Three Faces

La terza faccia della medaglia

Elogio alla tristezza di G. Bindi || Musica e Teatro || THREEvial Pursuit


 

Elogio alla tristezza

Slowdive in concerto

di Gianluca Bindi

 

slowdive fonte www factmag com

Gli Slowdive sono una delle band capostipiti del genere shoegaze, attiva agli inizi degli anni Novanta. Dopo circa vent’anni di silenzio sono tornati nel 2017 con un album inedito.
Ma non è soltanto per questo che sono andato a vederli.

Per chi non lo sapesse, lo shoegaze è un genere particolare che si è originato direttamente dall’alternative rock inglese alla fine degli anni Ottanta. Le caratteristiche principali sono i riff monocorda riverberati, che con distorsioni varie creano il caratteristico “muro di suono”, specialità della casa; le voci che spesso vengono armonizzate alla parte strumentale, e con la quale si confondono (alcune band non hanno nemmeno dei testi ufficiali); i grandi e irreprensibili fan, che sono i veri e propri coniatori dell’etimo, visto che dai loro movimenti con la testa bassa e ciondolante, dal loro “guardarsi le scarpe”, deriva il nome del genere. Per quanto riguarda l’ultimo lavoro della band di Reading, tra l’altro significativamente omonimo, si vira molto più sul dream pop piuttosto che sullo shoegaze puro; questo vuol dire che le caratteristiche principali del genere sono presenti ma non estremizzate, rispecchiando le strutture della canzone pop tradizionale. Proprio questo connubio fra pop, rock, shoegaze e atmosfere trasognate è stato la carta vincente per l’acclamazione plebiscitaria da parte di tutta la critica musicale (cosa che raramente accade per una band al banco di prova dopo un lungo stop).
Ma non è nemmeno per questo che sono andato a vederli.

La cosa più confortante è ritrovare Bologna come l’avevo lasciata: bellissima e in preda all’emergenza meteo. Sì perché la pioggia torrenziale di novembre si è tramutata in neve, che dallo scollinamento dell’Appennino in poi non ha dato tregua alla mia povera Panda a metano. Nonostante il viaggio un po’ difficoltoso, l’attesa del concerto vola via con svariate bevande alcoliche e una pizza al kebab (evviva le grezzate interculturali), che mi godo con i miei due compagni di spedizione.
Dentro il Locomotiv c’è parecchia gente stipata, per la maggior parte appartenente a due filoni culturali. Uno che sta per assaporare gli anni Novanta per la prima volta con coscienza, sebbene fuori contesto; l’altro che quei tempi li ha già vissuti e per una sera farà finta che questi vent’anni (quasi trenta porco cane) non siano passati realmente.
L’essere consapevoli che non torneranno mai però lo ricorda subito a tutti Rachel, la cantante, all’entrata della band sul palco. È chiaro che è sempre meravigliosa, ma il suo fascino è virato, diciamo, un po’ più sul materno, se mi si può passare un termine per descrivere i rassicuranti fianchi larghi e le rughe sul viso.

Finiti i preliminari e le masturbazioni tecniche arriva finalmente il momento tanto atteso. Appena parte Slomo capisco esattamente perché sono venuto. Semplicemente per essere triste. Può sembrare una risposta strana ma fidatevi, è veramente confortante lasciare che il magone salga senza scadere nella depressione. L’atmosfera si implacidisce, e inizia a toccare corde particolari non appena Neil inizia a toccare quelle della sua chitarra.

Give me your love
It’s a curious love

Il “curioso” aggettivo per descrivere il frammento di tempo in cui capisci che una persona sarà importante per te, nel bene e/o nel male. Un attimo, forse uno sguardo in cui, nonostante le infinite variabili per cui potrà naufragare, ti accolli il rischio e navighi nell’oceano tumultuoso di sensazioni. L’amore non ha niente di trascendentale per gli Slowdive, ma è soltanto (non per sminuirlo ma per decostruire il termine da valenze troppo cariche di senso) un insieme di sensazioni piacevoli. Sensazioni piacevoli che entrano in gioco anche quando le cose vanno male e i rapporti si rompono. Il senso di attaccamento per l’altro è più forte proprio quando senti che lo stai perdendo. Qui è il turno di Sugar for the pill:

You know it’s just the way things are

Cinque note riverberate e gli ottavi scanditi sulla cassa sono legati magistralmente dalla fluidità di un basso rotondo e mai autoreferenziale. Il pezzo scivola via praticamente da solo, così come da solo ti ritrovi nei postumi di ogni storia finita male. Se hai fatto di tutto perché ciò non succedesse allora vuol dire che così le cose vanno o dovevano andare. Anche se è evidentemente facile a dirsi, l’assimilazione dei cortocircuiti cerebrali può essere agevolata da questa musica. La tristezza è utile perché fa uscire fuori la rabbia, facendo capire che i cambiamenti possono essere dolorosi, ma bisogna accettarli per andare avanti. Comunque sia e nonostante tutto. Soprattutto quelli che la vita ti costringe tuo malgrado a metabolizzare. Metabolizzare significa accettare che la tristezza ti ripulisca dall’odio, semplicemente per permetterti di nuovo di essere felice. Ed è incredibile come forse io stia parlando al me stesso dell’ultimo anno.

Intanto vengono eseguiti alcuni pezzi storici come Crazy for you, Alison e When the sun hits. A bruciapelo, mentre sto ancora cercando di dare un senso ai miei film mentali, arriva il turno di Avalyn, una delle mie preferite. Non credo di poter reggere l’emozione e decido quindi di chiudere gli occhi. È sempre il basso che regge tutto l’ambaradàn (dalle mie parti è considerato un termine tecnico a tutti gli effetti): dialoga con le percussioni, dà il ritmo e tesse la melodia. Semplice, non banale come una sentenza ripetuta nel tempo.

Silence grows
My feelings flow
I’m dreaming now
Of all the things I know
I’m here on my own

Tutta la poetica degli Slowdive racchiusa in cinque versi. Mi rendo conto di essere sempre stato qualcosa di non molto diverso da sensazioni sconnesse, che mi hanno attraversato a turno durante i vari periodi della mia esistenza. La vita forse non è molto di più che stati d’animo in relazione al tempo. Ma allora perché prendersela con qualcuno, visto che non è lui a farti del male, ma te stesso? Gli atti degli altri sono asettici e privi di strumentalità; è il modo in cui reagisci ad essi che ti arreca dolore. I toni della canzone si fanno più gravi, incanalandosi in un crescendo finale che invece sembra non finire mai. In questi momenti in cui sto ribaltando completamente la mia concezione io-mondo c’è qualcos’altro a cui ho bisogno di tendere. Ho bisogno di capire meno e di sentire di più. Ho bisogno di empatia altrui e di comunicare non solo ed esclusivamente tramite la parola scritta o pronunciata. Forse ho solo bisogno di continuare a ciondolare la testa, a destra e a sinistra, e di toccarmi la barba.
Per chiudere il cerchio devo però descrivere un altro highlight del concerto. Al sopraggiungere delle note di No longer making time mi stampo un bel sorriso sulla faccia. È il momento nel futuro più o meno prossimo in cui i conflitti si ripresenteranno in veste nuova.

You come anyway […]
It comes and goes
You come around and I don’t know why

È il campo neutro dei ricordi, nel quale si può venire a patti razionalmente con ciò che abbiamo già digerito emotivamente. La rabbia è andata via, le vite hanno preso direzioni diverse e ce ne siamo fatti una ragione. Adesso si può parlare e capire. Ciò di cui sono sicuro adesso è che mi sto lasciando travolgere dai suoni e dalle emozioni. Dalle luci e dai colori. Consapevole finalmente che la vita è bella anche perché immensamente triste. Non tanto per le cose brutte che capitano. Ma soprattutto per il fatto che se capitano, non siamo quasi mai in grado di farci nulla.
Il concerto finisce con 40 days, altro classico. La mia amica mi guarda e mi abbraccia. Siamo felici. Dopo un po’ riaffiora anche l’altro, che avevamo perso nel marasma della folla. Dopo aver assistito a questa conferenza musicale sull’intelligenza emotiva, andiamo fuori e iniziamo a fare a pallate di neve.

 

Fonte immagine: www.factmag.com

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