Partigiani e memoria divisa
Dall’estate di sangue del 1944 all’occultamento dei colpevoli
di Gianluca Bindi

Ci risiamo. Ogni anno, per la festa della Liberazione, ci tocca sentire ogni genere di lordura sulla memoria di chi si è sacrificato sul fronte italiano durante quel periodo infernale tra la fine del ’43 e il 25 aprile 1945. Delle migliaia di morti del passaggio dei tedeschi sulla penisola, solo in Toscana ci furono, in neanche tre mesi, tra le 4000 e le 5000 vittime civili[1]. Di chi è la colpa?
La vox populi odierna sembra puntare il dito praticamente soltanto sui partigiani. Nelle migliori delle ipotesi, festeggiare la Liberazione dai nazifascisti e la conseguente fine della Seconda Guerra Mondiale è diventato divisivo. In questo articolo, il più brevemente e chiaramente possibile, descriverò come è stato possibile un tale trasferimento delle colpe in 75 anni, provando a essere una guida contro le male voci e le fake news che tentano di cambiare la percezione della memoria di un evento complesso.
I briganti
È colpa dei partigiani se ci furono rappresaglie; se non avessero attaccato l’esercito tedesco quest’ultimo non avrebbe rastrellato e ucciso civili innocenti.
Ormai è diventato un ritornello ricorrente. E, anche se a volte c’è stata una diretta conseguenza causale fra uno scriteriato attacco partigiano ai tedeschi e la messa a ferro e fuoco di interi paesi, non è stato sempre così. Anzi. Riassumiamo brevemente la situazione aggiornata all’estate del 1944: L’Italia è divisa in due. A nord c’è la Repubblica Sociale italiana (stato fantoccio del Reich con a capo Mussolini), mentre a sud gli Alleati stanno liberando a mano a mano la penisola. Nel mezzo c’è l’esercito tedesco in ritirata con reparti delle SS che stanno inondando di sangue la popolazione civile. Perché? I tedeschi stanno attuando una strategia militare denominata ‘ritirata aggressiva’.

Ufficialmente stanno impegnando l’esercito Alleato durante la risalita per guadagnare tempo e reperire manodopera schiava; infatti secondo il capo delle truppe, il feldmaresciallo Kesselring, l’unica speranza per la Germania per evitare la sconfitta è finire di costruire una linea corazzata di difesa sugli Appennini tosco-emiliani, denominata Linea Gotica. In pratica, però, non è altro che un’indiscriminata attuazione dei più efferati crimini di guerra su civili inermi. E c’entrano poco o niente gli attacchi dei partigiani. Molti eccidi toscani sono stati attuati con gelida razionalità, per liberare territori per la ritirata e, preventivamente, attaccare paesi in cui ‘avrebbero potuto’ esserci bande armate. Non siete ancora convinti? Bene, continuo. Il 17 giugno 1944 Kesselring dipana un ordine a tutte le sue truppe, prendendo spunto dal cosiddetto ‘Foglietto di istruzioni’ o Merkblatt 69/1 in cui:
- Veniva cancellata la linea di demarcazione fra la popolazione civile e i partigiani; ergo tutti potenzialmente potevano essere partigiani, anche donne, vecchi e bambini.
- Totale arbitrarietà ai comandi locali su chi fiancheggiasse o appartenesse a bande di partigiani in una determinata zona;
- Infine, Kesselring in persona, garantiva quella che poi sarebbe passata alla storia come ‘cambiale in bianco’, ossia non solo la totale copertura a comandanti e soldati che avessero ecceduto nelle misure repressive contro la popolazione, ma anche esemplari punizioni a chiunque avesse esitato o avuto comprensione verso i ‘nemici’ civili[2].
Dunque a questo punto la strategia della Wehrmacht è abbastanza chiara: non la dichiarata quanto folle volontà di massacrare la popolazione per distruggere le bande, ma la paralisi delle coscienze tramite lo spargimento di sangue senza senso, per arrivare a recidere a monte il cordone ombelicale fra popolazione civile e Resistenza (risultati maggiori e costi minori rispetto all’affrontare i partigiani).
Massacri che comportarono soltanto l’intensificarsi della lotta perché, un uomo che ha perso parte o la totalità della sua famiglia per ritorsione, codardia, efferatezza, o a cui è stata bruciata la casa, non può far altro che continuare a combattere. E così via, in un circolo vizioso in cui i tedeschi si sentivano ancora più autorizzati a colpire a ogni contrattacco ricevuto e, contemporaneamente, vedevano confermata la loro tesi fasulla sulla colpa dei morti degli eccidi sui partigiani.
“(…) Le colpe partigiane sono solo un pretesto che non giustifica le centinaia di vittime a fronte di qualche soldato tedesco ucciso e ferito (…). Nel corso dei mesi la ratio della rappresaglia subisce una serie di slittamenti progressivi verso qualcosa di sostanzialmente altro, evidenziando che la logica della terra bruciata non può essere giustificata all’infinito.”[3]
Un’ulteriore svalutazione della tesi iniziale viene direttamente dal fronte amico. Gli Alleati incoraggiavano gli interventi delle bande sia armati sia di sabotaggio tramite sovvenzioni, approvvigionamenti di armi e proclami direttamente dalle frequenze di Radio Londra; tanto che nel ’45 i processi ai tedeschi si preferì istituirli in corti militari britanniche perché i crimini contro i civili erano stati commessi per reazione ad attività incoraggiate dagli Alleati stessi. [4]
Infatti, il capo delle forze Alleate nel Mediterraneo Alexander (così come anche Badoglio[5]), già da maggio incitava “a uccidere in ogni occasione i tedeschi, incurante delle inevitabili conseguenze che sarebbero ricadute sulla popolazione civile”[6].
Altra pressione per l’intervento armato contro l’invasore: i contadini. In quel frangente, subito dopo le vittime per la guerra, c’erano quelle per la fame. Quando la Wehrmacht transitava con tutti i suoi innumerevoli effettivi, saccheggiava bestiame, raccolti, cibo e ogni tipo di rifornimento alla popolazione locale, che già non sapeva come sfamarsi. Questa una testimonianza a ridosso dell’eccidio del Padule di Fucecchio del 23 agosto 1944 (174 vittime civili):
“Risulta perciò da testimonianze indubbie che i contadini del luogo, i quali avevano fornito viveri ai partigiani, insistettero onde ottenere il loro intervento”[7].
Così come il sacerdote del paese, Primo Egidio Magrini, che conferma le razzie tedesche e la mobilitazione contadina[8]. Ciò delinea ancor più chiaramente l’identità dei partigiani in questa prima fase di guerra civile: gente comune che fa una scelta, spinta sia dal rifiuto dell’ideologia nazifascista, sia soprattutto da motivazioni di sostentamento e di protezione dei legami familiari e della propria comunità (la famigerata questione privata). In quella situazione assurda e funesta, non si poteva non scegliere.
Quindi, tornando alla tesi iniziale, non ci fu nessuna prova di una minaccia partigiana che giustificasse alcun tipo di strage da parte dell’esercito tedesco (semmai si possano giustificare) prima dello sfondamento della Linea Gotica. Anzi, ci sono molti indizi che portano a constatare che la brutalità degli eccidi, almeno fino a tutta la primavera del ’44, non ha avuto nessun rapporto con il pericolo effettivo rappresentato dai partigiani[9]. Solo dopo la strage di Marzabotto (29 settembre-5 ottobre 1944, 775 vittime) si ebbe una svolta nel movimento; infatti, dall’autunno del ’44:
“il movimento partigiano crebbe a tal punto che ormai si doveva parlare di una vera e propria guerra in cui i partigiani armati acquistarono sempre più, agli occhi della Wehrmacht, lo status di combattenti”[10].
Da carnefici a ‘povere’ vittime: i fascisti collaborazionisti

Non preoccupatevi, il peggio deve ancora arrivare. Sì, perché la crudeltà dei nazisti va di pari passo con i loro complici fascisti. Anche qui breve ricapitolo. Il 10 luglio del 1943 viene effettuato lo sbarco Alleato in Sicilia. Mussolini vede il suo esercito disgregarsi e il consenso cadere a picco. Il 25 luglio il re e alcune massime cariche fasciste attuano un colpo di stato: il duce è imprigionato sul Gran Sasso. Il generale Badoglio, nuovo capo del governo, prima dichiara che l’Italia onorerà gli impegni di guerra presi a fianco della Germania; poi, invece, l’8 settembre firma l’armistizio e passa dalla parte degli Alleati. La popolazione italiana gioisce credendo che sia la fine della guerra, ma la situazione si presenta subito drammatica.
Hitler è su tutte le furie: prima fa liberare Mussolini con un commando di paracadutisti (12 settembre) e lo mette a capo della Repubblica Sociale Italiana; poi schiera le sue armate sulla Linea Gustav (dal Lazio all’Abruzzo) per contrastare palmo su palmo l’avanzata Alleata. L’Italia è divisa in due. Il re e Badoglio fuggono da Roma e si rintanano a Brindisi, non dando alcuna indicazione all’esercito italiano impegnato sui vari fronti. I tedeschi cattureranno 600.000 soldati italiani allo sbando deportandoli nei campi di concentramento; molte migliaia invece furono fucilati sul posto. Altri riusciranno a tornare e a unirsi ai primi nuclei della Resistenza.[11]
Durante la ‘campagna d’Italia’ di Kesselring molti fascisti rimasti fedeli al duce e a Hitler fiancheggiano la Wehrmacht macchiandosi di crimini abominevoli[12]. Oltre allo spionaggio, i fascisti, conoscendo a menadito i luoghi dove erano nati e cresciuti, guidano i tedeschi in quasi tutti i massacri di civili. Non solo, lo fanno nella maniera più spregevole: si travestono da militari del Reich e si coprono il volto per non essere riconosciuti dai propri compaesani. Con i loro preziosi consigli procurano la morte di migliaia di uomini, donne, vecchi e bambini che parlano lo stesso dialetto e che appartengono alle stesse radici, senza nemmeno avere il coraggio di presentare la propria faccia. Sempre prendendo spunto da alcune testimonianze dell’eccidio del Padule:
“Italiani camuffati al Pratogrande di sopra. Entrare in una corte, un mucchio di soldati a quella maniera e due bendati… del paese. Gente che si conosceva, sennò ‘un venivan bendati, è chiaro.”[13]
“«Entrarono in casa e cominciarono a mitragliare». Oreste Silvestri sente dire Scendete giù criminali, addirittura in accento toscano; anche poco dopo, quando è ferito e si finge morto, mentre lo rovesciano con un forcone sente in italiano: Sparategli ancora! (…) L’accento toscano è notato, specialmente a Pratogrande e alle case Simoni e Silvestri.”[14]
Ah, per ‘criminali’ il camerata intende civili supposti fiancheggiatori di partigiani, anche se varie fonti escludono la presenza di essi nella gronda della palude. Le vittime dell’eccidio sono state quasi esclusivamente donne, vecchi, bambini e sfollati totalmente innocenti e incapaci di difendersi (la vittima più giovane era di pochi mesi, mitragliata in culla, la più vecchia era di oltre novant’anni, cieca, fatta saltare con una granata messa in tasca del suo grembiule).
Qui si va oltre l’ideologia di guerra, si va oltre anche la tesi (non perdonabile né tanto mai comprensibile a questi livelli) della vendetta dei tedeschi ‘traditi’ dal proprio alleato. Addirittura il duce in persona nell’agosto del ’44 protesta timidamente contro le stragi sistematiche sui civili, non venendo minimamente ascoltato.[15] Il destino della guerra era segnato già a giugno del ‘44 (gli Alleati erano sbarcati in Normandia e la Linea Gotica, ancora lontana dall’essere ultimata, sarebbe stata oltrepassata a settembre). Ma l’obiettivo dei coraggiosi e temerari fascisti, coscienti di non avere più speranze di vittoria, è quello di praticare uno sfregio sulla popolazione civile, una ferita sanguinosa e sfigurante sulla psiche della comunità che tutt’ora non si è rimarginata.
Tanti collaborazionisti furono riconosciuti comunque e dopo la fine della guerra fuggirono, con famiglie al seguito, dai paesi che loro stessi avevano contribuito a massacrare. Altri fascisti furono uccisi sia da ex partigiani, sia da gente comune che non aveva dimenticato, in una scia di sangue che continuò in tutta Italia per almeno due anni e per la quale, ancora oggi, la stampa di destra diffonde la retorica dell’ingiusto trattamento che quei ‘valorosi’ uomini si sono visti infliggere dopo il cessate il fuoco.[16] I carnefici si trasformano in vittime. Ancora oggi quasi tutti i nomi dei collaborazionisti dell’epoca rimangono ignoti. Ciò ha contribuito alla dislocazione delle colpe dei morti della Resistenza, ma non è l’unico motivo. Il fattore determinante, purtroppo, è il ruolo che ha avuto la giustizia italiana e internazionale nei processi del Dopoguerra. Proviamo a capire cosa è successo.
La (in)giustizia del Dopoguerra
Il processo a Kesselring fu istituito a Venezia e durò dal 10 febbraio al 6 maggio 1947. Fra tutti i crimini commessi sotto il suo comando (ricordo che fu feldmaresciallo delle truppe tedesche in Italia da settembre ’43 a fine ottobre ’44 e che tutti gli ordini dei massacri ai civili durante questo periodo erano stati emanati direttamente da lui), l’accusa gli contestò soltanto l’eccidio delle Fosse Ardeatine a Roma, e quello di Fucecchio. Le indagini che i gruppi di investigazione Alleati avevano svolto tra il ’44 e il ’46 mostrarono evidenti segni di squilibrio e molti eccidi furono archiviati con la motivazione della mancata certezza dei responsabili.[17]

La presa di coscienza delle stragi italiane non fu subito lampante, tanto che inizialmente si pensava che i crimini commessi facessero riferimento quasi totalmente contro militari e civili Alleati[18]. Infatti fra i capi di imputazione non figuravano addirittura gli eccidi di Marzabotto e di Sant’Anna di Stazzema (12 agosto ‘44, 560 vittime). Sul banco degli imputati, il feldmaresciallo “negò di aver saputo di atrocità commesse contro le popolazioni civili”[19]. Ciononostante Kesselring fu sentenziato colpevole e fu condannato a morte tramite fucilazione.
A questo punto ci fu un colpo di scena inaspettato. Contro la sua condanna reagirono duramente Churchill e Alexander[20], ossia il primo ministro inglese e il comandante delle forze Alleate nel Mediterraneo (quest’ultimo aveva combattuto contro di lui per mesi nella risalita della penisola). Le pressioni furono così forti che la condanna fu commutata in carcere a vita dal giudice militare Hardling[21] e, ad ottobre del 1952, gli fu concessa la grazia[22]. Kesselring è morto da uomo libero nel 1960.
Il perché è da ricercare nelle scelte e nella politica internazionale dell’Italia nel Dopoguerra. Negli anni Cinquanta il nostro Paese si ritrovava di nuovo alleato della Germania (o di quello che ne rimaneva) assieme a Stati Uniti e Inghilterra, in un blocco atlantico teso a contrastare qualsiasi deriva di sinistra; anche se questo voleva dire non condannare un criminale nazista che le forze Alleate avevano combattuto a fianco fino all’ultimo giorno della Seconda Guerra Mondiale.
“Alle forze moderate e conservatrici, che gestirono il potere nei decenni immediatamente successivi alla Liberazione, non è difficile attribuire la responsabilità di aver usato in chiave strumentale risentimenti, rancori, sentimenti di dolore autentico in funzione di crociata anticomunista, quindi antipartigiana”[23].
E ciò era stato tremendamente in linea con l’Amnistia Togliatti, vagliata dal governo italiano il 22 giugno del 1946 con l’obiettivo di acquietare gli strascichi della sanguinosa guerra civile. Un conto però è amnistiare, un altro è insabbiare. Infatti solo negli anni Novanta sono stati messi a disposizione gli archivi inglesi, americani e tedeschi sulle stragi in Italia, consentendo una maggiore e dignitosa ricerca storiografica.[24]
Nel 1994 a Roma addirittura fu rinvenuto dal procuratore militare Antonino Intelisano presso la Procura generale militare in via degli Acquasparta un armadio con le ante rivolte verso il muro, contenente 695 fascicoli di inchiesta sui reati e i crimini di guerra durante l’occupazione nazifascista e testimonianze dei superstiti raccolte dai servizi segreti britannici; fu denominato ‘Armadio della vergogna’[25]. Grazie al vaglio di questi documenti top secret la magistratura fu in grado di venire a conoscenza, processare e condannare (anche se tardivamente) molti criminali nazisti ancora a piede libero. Il contenuto dell’armadio è stato interamente desecretato nel 2016 ed è disponibile, tramite ordine, sul sito della Camera dei Deputati.

Questo ‘oblio’ volontario è stato il fattore determinante per la nascita della cosiddetta memoria divisa, ossia la scissione fra i fatti avvenuti nel 1944 e la percezione antipartigiana diffusa oggi. Ciò che è arrivato ai familiari delle vittime e a tutte le comunità colpite dai vergognosi intrallazzi politici e insabbiamenti in clima guerra fredda, è stata l’assenza di condanne esemplari ai colpevoli nazifascisti; il che “equivaleva ad una implicita assoluzione”[26].
Questo ha portato a un corollario pericoloso: se nessuno paga, le migliaia di morti, oltre ad essere state insensate nei metodi, sono diventate anche senza movente. Perciò, se da una parte venivano amnistiati gli assassini, le memorie colpite hanno dovuto rintracciare un colpevole tramite cui comprendere i massacri: i partigiani. Se da una parte i nazifascisti hanno usato criminosamente le stragi come strumento di battaglia e non come rappresaglia non venendo condannati, i partigiani si sono ritrovati rei “non solo e non tanto per avere commesso qualche azione di guerra infelice o errata, ma per il fatto stesso di essere esistiti come patrioti e di avere combattuto”[27].
Oggi è venuto il tempo di far crollare questo castello di costrutti fasulli e far reintraprendere alla memoria una migrazione verso il proprio punto d’origine dal quale è stata sfrattata: la verità. Non perdiamo questa occasione.
[1] U. Jona, Le rappresaglie nazifasciste sulle popolazioni toscane. Diario di diciassette mesi di sofferenze e di eroismi, ANFIM, Firenze 1992, elenco dei morti consultabile a questo link.
[2] L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia. 1943-1945, p.333, Bollati Boringhieri, Torino 1993.
[3] I. Tognarini, Kesselring e le stragi nazifasciste. 1944, estate di sangue in Toscana, Carocci, Roma 2002, Regione Toscana, Firenze 2002, pp. LXII-LXIII.
[4] M. Battini e P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Marsilio, Venezia 1997, p. 200, che cita Record of a meeting held in Hobart House to discuss Minor War Criminal Trials, 20 agosto 1945, PRO WO 32/14566.
[5] Cfr. R. Lamb, War in Italy 1943-45. A brutal story, Penguin Books, Londra 1993, pp. 92-93.
[6] V. Ferretti, Kesselring, Mursia, Milano 2009, p. 224.
[7] Relazione dell’attività formazione partigiani Silvano Fedi di Ponte Buggianese, 30 settembre 1944, ISRT, fascicolo Silvano Fedi n. 15.
[8] P.E. Magrini, Barbarie e vittime. Memorie di tre giorni di ferocia tedesca a Ponte Buggianese nel 1944, Pescia 1945, ristampato in M. Bonanno (a cura di), Barbarie e vittime. Memorie di padre Primo Egidio Magrini, Editrice CRT, Coscienza, realtà, testimonianza, Pistoia 2004, pp. 5-9.
[9] Cfr. Klinkhammer, L’occupazione tedesca, cit., p.338.
[10] I. Tognarini, Kesselring e le stragi nazifasciste, cit., p. XLIII.
[11] Cfr. A. M. Banti, L’età contemporanea. Dalla Grande Guerra a oggi, Editori Laterza, Bari 2009, pp. 236-239.
[12] Cfr. Klinkhammer in L’occupazione tedesca (op. cit.), pp. 430-433. L’autore fa riferimento a dati ufficiali della repressione congiunta nazista e fascista che si attesta a 120.000 morti soltanto fra i civili in 20 mesi di occupazione, ma le stime sono decisamente al ribasso.
[13] Intervista del 12 giugno 1997 a Eugenio Cappelli e Iliana Giuntoli, in M. Folin (a cura di), Popolo se m’ascolti… Per le vittime dell’eccidio del Padule di Fucecchio. 23 agosto 1944, Diabasis, Reggio Emilia 2005.
[14] Testimonianza di Oreste Silvestri, Special Investigation Branch (SIB), 15 febbraio 1945, in L. Baiada, Raccontami la storia del Padule. La strage di Fucecchio del 23 agosto 1944: i fatti, la giustizia, le memorie, Ombre Corte, Verona 2016, p. 106.
[15] Cfr. V. Ferretti, La Resistenza nel pistoiese e nell’area tosco-emiliana (1943-1945), Consiglio regionale della Toscana, Firenze 2018, pp. 44-45.
[16] Rispetto per tutti i morti tranne per quelli usati in malafede per coprirne altri.
[17] Cfr. I. Tognarini, ivi, pp. XXVII-XXVIII.
[18] Ibidem.
[19] I. Tognarini, ivi, p. XXIX.
[20] War Office 32/15490, 11A.
[21] Cfr. I. Tognarini, ivi, p. XXX.
[22] Cfr. I. Tognarini, ivi, p. LXXIV.
[23] I. Tognarini, ivi, p. XLVII.
[24] Cfr. I. Tognarini, ivi, p. LXXXVI.
[25] F. Giustolisi, L’Armadio della Vergogna, l’Espresso, 9 novembre 2000.
[26] I. Tognarini, ivi, p. LXXIV.
[27] Ibidem.
