Three Faces

La terza faccia della medaglia

“Storia di un invito al silenzio” di Sofia D. Chilleri || #Lafirenzechecrea


Storia di un invito al silenzio

di Sofia D. Chilleri

 

Partecipazione al contest letterario #Lafirenzechecrea

by Progeas Family – Ache77 – Three Faces

 

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“Tappati quella bocca, ho detto. Non lo vedi che c’è gente, idiota?”. L’espressione corrugata del volto raccontava il suo disappunto. Non la sopportava più, quella stronzetta, così le rivolgeva quelle parole gentili senza nemmeno un briciolo di senso di colpa, scagliandogliele addosso, lame violente come violenta lo era stata lei con lui. Si intende, non si era mai fatto mettere le mani addosso da una donna, figurarsi da lei. La violenza che aveva subito era ben diversa, ben più pesante da digerire: quella giovane donna si era mangiata il suo spazio di sicurezza, sbranandolo come una belva famelica che mastica l’osso, fino a consumarlo, fino al midollo. Spolpandolo. Semplicemente esistendo, senza fare assolutamente niente.

Ginevra, così si chiamava. Era lei, l’idiota, o la persona più intrigante che avesse mai incontrato. Aveva gli occhi grandi e chiari, un po’ spiritati, come se in lei albergasse una forza primitiva e selvaggia, indomabile. Lo sguardo rivolto sempre verso il basso, Ginevra parlava poco, ma ogni volta che le sillabe danzavano sulle sue labbra chiunque le era davanti rimaneva senza parole, come ipnotizzato dal movimento sinuoso che compivano i petali di rosa che erano poi la sua bocca. L’aveva incontrata a una serata qualsiasi, con gente qualsiasi. Ragazze qualsiasi che muovevano i loro culi, alcuni sodi, altri meno, a tempo di musica. Le luci intermittenti illuminavano corpi sudati, corpi desiderabili, volti ricoperti di salata glassa di sudore. Birre in bicchieri di plastica, dolce nettare d’ambrosia.

Poi, c’era lei. Tommaso l’aveva notata subito. Lo sguardo perso, rivolto in basso, gli occhi socchiusi come a cercare un tesoro ai suoi piedi. Le si era avvicinato con sicurezza, afferrandole un braccio e allontanandola dalla folla, senza dire nulla. Lei si era lasciata trasportare, quasi apatica, per poi sbottare bisbigliando un: “chi cazzo sei te, chi ti conosce, lasciami”. Avevano subito iniziato a litigare, lui era prepotente, lei arrogante. I toni si erano fatti pesanti, si offendevano, due sconosciuti nell’ombra del locale. Nessuno si accorgeva della loro presenza, non esistevano forse.

Dopo quella sera si erano persi di vista, salvo poi rincontrarsi due mesi più tardi. La bella stagione era ormai morta, per fare spazio ad un umido quanto piovoso autunno. Tommaso stava camminando per strada, era sera tardi, e aveva incontrato l’esile sagoma di Ginevra in un vicolo buio, le cuffie una corona di spine portata con orgoglio, un pezzo di carta in una mano, una penna nell’altra. Stava scrivendo, appoggiata a un muro. Tommaso le si avvicinò, chiedendole scusa per la sua arroganza, per la sua incapacità di parlarle. Le disse che era bella. Lei alzò la testa, senza togliersi le cuffie; non aveva sentito una singola parola, ma non importava. Gli voltò le spalle senza dargli attenzione, regalandogli solo quello sguardo, che lo lasciò basito e disorientato.

“Tappati quella bocca, ho detto. Non lo vedi che c’è gente, idiota?”. Era quello, il loro terzo appuntamento fuori binario. Lo stesso vicolo buio, stavolta affollato. Sagome oscure in una disordinata fila indiana si muovevano come in processione, per andare da qualche parte. Stavolta era stata Ginevra ad avvicinarsi al ragazzo, accusandolo di seguirla, di essere un maniaco, gridando in mezzo alla gente. “Tappati quella bocca, ho detto. Non lo vedi che c’è gente, idiota?”. Ma lei non ne voleva sapere di abbassare i toni, così si trovò costretto a premerle la mano sulla bocca, gli occhi degli sconosciuti occhi di bue puntati su di loro. Lei gli morse la mano, selvatica e minacciosa. Di tutta risposta, lui la baciò, e lei si abbandonò a quel bacio senza opporre resistenze.

Da quel giorno le loro vite si trasfigurarono in qualcosa di diverso: viaggiavano insieme sull’affilata lama di coltello chiamata “amore”.

Non riuscivano ad amarsi come gli altri. Non riuscivano ad organizzare serate con gli amici, non riuscivano ad andare a cena fuori nei ristoranti, non riuscivano a fare molte cose che le coppie normali riuscivano a fare. Ma era proprio questo a unirli: l’incapacità di comunicare con il resto del
mondo. Intrattenevano silenziose conversazioni alternate a rumorosi amplessi acrobatici. Si rivolgevano parole dolci, e timidezza, si facevano violenza, sfoderando aggressività bestiale e logorroica brutalità verbale. Erano così, erano pazzi, e si amavano come solo i pazzi sanno amare. Con la testa, il cuore, le mani, le labbra, e soprattutto lo stomaco, le viscere. Erano uniti dal sodalizio della loro insanità mentale, un sodalizio al dolce sapore di odio.Ginevra passava intere giornate distesa sul tappeto, la sua nudità a contatto con la rugosa superficie persiana, un bicchiere di vino accanto a lei: scriveva poesie, racconti, scriveva di sé e dei favolosi mostri che albergavano indisturbati nella sua testa. Ogni tanto abbandonava il taccuino per fumare una sigaretta, affacciata alla finestra, guardando le persone che passavano per strada. Tommaso si era trasferito da lei, in quell’appartamento di trenta metri quadri infestato dalla presenza scomoda degli innumerevoli volumi, tenuti in disordine ma non senza cura. Aveva portato con sé solo lo stretto necessario: la sua Fender, i pennelli, le tele per dipingere, bianche superfici pronte ad essere profanate senza pudore nel sacro rito che è poi la creazione edenica dell’opera prima.

Quella sera pioveva, Ginevra aveva sottoposto un quarantacinque giri di Bob Dylan alle pungenti carezze dell’ago del grammofono per il suo perverso piacere di ascoltare la voce dolce e quasi isterica di quel genio chiamato anche Robert Zimmermann. Apriva la finestra, un abbraccio di aria fresca sul corpo seminudo la scaldava dandole brividi di freddo. Tommaso aveva preparato tutto: quella sera voleva competere con il tempo, immortalando la figura della donna da lui tanto amata direttamente sulla parete di casa, per poterla guardare tutti i giorni e imprimere per sempre la sua bellezza eterna.Ginevra non era a suo agio: non le piaceva l’idea di ritrovarsi la sua faccia sulla parete del salotto ogni giorno, non le piaceva l’idea che qualcuno intrappolasse la sua figura in una gabbia fatta di vernice e staticità, lei che dentro era dinamismo allo stato puro. La sera prima Tommaso le aveva chiesto, piangendo, di posare per lui. Si era prostrato ai suoi piedi, si era umiliato: un atto di sottomissione, una dichiarazione d’amore assoluto dal sapore salato. Lei lo aveva guardato con disprezzo, con tenerezza, i bulbi oculari rivolti a terra, come al solito. L’atto sacro e disperato di un artista, di un amante.

Tommaso si toccava nervosamente il naso a patata, gli occhi semichiusi come faceva suo padre quando era concentrato. Suo padre lo aveva perso quando era piccolo, gli faceva male quando lo rivedeva, fantasmagorica presenza, sul suo stesso volto. Si osservava le mani, i calli ben visibili, le unghie trascurate, le vene in risalto. Poi guardava la sua donna, e cercava di guardarla dentro. Cercava di vedere il suo spirito selvaggio, di afferrarlo, di proiettarlo su quella parete bianca. Tubetti di colore, pennelli, matite. Tutto pronto. Ginevra seduta sul tappeto, la nudità pallida esibita senza pudore alcuno, una luce di candela, il rumore della pioggia e il sapore di tabacco misto a marijuana nelle bocche dei due amanti. Rosso, era il colore che meglio descriveva l’irruenza e la forza di quella creatura, un’uccello in fuga dal mondo. La mano sinistra di Tommaso si muoveva con scioltezza e decisione, ritraendola nelle sue forme ectoplasmatiche e primordiali. Era un grido di libertà, quello. Non era un ritratto di una persona.

Ginevra osservava l’astrazione del suo volto come uno specchio. Vedeva lo sguardo rivolto verso il basso, vedeva la rabbia dei suoi occhi, vedeva le labbra pronte a mordere, vedeva la sua solitudine profonda, e amava Tommaso per averla guardata dentro, e per essere riuscito ad amare quel rovo di spini che era lei.
Le cose andarono meglio da quel giorno, senza che se ne accorgessero. Passavano la notte a parlare, con i corpi e con le parole, annodando le loro emozioni. A volte invece preferivano il silenzio, preferivano non dirsi niente e stare ognuno per conto proprio. Sentimentali, eroi romantici delle rovine, dei ruderi che erano. Stupende lacrime, stravolgenti abbracci. Dormire sul tappeto, e
svegliarsi solo a pomeriggio inoltrato.

Il tempo passava, le stagioni si susseguivano. Lo percepivano volgendo lo sguardo all’esterno, al di fuori di quell’appartamento, al di fuori del loro microcosmo. Le vite degli altri andavano avanti, le loro fluivano, fluttuavano, disperdendosi. Anelli di fumo fuoriusciti da labbra esperte, non avevano contatti con nessuno, non ne avevano interesse.

Una notte Ginevra si era addormentata sul tappeto, Tommaso la guardava sdraiata sul fianco sinistro, e fumava affacciato alla finestra, la luna assente, la luce dei lampioni una timida presenza. Poi, vide. Un corpo abbandonato a se stesso, nella neve, poggiato alla fredda superficie di un palazzo antico. Provò una strana sensazione, un istinto di protezione. Così, le chiavi in tasca, uscì senza fare rumore, chiudendo la porta di casa alle sue spalle per andare incontro a quella creatura persa.

Camilla era lì, abbandonata a se stessa. La neve le bagnava i vestiti, ma non riusciva a reagire, il cappello di lana pungente, gli occhi chiusi rivolti al buio intrappolato dalle palpebre pesanti. Aveva bevuto troppo. Così, non si accorse nemmeno dello sconosciuto che la sollevava di peso.

Tommaso guardava quella ragazza bellissima. I lunghi capelli neri scuri come quella notte senza luna. Non poteva lasciarla lì, doveva metterla al sicuro. Si caricò quell’ammasso di cellule in spalla e la trascinò fino alla vasca calda. Lei non sembrava accorgersi di nulla, una nube d’alcol a cullare i suoi incubi etilici. Aprì il rubinetto di acqua calda, Ginevra ancora sul tappeto nella stanza accanto. Guardò quella meravigliosa creatura color ebano che era Camilla, senza conoscere il suo nome; osservava il corpo di quella donna mentre la spogliava per immergerla delicatamente negli abissi di schiuma.

Camilla si ritrovò in uno stato di alcolica e leggera inconsistenza, si guardava le braccia bagnate, sentendosi al sicuro. Vide che al bordo della vasca si affacciava un ragazzo: “Tappati quella bocca.”, le bisbigliò con l’indice a premere sulle labbra, prima ancora che le fosse data l’opportunità di parlare. Non era spaventata, il vapore caldo la rassicurava. Tommaso la guardava, meravigliosa regina esotica su quel trono di bolle di sapone.

Si guardarono in silenzio. Poi, lei gli si avvicinò all’orecchio, sussurrando parole perverse. E in un attimo lui era nudo su di lei, intimandole silenzio ancora una volta. Gemiti sussurrati dispersi nei vapori, i corpi uno scivolo, una danza dionisiaca. Si erano amati, per quell’istante breve. Si erano amati senza conoscersi, ma riconoscendosi perfettamente l’uno nell’altro. Tommaso prese un asciugamano e tacendo asciugò i loro corpi, strofinandoli con leggero vigore. Le aveva trovato abiti asciutti e l’aveva vestita con una delicatezza quasi materna.

Un bacio rapido, Camilla se ne andò da dove era venuta. Si erano appartenuti per una notte.

Tommaso chiuse la porta, e si sedette sul tappeto. Guardava Ginevra e il candore della sua pelle. Guardava quella bocca di rosa, le baciava le palpebre, gli occhi saturi di lacrime. Il ritratto lo osservava dalla parete, quell’ammasso di odio e amore stellare. Si sdraiò accanto alla sua compagna e, tenendola stretta, si addormentò, perdendosi in quella notte senza luna.

 

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