Da Bar a Split
Prendendola lunga
di P. Tiziana Caudullo
Quando ripenso al viaggio trascorso tra il Montenegro, la Bosnia ed Erzegovina e la Croazia, è come se pensassi a qualcosa che non è ancora finito. Eppure sono passati quasi quattro mesi. Ho lasciato qualcosa in sospeso lì, al di là dell’Adriatico, e forse non riuscirò a scoprire che cos’è fino a quando non tornerò. Cerco degli indizi nel taccuino che avevo appresso.
Giorno II. Mal di testa leggerissimo, musica piacevole rock tipo anni Cinquanta, appeso alla parete un vecchio salvagente rosso con lettere bianche che dicono ORION STAR NAPOLI, di fronte a me una giovane ragazza dai capelli lunghi finisce di mangiare la sua zuppa inforchettando i pezzi solidi rimanenti, è sola al tavolo, Simo guarda una partita di calcio dalla profondità della poltrona rossa in cui sta affogando, aspetta dei calamari ripieni.
Eravamo nella zona ristoro del Camping Mimoza, vicino Kotor sulla costa montenegrina, e quella si rivelò fino alla fine una giornata colma di strani imprevisti.
Quella stessa mattina infatti, un signore montenegrino e due ragazzi serbi che quasi non parlavano inglese avevano ripescato le chiavi della nostra auto chiuse nell’auto stessa (colpa mia, lo ammetto), grazie a un unico centimetro aperto del finestrino posteriore e a un lungo e spesso uncino artigianale di fildiferro. Le uniche parole che abbiamo capito di quello che dicevano tra loro ridacchiando: “mafia serba”. Ottimo.
La sera invece, dopo i calamari ripieni, un giovane ragazzo genovese vicino di tenda si sarebbe fatto esplodere addosso una bomboletta di gas per il fornelletto da campeggio, inondando di fiamme se stesso (è ancora vivo), la sua tenda (che si è in parte bruciata) e la vegetazione circostante (per fortuna con danni limitati). Noi, che chiacchieravamo con la sua ragazza, saremmo corsi via in direzione opposta scampando alle fiamme. Considerando la presenza di una bomboletta a gas proprio lì a mezzo metro, piena, avremmo poi gridato al miracolo.
In generale però, oltre alla mera aneddotica (per quanto divertente), ciò che mi hanno lasciato quei giorni in Montenegro, che fossimo a Kotor o nel Parco Nazionale di Durmitor, è stata l’inaspettata attitudine dei Montenegrini.
L’impressione che ti danno, infatti, a partire dai gestori dello stesso Camping Mimoza, è di avere fiducia. Nessuno ci conosceva, e in quanto Italiani avrebbero dovuto fidarsi ancor meno, invece no: nessun braccialetto per l’ingresso nel campeggio, nessun controllo sulla dimensione della tenda o sui giorni trascorsi, la gente per strada lascia il proprio casco poggiato sul sellino del motorino senza bloccarlo in alcun modo. Eppure il Montenegro non è un Paese ricco, e dalle nostre parti le popolazioni dei Balcani non hanno una gran reputazione quando si parla di microcriminalità. Invece le persone si fidano di te, ed è questa forse la cosa che del Montenegro mi ha colpito di più.
Vabbè… Insieme alla maestosità della natura, alle montagne ripide e scure, ai mari limpidi, ai laghi inaspettati dalle forme più disparate, ai boschi fitti e inquietanti e alle distese di prati verdi, al fiume Tara e al canyon che ha scavato nella roccia. Attraversando il Montenegro si ha la possibilità di vedere un paesaggio in continua trasformazione, ricco e variegato, ma sempre e in ogni caso maestoso.
Giorno V. Salutiamo Durmitor e il Montenegro. Mi piange il cuore al sol pensiero. La strada calcolata dal navigatore per il confine bosniaco e Sarajevo ci fa attraversare il parco. È tutto un accostare e scendere dall’auto per assaporare il paesaggio infinito e l’aria fresca. Posti splendidi, i cui ricordi non basteranno a riassaporarne la magia.
La verità è che Sarajevo è una città splendida. Certo, dopo le giornate nella natura incontaminata vedere palazzi e asfalto, lì per lì, me l’ha fatta prendere male, ma non ci ha messo tanto a passare.
La prima cosa che ha contribuito a farmi rendere conto della bellezza della città è stata la signora Maria: una donna tondetta e bassa, proprietaria della guest house presso cui abbiamo alloggiato, che mi ha abbracciato calorosamente dandomi il benvenuto ancora prima di conoscere il mio nome.
Sì, perché la bellezza di Sarajevo non è nella semplice struttura cittadina. Anzi, se ha qualcosa di meno bello è proprio quello: l’architettura della città, per quanto variegata e affascinante, porta ben chiari i segni di una guerra non troppo lontana. La bellezza di Sarajevo è nella sua gente, in cui convivono tradizioni e religioni tra le più disparate e contraddittorie. La città multiculturale per eccellenza.
Gli abitanti di Sarajevo vivono ogni giorno una città che non risparmia loro i ricordi di quel massacro: distese di cimiteri in pieno centro cittadino, fori di kalashnikov che interrompono fitti la linearità degli edifici, targhette commemorative che richiamano il coraggio di giovani combattenti caduti.
La signora Maria come prima cosa, dopo averci mostrato la nostra stanza al primo piano, ci ha offerto il caffè bosniaco, fatto secondo la ricetta che la sua famiglia tramanda da generazioni, di madre in figlia. Era semplicemente squisito, e non avrei più bevuto in alcun locale o bar un caffè bosniaco come il suo. Mi racconta che quando era piccola osservava spesso sua madre e le sue amiche bere il caffè: lo facevano anche per ore, dice, inzuppandovi di volta in volta un cubetto di zucchero e succhiandolo da lì.
La signora Maria vive da sola con suo figlio e sorride sempre. Sulla facciata della loro casa si riconoscono i fori di kalashnikov stuccati, in corrispondenza del piano terreno, e quelli ancora in bella vista in corrispondenza del primo piano. Potevamo vederli affacciandoci dalla finestra della nostra stanza; potevamo toccarne la profondità con mano, allungando un braccio.
È difficile descrivere l’effetto che fa visitare una città in cui il ricordo della guerra è ancora così vivo.
Penso all’importanza dell’accettazione del prossimo, dell’integrazione e della tolleranza; non per ottenere una ‘pace di comodo’, ma perché è l’unico modo che abbiamo per rendere la giusta dignità che la definizione di “umano” richiede.
Lascio la Bosnia ed Erzegovina, oggi come allora, con un po’ di amaro in bocca… Mi aspetta il ricordo degli ultimi giorni passati in Croazia.
Giorno XI. Mi sveglio con la luce e con il caldo, e al tramonto inizio a preoccuparmi di mangiare qualcosa e organizzarmi per la notte. Poi cala il buio pesto, e non c’è altro da fare che dormire. Conosco tutti i rumori notturni: me li sono studiati tra la prima e la seconda notte qui, e ora li identifico subito, evitando di svegliarmi per qualunque cosa.
Abbiamo piantato la tenda a circa un metro e mezzo dall’acqua. Siamo sulla costa croata, vicino Šibenik. Di fronte a noi, dall’altra parte della costa, si erge dall’acqua la Fortezza di San Nicolò, risalente al sedicesimo secolo.
Niente acqua corrente, né luce artificiale. Nessun bagno, né una cucina (dopo la simpatica esperienza del secondo giorno abbiamo accuratamente evitato l’utilizzo del fornelletto da campeggio). Svegliarsi nel bel mezzo della notte col bisogno di fare pipì e doversi inoltrare nel bosco: esperienza significativa.
Il campeggio libero mi ha permesso di sbrigliarmi da questa serie di costruzioni alle quali sono fin troppo abituata, in città; lì mi sono resa conto di quanto siano artificiali. Il fluire delle giornate si era allineato con il naturale scorrere del tempo; non percepivo più la giornata come divisa in ore, minuti e secondi, ma secondo i bisogni trasmessi dal corpo e le possibilità fornite dall’ambiente (ho fame: è ora di mangiare; il sole tramonta: mi godo il rosso del mare e preparo la tenda per la notte).
Il traghetto per Ancona sarebbe partito la mattina del 15 agosto da Split, città poco distante da Šibenik. Arrivederci, Balcani. La costa croata sparisce pian piano oltre l’orizzonte.
Per concludere, mi sa che quegli indizi di cui parlavo all’inizio non l’ho mica trovati. Sarà perché questo viaggio è stato più educativo che di svago, ed è bene che i suoi insegnamenti non si esauriscano con il ritorno alla vita di tutti i giorni. Non ho lasciato nulla in sospeso, al di là dell’Adriatico: sono invece la fiducia nel prossimo, la fratellanza, la connessione con la natura e la signora Maria che sono venuti via con me. Pensandoci, come potrebbe essere altrimenti?