Per chi mi chiede (musicalmente) come sto
di Gianluca Bindi
Dagli anni Sessanta in poi gli studi sulla classificazione delle emozioni primarie sono stati molto ferrei. Nel 1987 il sociologo americano Theodore Kemper è arrivato a teorizzarne soltanto quattro: tristezza, gioia, rabbia e paura. Secondo lui, tutte le altre sono derivate da una combinazione di questo insieme circoscritto. Fregandomene altamente dell’importanza di tale dibattito accademico ho deciso invece che, per quanto mi riguarda, ci sarebbero state bene anche sensazioni di natura fisica, come il disgusto e il desiderio (non vedo perché se certa gente organizza un convegno sul terrapiattismo, la comunità scientifica debba rompere i coglioni proprio a me per questa quisquilia).
In breve, l’idea per questo articolo mi è venuta qualche settimana fa, quando mi è stata fatta per l’ennesima volta la domanda emblema della banalità delle consuetudini sociali, ossia: «Come stai?». Oltre al fatto di aver risposto con il solito automatico «Bene», mi sono reso conto che no, non so assolutamente come sto in questo momento. Non solo, ripensandoci poi a mente fredda, ho realizzato che ho difficoltà anche nel descriverlo a me stesso. Così ho provato a fare un esercizio di abbinamento, ricercando per ogni emozione un brano musicale che lo rappresentasse in maniera il più possibile accurata, almeno dal mio punto di vista (inutile impelagarsi nello sterminato universo della musica umana, visto che non sono l’Uomo Gatto).
In conclusione, il genere che è venuto fuori è rock, e anche di quello molto rumoroso, e non è per fare il fondamentalista (anche se un po’ ammetto di esserlo), ma semplicemente il rumore è ciò che in questo periodo caratterizza meglio la mia vita, nel bene e nel male. I pezzi magari non li conoscerà nessuno, magari, come spesso succede, faranno cagare a tutti (sono abituato agli insulti, uno dei miei preferiti è che ascolto musica da eroinomane); ma sono un ritratto sincero e pertinente del mio stato mentale ed emotivo aggiornato ad oggi. Quindi, se nei prossimi giorni qualcuno mi chiederà come sto, gli manderò il link di questo articolo dicendogli semplicemente che rimbalzo in maniera ripetitiva e sconnessa fra queste canzoni:
Tristezza. My Bloody Valentine – No more sorry
Non potevo non cominciare con la tristezza, non solo perché un anno fa ne ho scritto un elogio proprio su questa rubrica. Per quanto mi riguarda non si tratta (mai), di pura e semplice depressione, ma di qualcosa di più profondo, che pervade ogni gesto e azione che faccio in prospettiva dell’ineluttabile fine di tutto (una sorta di esistenzialismo permanente, fuori luogo e anacronistico). Ma a oggi, ciò che si avvicina di più a toccare tali corde è proprio questa canzone, perché rende benissimo l’idea di combattere contro una linea immaginaria che un po’ mi perseguita. Una linea che giorno dopo giorno si avvicina minacciosa. La linea che demarca il confine fra “un giorno farò così” e “ormai è andata così”, se mi permettete la citazione di un personaggio di un film di Sorrentino (non vi dico quale). La sezione strumentale è in completa apnea, sembra solo rumore di sottofondo, ma è molto di più. Le distorsioni suonano come i fiati dell’assoluto che si avvicina. Il mixaggio addolcisce l’arrangiamento, facendo adagiare l’ascoltatore su un comodo letto di indolenza: la consapevolezza che nonostante tutti gli sforzi che hai fatto, la linea ti ha sorpassato. La voce di Bilinda Butcher parla in maniera intima, vinta, incurante della frenesia del mondo, la quale ormai ha perso tutto il suo scopo. A quel punto non si potrà fare altro che accettare la sconfitta e accontentarsi. In modo neutro. In modo triste, quindi.
Gioia. A Place To Bury Strangers – Love high
È difficile dire esattamente cos’è (o cos’è diventata) la gioia per me, adesso, alla soglia dei trent’anni. Di sicuro è sempre più difficile isolarla dalla condizione in cui sono immerso. In poche parole, non sono più in grado di provare gioia pura (come quando ero bambino), ma è per forza in condivisione con altre sensazioni dentro a un contesto. Quando fa il suo ingresso però, anche mediata da qualcos’altro, è sempre un sollievo, il cervello la riconosce. Proprio come l’inizio di questo brano degli Un Posto Dove Seppellire Sconosciuti, lo fa in maniera improvvisa. Come una droga, la gioia sale nonostante la confusione della vita non sparisca, nonostante il chiasso non si attenui, nonostante i problemi non svaniscano. Quando la gioia sale, che sia a lavoro, in fila in macchina o a cena con gli amici, ti dona il superpotere di vedere tutto con occhi diversi: te ne freghi, vai oltre. Quando vengo agguantato da questi momenti di pura beatitudine, mi sento invincibile. Un’attitudine che divide le altre persone in chi attiri e in chi ti scansa ancora di più. Un po’ come intima Ackermann alla tipa del brano: o ti fai coinvolgere accrescendo quel raro momento di gioia condivisa o non mi rompere il cazzo rovinando anche il mio. Il tutto, purtroppo, di solito dura sempre troppo poco; in proporzione come quanto una canzone da un minuto e cinquanta secondi. Avvertimento: fate attenzione, qui è facile farsi investire dal casino.
Paura. Chelsea Wolfe –Feral love
Quando ero bambino ero terrorizzato dallo sketch del demone di Fantasia, Una notte sul Monte Calvo di Mussorgsky. Da ragazzino, invece, mi cacai addosso metaforicamente (sì certo, come no…) con L’esorcista. Ma la paura che ho scelto non ha molto a che fare con il terrore. È una paura diversa, più subdola e difficile da distinguere: quella dell’autosabotaggio. Come ho già accennato, ci sentiamo sempre più, almeno in Italia, la generazione spazzatura, quella costretta a schiavizzarsi di lavoro per poi ottenere soltanto situazioni precarie che si riflettono, oltre che nella sfera professionale, anche in quella affettiva. Tutto è provvisorio, anche i sentimenti. Nella perpetua instabilità è difficile riconoscere le occasioni o le persone che potrebbero rappresentare un punto fermo. O meglio, tu le riconosceresti, ma alla fine metterai comunque il bastone fra le ruote, convincendoti che è tutto una merda; il problema è che sulla bicicletta ci sei te. Ecco, io ho paura di questa paura, in un effetto inception che mi manda costantemente in paranoia. Ed è proprio tramite le parole di Amore Feroce che mi immagino avvenga questa sorta di autolesionismo, con la tua stessa mente che intima di “allontanarti dalla luce” o “da chi viene a trovarti”. Che alla fine non è altro che la malattia del nostro tempo. O forse l’ennesima riprova che il peggior nemico di quel perverso essere che è l’uomo, è proprio sé stesso.
Rabbia. Daughters – Daughter
La rabbia è un’emozione potente, e secondo me alquanto pericolosa. La sua forza redentrice può sfogare qualsiasi istinto represso e dare l’onnipotenza della pazzia anche in mano al più innocuo individuo. Io, detto sinceramente fra me e voi, non sono un tipo da rabbia. Raramente mi sono lasciato coinvolgere dalle grinfie dell’ira. Per certi versi è una fortuna, per altri versi invece avrei voluto usufruire di questo strumento almeno in alcune fasi della mia vita. Ma io sono un tipo diverso. Io la rabbia ce l’ho, ma la raffreddo, facendola diventare molto più simile all’odio e al rancore che all’ira funesta. Ma ci sono momenti in cui questo raffreddare rischia di far traboccare il vaso e il mio automatismo emotivo-biologico, per non farla esplodere, la dispensa lasciandola per qualche tempo, quello necessario, al limite della fuoriuscita. Questo crea un effetto di lunaticità che mi fa fissare il baratro per parecchie volte, prima che se ne vada definitivamente imbottigliata nei meandri della mia psiche. Nel brano Figlia dei Figlie ritrovo molto bene questa dinamica. L’attacco è semplice ma cattivo, calmo in superficie ma rigonfio di risentimento. La batteria sembra il timer di una bomba che sta per esplodere. La voce di Alexis Marshall traballa, stonata sputa immagini nefaste ma è conscia di quello che sta accadendo: THERE’S A WAR!
Disgusto. Tool – Stinkfist
Il disgusto è una sensazione prettamente fisica, una repulsione che si percepisce a pelle e poi si dirama nella mente. Secondo me, però, è anche un termometro abbastanza affidabile sui gusti di una persona. Una base istintiva che divide ciò che ti piace da ciò che ti fa schifo. Oltre la tua barra del disgusto è difficile capire, comprendere e accettare, c’è soltanto il rifiuto. Oggi lo utilizzo prevalentemente verso fascisti che parlano di censura e libertà di opinione. Ma oltre al riferimento sull’altro-da-sé, c’è anche un tipo di disgusto rivolto verso sé stessi e, secondo me, non c’è pezzo più accurato nel descrivere questo tipo di emozione di Pugno fetido. Racconta di un amore puro, fisico e intimo che sta naufragando volontariamente nella disperazione. Un amore che ormai ha perso la propulsione iniziale e, invece che venire a patti con la noia della stabilità, ha deciso di scavare oltre la barra del disgusto. Perché non sapendo più come dare piacere all’altro si può provare di tutto, anche il crudele e invasivo fisting. Ma dopo il momento di sollievo, lo schifo e il senso di colpa ci assalgono di nuovo ributtandoci in fondo al pozzo della miseria. Appena la lucidità di chiedersi piangendo che fine abbia fatto la delicatezza, per poi ripartire subito a scavare e cercare di far provare all’altra persona ancora qualcosa, ma è troppo tardi. Qui c’è poco da descrivere: capolavoro.
Desiderio. Esben & the Witch – Dig your fingers in
Quando si parla di desiderio e di lussuria tutti facciamo riferimento alla componente fisica di un amplesso. Durante una conversazione, di recente, ho riscontrato invece che esiste anche un risvolto mentale dell’attrazione amorosa (in me funzionava in parte già così, ma pensavo di essere sbagliato io come in tante altre cose). Lungi da me dire che l’attrazione fisica non sia importante, ma se mi permettete, è altrettanto vero che l’aggancio mentale con l’altra persona contribuisce, e non di poco, a moltiplicare in maniera esponenziale il desiderio. Il che non significa considerare solo l’intelligenza in senso stretto, ma anche la capacità di capirsi non parlando e il fidarsi dell’altro. Questo è un po’ quello che mi configuro quando ascolto Affondaci i’dditi (libera traduzione dal toscano) degli Esben e la strega. È anche ciò che si configura in me quando ho a che fare con questo tipo di sensazione. Si parte in maniera sommessa, sugli scudi e con un filo di voce. Poi, più che si va avanti a conoscersi, si susseguono conversazioni imbarazzanti e in qualche modo spiacevoli, come una lotta nel fango o un vento che ti prende frustate. E il desiderio cresce quando vedi che dopo tutta quella merda nessuno dei due è ancora andato via, fino a che arriva il climax della canzone che sfoga gli istinti animaleschi: “And in the middle of this trembling world, she turned to me and said, don’t sway…dig your fingers in”. Messaggio per la cantante, te l’ho urlato al concerto, te lo ripeto qui: Ti amo Rachel, contattami in privato.
–